
“Ho ucciso mia madre in me”. Il romanzo sull’aborto
Libri
Linda Terziroli
In questo articolo Mina balla insieme a Thomas Mann.
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Il 29 ottobre del 1948, settant’anni fa, Orville Prescott, il ‘cecchino’ delle recensioni librarie, così costante, affettato, affidabile, scrive del Doctor Faustus di Thomas Mann sul New York Times. “Strane le opere di Thomas Mann e strana la mente che le ha evocate. Nessuno scrittore in questo secolo ha una tale ambizione universale e nessuno è più degno di averla. La sua erudizione è straordinaria, enormi i suoi risultati”. Va bene: più che una recensione è un tappeto rosso. Prendete in mano Doctor Faustus, stampa Mondadori, traduzione di Luca Crescenzi. Un libro-mondo, il libro per la vita, un libro come va scritto: ambizioso, tortuoso, tormentato, difficile, certo. Ciò che è accessibile non è letteratura, in letteratura si accede verso l’eccesso.
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Citate il libro di uno scrittore italiano di cui si parla sulle prime pagine dei giornali che abbia i caratteri ruvidi dell’ambizione universale e dell’erudizione straordinaria. Proprio così. Oggi i libri si scrivono per non offendere l’ignoranza dei pallidi recensori.
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Dieci anni dopo, stessa testata, quel cacasotto di Orville ha l’ardire di scrivere che Lolita di Nabokov è “noioso, noioso, noioso in modo pretenzioso, fatuo, florido”. Insomma: settant’anni fa, sulle massime testate statunitensi si parlava di Doctor Faustus; sessant’anni fa di Lolita. Nel 1948, su queste sacre sponde, lo Strega andava a Vincenzo Cardarelli con un libro dimenticato, Villa Tarantola; dieci anni dopo lo Strega va a Dino Buzzati per i Sessanta racconti, ed è uno degli Strega meglio affibbiati.
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Fate leggere Doctor Faustus o Lolita – due facce della stessa medaglia, due protagonisti corrotti dal medesimo demone – a un neomaggiorenne. Non è in grado di capirlo. Non ne capisce le ironie e i forbiti balocchi retorici. Non ce la fa. Analfabetismo dilagante. Mi domando, tuttavia, quale scrittore italiano, oggi, si confronti con quei giganti, Thomas Mann e Vladimir Nabokov – attenzione, attenzione: non ho detto Malcolm Lowry e Hermann Broch, non ho detto autori per natura romanzesca ‘impossibili, ho citato due autori complessi ma narrativamente leggibili. Stando a quello che pubblicano le major editoriali, quasi nessuno.
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Su il Giornale, spaparanzato su due pagine, Andrea Caterini tenta di rispondere a una domanda amletica, indocile, dolente: Esiste una nuova letteratura italiana? A un certo punto del ragionamento, Caterini dice una cosa importante. “Leggo sempre con scetticismo tutti quei libri, e sono molti, che non hanno nulla da dire ma tanto da raccontare; quelli che fingono che il romanzo moderno e il Novecento non siano mai esistiti, e con un balzo tanto ingenuo quanto demente, aderiscono a un modello che non gli appartiene, ma che reputano molto più utile ai loro scopi. È il modello di derivazione statunitense che si è capillarizzato attraverso la ‘Scuola Holden’. Romanzi identici l’uno all’altro. Ne hai letto uno e li hai letti tutti”. Semplifico la questione: che ragionamento si sta producendo, ora, oggi, intorno alla ‘forma’ narrativa? Che labirinti formali si adottano per rendere un libro imperiale, vertiginoso, degno di lettura?
