Nella prima parte della «Spinoziana 1» abbiamo potuto con tristezza contemplare come nemmeno il nostro filosofo, notoriamente complesso, sia esentato dal pagamento dell’ammenda divulgativa e come, di fatto, sebbene con altri mezzi, seguiti a essere perseguitato. Vista la gran diffusione di siffatta immonda pubblicistica, sarà opportuno proporre qualche prospettiva di specie tutt’affatto diversa.
Suggerisco di principiare con una buona biografia. Siamo fortunati perché, oltre alle vite dei contemporanei Lucas e Colerus (Le vite di Spinoza, Quodlibet), assai striminzite e da pigliar sovente con le molle ma indubbiamente affascinanti e non di rado utili, in Italia esiste un lavoro di enorme pregio, ossia Spinoza e l’Olanda del Seicento di Steven Nadler (Einaudi, così come tutti gli altri che incontreremo di questo scrittore). Si presti attenzione però a procurarsi solo la seconda e ultima edizione, intitolata esattamente come abbiamo appena visto, e di evitare le prime, non povere di sviste ed errori.
Nadler soddisfa massimamente alle esigenze dei più puntigliosi lettori, introducendo alla vita di Spinoza anzitutto con un vasto e informatissimo affresco sul contesto storico politico e culturale in che visse e operò il filosofo.
Ciò che però va maggiormente sottolineato di questa splendida biografia, è l’onestà. I momenti insidiosi ma in particolare controversi e soprattutto suscettibili di scatenare ire e isterie sono parecchi: mi riferisco naturalmente ai rapporti di Spinoza con la comunità ebraica. Eppure Nadler, il quale – avviso ai sorveglianti – non è certo tacciabile di antigiudaismo, riesce a dire tutto fino in fondo.
Nadler è uno spinozista quasi compulsivo, infatti non si è fermato alla biografia. Ricordiamo anzitutto la vasta esposizione del Trattato teologico-politico dall’eloquente titolo Un libro forgiato all’inferno, e di poi Spinoza sulla vita e sulla morte, vera e propria summa del pensiero spinoziano, che coinvolge anche le opere meno frequentate, come ad esempio il Trattato sull’emendazione dell’intelletto e il Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo bene.
L’ultimo lavoro di Nadler, L’eresia di Spinoza, porta invece un tema specifico e delicato, come suggerisce il sottotitolo: all’Immortalità e lo spirito ebraico. Qui Nadler cerca di andare a fondo dello herem (bando, o maledizione) scagliato dalla comunità ebraica contro Spinoza e che ebbe dure e gravi conseguenze per il filosofo. Secondo Nadler, all’ingrosso, base di quella estrema e disinvolta decisione della sinagoga era per l’appunto la questione dell’immortalità dell’anima, faccenda urticante tra gli ebrei ma non per gli ebrei di Amsterdam tra i quali viveva Bento.
Qui mi permetto di dissentire poiché temo che i motivi dello herem siano ben altri e assai meno spirituali, anzi per nulla. E se poi la sinagoga prese quella decisione a causa dell’incompatibilità tra il pensiero tradizionale giudaico (parlare di tradizione è sempre equivoco e sviante, e soprattutto nell’eteroclito ebraismo) e quello di Spinoza, lo herem, già di per sé odioso, sarebbe ancora più rivoltante, e gli ebrei non avrebbero nulla da invidiare né da rimproverare ad esempio ai carnefici di Giordano Bruno.
Da non molto è riapparsa l’opera su Spinoza di Giuseppe Rensi (Nino Aragno Editore), un notevole filosofo dimenticato dalla cultura dominante di ieri e di oggi, del quale solo pochissimi in Italia hanno frequentata l’opera, due su tutti e tra loro diversissimi: Piero Martinetti, che di Rensi era anche amico, e Manlio Sgalambro.
Invero si tratta di due testi: uno, breve, del 1929; il secondo, del 1941, è un vero e proprio studio esteso e completo, incentrato soprattutto sull’Ethica. Tra le tante rimarchevoli qualità dell’opera è l’allestimento sagace e accorto d’un variegato dialogo tra Spinoza e una notevole parte della cultura europea, filosofica e non. Splendide le pagine con Tommaso Campanella e Roberto Ardigò, soprattutto quest’ultimo non certo tra i pensatori più citati nella letteratura critica, né riproposto.
Rensi aveva anche notevole dimestichezza con le scienze così dette “esatte”, come dimostrano diversi passaggi in cui egli intercetta risonanze tra la allora nuova fisica e la dottrina spinoziana del tempo dipingendo tra le pagine più corrusche del libro. Prendendo ad esempio la guerra in quel momento da poco squadernatasi, il filosofo italiano spiega che
«tutti questi questi fatti hanno alla loro volta origine da cause precedenti geografiche, etnologiche, fisiologiche, culturali, ecc. Tutte queste da altre ancora precedenti e queste da altre e così via, che risalgono in ultimo sino all’umanità primitiva, alla formazione della terra, del sistema solare, dell’universo: cioè che sono precontenute nell’insieme delle cause o nella Causa prima. L’esito della guerra attuale, adunque esiste già in questa Causa prima, e solo per noi viene fuori, avviene, in un dato tempo. L’esito della guerra c’è già, è già perfettamente esistente, è là che ci aspetta come un oggetto lontano nello spazio ma pienamente e saldamente costituito; e come un alcunché che c’è già noi non facciamo, vedendolo emergere a poco a poco dalle brume del tempo che velano ai nostri occhi di oggi la sua esistenza attuale, che andarvi incontro (…). E per avvertire la profondità e la modernità di questa concezione spinoziana basterà ricordare che essa è press’ a poco quella a cui, con la sua fusione in un continuo unico di spazio e tempo, perviene la fisica odierna».
