Già, il Novecento è stato il secolo delle riviste. Spesso estemporanee, spassose, ideologiche, ne amo almeno tre: “Blast” (dell’idra Ezra Pound/Wyndham Lewis); “900” (sempiterna lode a Massimo Bontempelli & Curzio Malaparte); “Minotaure” (del satrapo André Breton: le copertine, di Picasso, Magritte, Matisse, Duchamp, erano bellissime). Un tempo amai “La Torre”, vaga fanzine di Federigo Tozzi. Ecco, le riviste, per essere tali, devono stare tra il fugace e il velleitario: scoppi nella notte della cultura, specchi. Rivoluzioni.
“Sur”, a contrario, non ha cambiato nulla: ha creato, quasi dal nulla, la cultura argentina. Il successo fu radioso, grazie a una quarantenne molto ricca, proverbialmente antipatica, assai sagace, Victoria Ocampo. Il primo numero di “Sur” fu pubblico nel 1931, “Tu mi hai affidato questo compito”, scrive Victoria a Waldo Frank, scrittore, americano, socialista, con l’ambizione alla sovversione, “finalmente sconfitta, l’ho accettato come un dono”. Fu radical chic, insopportabile, geniale, la Ocampo: voleva una rivista che promuovesse il “liberalismo aristocratico, spirituale, culturale”, cosmopolita, come piaceva a lei. Fu attaccata da sinistra, ovviamente – “propone un messaggio elitario, estetizzante, europeo”, dicevano – e da destra. A casa sua ospitò Tagore, Albert Camus – nelle edizioni di Sur aveva pubblicato Calígula e El verano –, Dreu La Rochelle, amatissimo. Venerava T.E. Lawrence – a cui dedicò una biografia di sintetica intensità, 338171 T.E., edita di recente da Settecolori – e Virginia Woolf, negli anni tradusse Graham Greene e Colette, Dylan Thomas, Paul Claudel, Gandhi. Nelle edizioni della rivista Borges pubblicò il suo libro epocale, Ficciones, grazie a “Sur” – come ricorda Pablo Gianera su “La Nacion”, in una articolessa dedicata a Los 90 años de “Sur” – atterrano in Argentina Martin Heidegger, Jack Kerouac (tradotto da Juan Rodolfo Wilcock), la Dialettica dell’illuminismo di Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, El mundo del sexo di Henry Miller. Il denaro concedeva l’ampia libertà di stare nei ranghi della contraddizione: nelle fotografie ‘di redazione’ è lei, Victoria, viso severo, capelli perfetti, sciarpe sgargianti e improbabili, a dominare.
Nel primo numero di “Sur”, l’editoriale di Victoria Ocampo si alterna ad articoli di Jules Supervielle, Eugenio d’Ors, Walter Gropius e dell’onnipresente Borges. Drieu detta la poetica Carta a unos desconocidos: “Non conosco l’America. Non ho mai viaggiato. Non ho mai fatto nulla in America, né in Asia. In Africa, qualcosa, forse. Non conosco i tropici. Conosco solo il deserto, tra la zona temperata e quella tropicale. Avete deserti simili, lì, al Sud? Non ho mai viaggiato, ma ho sognato tutte le parti del mondo. Oggi un uomo degno di questo nome porta nel proprio cuore sensibile tutte le parti del pianeta”. Benjamin Fondane, invece, scrive un saggio, El cinema en el atolladero, in cui stigmatizza l’uso del sonoro nel cinema, un’arte, a suo dire, “che attualmente non è che la copia di una non-arte”. “I film devono tornare a essere ciò che sono”, continua Fondane, “l’arte viziata dei tempi moderni, il viola a misura di pedone, la consolazione metafisica delle folle”.