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Faccio esempi meno aulici. La storia della matita di Peter Handke – recentemente riportato in libreria da Guanda – e I testamenti traditi di Milan Kundera. Due libri sufficientemente recenti (il primo del 1982, l’altro del 1992) di due autori europei viventi. Che libri sono? Romanzi, aforismi, confessioni, saggi? La riflessione sulla forma – che non significa andare a discapito della ‘leggibilità’ – è tutto, in quei libri. Semplifico ancora: che lingua porta Maurizio de Giovanni rispetto a Georges Simenon; che narrativa impone Helena Janeczek rispetto ad Agota Kristof; perché devo leggere Giuseppe Catozzella se non ho finito di capire William T. Vollmann; cosa portano in più – o di altro – Marco Missiroli, Marco Balzano, Paolo Di Paolo, Paolo Cognetti, Silvia Avallone, Veronica Raimo rispetto a Dave Eggers; perché devo ciucciarmi Roberto Saviano se Martin Amis è molto più bravo di lui?
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La dico in altro modo. Gli americani trovano le formule più ardite per narrare; gli europei decostruiscono la forma, diluiscono la narrazione, la sfasciano. Se non abbiamo capito questo, inutile leggere. La letteratura europea nasce con Don Chisciotte, che è la finzione di una finzione; in Moby Dick, invece, evaporato il biblismo, conta la caccia, la realtà della bestia, lo spermaceti, la concreta bellezza della balena. Chisciotte vede i draghi nei mulini a vento, i balenieri vedono denaro nel capodoglio. Ma quale scrittore italiano, oggi, si confronta con Cervantes e con Melville? Di solito lo scrittore A fa la sviolinata allo scrittore B, e insieme si dicono in coro quanto è bravo lo scrittore C e tutti e tre prendo lo spritz con l’editor della grande casa editrice che li pubblica in massa. Che pena.
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Bisogna guardare la notte con occhi ispirati e disperati, bisogna cavare l’acqua dalla pietra, bisogna ricondurre il mondo a un verbo, scavalcare le giunture della terra con una barbarica manciata di aggettivi. Invece. La letteratura è mero mercato – il successo si commisura dalla virilità della vendita – lo scrittore è allevato in batteria, sparso sui quotidiani nazionali, per bonificare le masse con pensieri liofilizzati, di buon gusto e di buon senso, che pena.
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Eppure. Fino a poco fa erano possibili romanzi formalmente arditi – e non per questo impossibili. Esempi. Il Natale del 1833 di Mario Pomilio – che nel 1983 si pappò lo Strega – Il terzo aspetto di Giorgio Saviane, Seminario sulla gioventù di Aldo Busi, Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino, Cima delle nobildonne di Stefano D’Arrigo. Non cito capolavori, ma tentativi. Radiosi, bellissimi.
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Non voglio dire che il mondo letterario italiano invecchia peggiorando, però, qui siamo passati dalle parole crociate alla lallazione infantile, dal discorso sulla forma agli scrittori a braghe calate, piegati ai voleri del mercato – anzi, neppure a quello, perché manca una autentica ‘volontà, lo scrittore vegeta nella propria insipienza, giocando a fare le moine, razza di faine.
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Che c’entra Mina? Mina è il nostro Salinger. Quarant’anni fa si ritira dalle scene – e non è mai stata così presente come da quando è assente. Mina è l’emblema del potere: l’invisibilità ne decuplica la forza. Mina non esiste – Mina è già mito. Mina si tocca attraverso la sua voce – come la parola della Madonna, della divinità – Mina non appare, va venerata. Non esistendo in carne, può elaborare, con infinita raffinatezza, la sua immagine fittizia – l’artista lavora per perfezionare l’immaginario, non per essere schiavo dell’immagine. L’arte che si libera dell’artista, cannibalizzandolo. Eccola, la soluzione ai mali della letteratura italiana. Quarantena. Ritirare dalle scene editoriali gli scrittori viventi. Pubblicare, per un po’, soltanto i morti, i classici, i grandi libri. Per rifondare il gusto e vincere il perbenismo letterario vigente. E i poveri scrittori come fanno a vivere? Borse di studio. Quelli con il progetto romanzesco più convincente vincono due anni di borsa per studiare, viaggiare, prepararsi. Poi almeno un anno per scrivere. E un altro anno per corrggere. Ci rivediamo tra quattro anni. Con i grandi capolavori della letteratura italiana di domani. (d.b.)