Quasi subito riporta un frammento di tal James Jeans (1877-1946), scienziato britannico oggi dimenticato ma alla sua epoca tra i più rinomati sul piano internazionale. Ascoltiamo: «Si soleva pensare che l’universo si sviluppasse come un disegno sul telaio di un tessitore»: ma oggi si ritiene «che l’intero paragone della evoluzione del mondo e la tessitura di un disegno è errato. Il tempo non è più tempo o non implica cambiamenti; è semplicemente una direzione geometrica nel continuo scelta da noi. Il disegno non viene tessuto un pezzo dopo l’altro senza interruzione in un tempo che non esiste più, ma viene esposto ai nostri occhi completo in un continuo in cui gli avvenimenti futuri hanno esattamente lo stesso tipo di esistenza degli avvenimenti passati… La fusione dello spazio e del tempo in una superiore unità, il continuo spazio temporale – che li trascende ambedue ed è immutabile – soddisfa i bisogni dei filosofi, anche soltanto a costo, per quanto è possibile vedere oggi, di relegare il divenire nel mondo delle apparenze» (I nuovi Orizzonti della Scienza, Firenze, Sansoni, 1934, pp. 99, 101)».
Beninteso: Rensi non sottomette la filosofia alle scienze, le quali sono soltanto una conferma, ora indiretta ora diretta, delle profonde intuizioni filosofiche, e che quasi a queste esse fanno da decorazione, quantunque dotata – forse, aggiungiamo noi – di fondamento. Ma questo dialogo a distanza con i tentativi scientifici di spiegare la realtà colloca Rensi al di fuori del solco della filosofia italiana maggioritaria.
Ma ciò che più conta, è che Rensi in questo modo costringeva la scienza, a quel tempo assai meno ottusa di oggi, a prender coscienza dei suoi limiti e del ruolo della filosofia nel dominio gnoseologico.
Purtroppo, come al solito, non possiamo dilungarci oltremodo, anche per non togliere al lettore il gusto della scoperta in proprio. Resta soltanto da evidenziare che il volume non solo costituisce, ad avviso di chi scrive, una delle migliori introduzioni al pensiero spinoziano ma altrettanto un esempio dell’acume rensiano. Qui davvero Baruch de Espinoza esplode in continui incendi che lo fanno apparire assai diverso, più profondo e preveggente, da come ce lo ha cucinato tanta critica quasi sempre molto scolastica.
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3
A fronte di tutto ciò e delle abbondanti e illuminanti altre sorprese che attendono tra queste pagine il lettore, bisogna denunziare una curatela davvero avvilente.
Come viene spiegato dal curatore, Rensi morì avanti di poter rivedere la forma del testo. Ma invece di limitarsi a notare questo particolare, il curatore avrebbe dovuto porre rimedio alle magagne e, inoltre, a fornire il libro dei minimi apparati che si impongono a qualsiasi ristampa. E invece no.
Anzitutto i non pochi refusi originali restano intatti.
I riferimenti bibliografici di Rensi, ad esempio la segnalazione delle pagine del Trattato teologico-politico che rimandano all’esemplare posseduto dal filosofo italiano, non sono mai accompagnati da un aggiornamento, sicché o si ha l’improbabile fortuna di possedere quell’esemplare, oppure si deve faticare come un minatore.
Anche la citazione dell’opera del Jeans è lasciata tal quale e non ci si degna nemmeno di fornire indicazioni su chi fosse questo scrittore. (Per inciso, c’è a giro ancora qualche copia antiquaria dell’opera).
Altro guasto non meno irritante sono le citazioni in tedesco greco e soprattutto latino. Se infatti non abbia provveduto Rensi a tradurle, il lettore deve arrangiarsi. Un conto sarebbero poche parole o una breve frase: ma qui si tratta di intere pagine. Mi metto nei panni d’un lettore sprovvisto di queste conoscenze linguistiche e lo giustifico a irritarsi.
Se però poi vogliamo fare gli snob e dire che tutti debbano conoscere quattro o cinque lingue, potrei essere d’accordo: ma solo a patto che si abolisca per legge l’attività di traduttore da qualsiasi lingua, per qualsiasi testo e da qualsiasi contesto (compresa la politica internazionale) e si obblighino i nuovi disoccupati ad andare negli uffici postali ad incollare con la lingua i francobolli.
Questa generale sciatteria è davvero un peccato per un libro splendido e che, nonostante la negligenza, si salva da cima a fondo. Mi auguro solo che il presente contributo incentivi l’editore a rivedere integralmente la curatela per una seconda edizione di questo Spinoza, che auspico toto corde (con tutto il cuore). E amen (così sia).