Certo, la generosità dei mezzi, il dolciume da intellettuali parigini in America Latina, non poteva che indiavolare Witold Gombrowicz, “Quell’insistente sentore di milioni, quell’intenso profumo di soldi aleggiante attorno alla signora Ocampo mi toglievano la voglia di fare la sua conoscenza”, scrive, in una esilarante controcronaca di “Sur” calcata sui suoi Diari, nel 1955. Le micidiali stoccate vanno lette sinotticamente all’impresa, eccezionale, della Ocampo, “un’anziana e aristocratica signora piena di milioni, la cui entusiastica ostinazione l’aveva portata a diventare amica di Paul Valéry, a ricevere Tagore e Keyersling, a prendere il tè con Bernard Shaw e a entrare in confidenze con Stravinskij”. Detto questo, alcuni numeri di “Sur” sono un autentico patrimonio. André Malraux, per dire, novant’anni fa scrive A propόsito de “Lady Chatterley’s lover”, con la consueta, magmatica energia: “Una volta terminato il suo manoscritto, Lawrence lasciò all’editore e ai suoi collaboratori il compito di sopprimere ciò che lo spirito pubblico non avrebbe potuto sopportare: non sei il primo romanziere del tuo paese senza sapere di doverti confrontare con l’idiozia umana. Ma l’attrazione per il dolore fisico, la profezia ripetuta della morte, gli imposero di concentrarsi sulla necessità di scrivere e pubblicare, prima di morire, quel libro firmato David Herbert Lawrence. Quell’uomo che cammina verso il nulla dice che si mostrerà nudo – per la prima volta senza maschere – e sessuato”.
La rivista pubblicherà, negli anni, Antonin Artaud e Vladimir Nabokov, Sartre e Aldous Huxley e Horacio Quiroga, William Faulkner, Roger Callois, Alejandra Pizarnik, André Gide… Fu una palestra, una sontuosa setta, una ammissione, in fondo, di inferiorità della cultura autenticamente argentina rispetto a quella europea, per lo più francese. L’avventura di “Sur”, tuttavia, permise, dai gioielli, di scoscendere nel fango, dall’attico parigino di studiare la pampa: lo dimostra l’opera di Borges, pregna di sangue e di gnosi, di transumanza filosofica, di coltelli, di guerre, alto specchio della metafisica argentina, che duella in un celeste sfrenato.
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Film
Quella pellicola che misteriosamente si chiama Luci della città, di Chaplin, ha incontrato l’applauso incondizionato di tutti i nostri critici; è pur vero che l’acclamazione palese è una prova dei nostri irreprensibili servizi giornalistici più che un atto personale, proprio, presuntuoso. Chi potrebbe ignorare che Charlie Chaplin è uno degli dèi più autentici della mitologia del nostro tempo, collega degli incubi immobili di De Chirico, delle mitragliatrici ferventi di Scarface, dell’universo finito ma illimitato, delle spalle zenitali di Greta Garbo, degli occhi sbarrati di Gandhi? Come ignorare che la nuovissima commedia, intendo, fosse sorprendente già in anticipo? In realtà, nella realtà in cui credo, questo film assai applaudito dello straordinario inventore e protagonista de La febbre dell’oro, non è che una languida antologia di piccole disavventure, connesse a una pallida vicenda sentimentale. Alcuni episodi sono nuovi; altri sono calcati da un film purtroppo dimenticato come La vita privata di Elena di Troia, di Alexander Korda. Altre obiezioni possiamo muovere contro Luci della città. La mancanza di realtà è comparabile soltanto alla sua, egualmente disperata, mancanza di irrealtà. Ci sono film realisti; ce ne sono altri dove l’irrealtà è volontaria: il volitivo individualismo di Borzage, quello di Harry Langdon, di Buster Keaton, di Eisenstein, ne sono un esempio. A questo secondo genere appartengono le trovate primordiali di Chaplin, supportate dalla fotografia superficiale, dalla velocità spettrale dell’azione, dai baffi fasulli, dalle insensate barbe, dalle parrucche svolazzanti, dai formidabili incidenti dei prodigiosi attori. Le luci della città non raggiunge questa irrealtà e resta poco convincente. Fatta eccezione per la cieca luminosa, che possiede lo straordinario della bellezza, fatto salvo lo stesso Charlot, sempre travestito, sottomesso, tutti gli altri personaggi sono temerariamente ovvi. La trama, sgangherata, appartiene a una tecnica di vent’anni fa. Anche l’arcaismo e l’anacronismo, lo so, sono generei letterari; la loro deliberata manipolazione, però, è una cosa diversa. Consegno la speranza – troppo spesso soddisfatta – di non avere ragione.
Jorge Luis Borges
*Pubblicato su “Sur”, anno I, inverno 1931