Pensare per istinto, per pulsione. Non per professione. Georg Christoph Lichtenberg era una creatura che si trovava ai limiti della filosofia, un pensatore singolare.
Avrebbe voluto scrivere una pinica, un trattato sull’arte del bere. Bevendo una bottiglia di vino al giorno, era diventato un etilo-esperto. Opera mai compiuta, la pinica sarebbe stata un testo ripieno di pensieri-appigli per ubriachi. Un libro al confine tra l’ebbrezza sincera, autentica e la lucidità a puntate. Un dizionario degli estremi, un vocabolario dionisiaco, per etilomani. Dove trionfa il conflitto, quel mitologico sposo della hybris; dove impera la guerra delle coscienze e regna la polemocrazia.
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Il fisico e pensatore tedesco era uno spirito eclettico, un polymath ottocentesco. Era tanto capace di atteggiarsi con pudore e decenza negli incontri privati con il re d’Inghilterra, o con Alessandro Volta, o quando Goethe andò ad ascoltare una sua lezione universitaria; quanto di abbandonarle nei suoi incontri più intimi con “Dolly” o la teenager Stechardin.
Lichtenberg era un invasato del sesso, travolto dai coiti a notte fonda come al mattino. Amante del diletto, e della filosofia compiuta sull’erezione. Sull’orlo della satiriasi. Non poneva freni ai suoi desideri sessuali, sbrigliava la sua lussuria sul canapé e in studio. In ogni angolo della casa, senza pudore, rilasciava i suoi dimenii, i suoi piaceri e i suoi gusti su domestiche e giovani. Lichtenberg fotteva con piacere e non solo sua moglie. Un libertino tedesco.
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In principio c’era il godere e da lì la scrittura filosofica, lo scrivere che diventa conseguenza della goduria, della lussuria sfrenata, dell’orgasmo goduto. La filosofia nasce dall’amplesso. Tra il precipizio e il coito, il baratro e il prepuzio. I frammenti vengono gettati dai testicoli, espulsi dalla foga dello scroto. Il pensiero trascritto deve tanto, troppo alla fututio.
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Lichtenberg era un pensatore privato, un filosofo trascinato dal rigore dei sentimenti e dagli incroci di frammenti obliqui, prontamente disordinati. Una filosofia che penetra le superfici e nasce dalle passioni soddisfatte, o costrette. I suoi südelbucher, quaderni che raccoglievano ritagli di vita, scarti, annotazioni, frammenti, respiri, pause e tagli nel pensiero, sono un ricettario contro la grossolanità ricercata, contro i cacalibri. Scritti “molto amari”, immaturi, da rimestare e attorcigliare ancora, danno una ricetta per la riuscita di un testo concavo, che si ritaglia dentro se stesso, monco per scelta. Era conscio che il libro, lo scritto, il frammento di pensiero è un prodotto della vanità personale, che sulla maggior parte delle persone non avrà alcun effetto—se non altro perché non lo leggeranno.
“Ciò che un grande imbecille dice in un libro sarebbe sopportabile, se lo dicesse in tre parole”.
Il pensatore tedesco, con un lato anglofilo, si abbandonava sovente ai deliri dei piaceri, e allo stesso tempo sapeva rispettare il suo temperamento da padre, professore e scienziato. Una bestia del pensiero che favoriva gli impulsi di lussuria, seppur non raggiunse i livelli dei caratteri immorali di Walerian Borowczyk.
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La riedizione degli aforismi e delle lettere di Lichtenberg per la Luni Editrice, Lo scandaglio dell’anima, ne mostra la scrittura ellittica, lampeggiante, scoordinata e coordinata a un tempo. Per definizione, il fisico tedesco non era un filosofo di professione, ma uno scrittore filosofico. Il suo interesse per la filosofia era di natura spontanea, sorgeva da un istinto, non era un bisogno professionale. Lichtenberg non doveva scrivere di filosofia, ma voleva fare filosofia. I suoi gorgoglii provengono da un bisogno viscerale, non dipartimentale. Una scrittura filosofica non catturata in un singolo luogo mentale, ma estesa alle sue parti intestine. Un impulso privato.
Seppur egli fosse “incatenato alla galera universitaria”, non era un professore di filosofia. Poiché non “trafficava con le idee altrui”, ma si occupava primariamente delle sue idee.
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I frammenti dei waste books canzonano le convenzioni e titillano il vigore delle passioni. Lichtenberg era un eterodosso totale, amante spregiudicato della vita. Pensatore libertino, cugino illegittimo, tedesco di Sade. I brandelli e i ritagli indicano una via per un al-di-là del pensare comune, deperito dalla sistematicità. Un percorso avverso in tutto al dispotismo del sistema. Simile al Divin Marchese che ama divertirsi nel boudoir, che sa innalzare la filosofia dentro una donna, nel suo cuore. Due spiriti dissoluti che odiano ed evitano i bigottismi. Capaci di destare il desiderio e di assoggettarvisi. Abili nuotatori nell’oceano dei piaceri, dove entrambi, con passione, ricercavano la consolazione all’esistenza. Se per De Sade “l’immaginazione è il pungolo dei piaceri”, per Lichtenberg l’immaginazione sfoglia e accantona tutte le consuetudini e gli usi del matrimonio.
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Amante della pedestris oratio, del linguaggio, della prosa e dell’espressione che va a piedi, Lichtenberg era un viaggiatore. Viaggiava per rilevare le coordinate geografiche di località tedesche e per ammirare i progressi dell’Inghilterra ottocentesca. Fu affascinato dalla metropoli londinese, in piena crescita post-rivoluzione industriale, e dall’Italia, che però non riuscì mai a visitare.
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Fisico anomalo e inventivo. Strapieno del coraggio di rimettere in dubbio quello che viene ritenuto assodato, e di gettare il sospetto sulla certezza. Un anticipatore della filosofia del frammento, prima dell’erezione di murales elefantini con proboscidi tentacolari, e dei labirinti di cemento toccati dalle pozzanghere di pioggia consumista.
“A volte non esco di casa per otto giorni, e vivo molto contento. Ma se fossi costretto a rimanere altrettanto tempo in casa per ordine di qualcuno, mi ammalerei. Se c’è libertà di pensare, ci si muove con facilità nel proprio cerchio; ma se c’è costrizione, anche i pensieri liberi affiorano con espressione intimidita”.
Tra i chiari del bosco, María Zambrano ricuce l’essere e l’amore, l’eros e la vita. Scrive che l’amore e la vita procedono insieme, a nozze. “Ché l’amore è nuziale ogniqualvolta l’essere vivente si ponga in cammino attraverso di lui e viva per qualche istante la perduta unità tra l’essere e la vita”. Un essere carnale, un amore delle carni. Perché non può essere altrimenti. Così, pure, Lichtenberg amava. Amava la carne. La carne, il corpo è indispensabile all’amore e alla bellezza. Così, allora, le coglieva l’eretico dello spirito tedesco, come è stato chiamato da Anacleto Verrecchia.
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Innamorato delle altre e, da pensatore rigoroso, innamorato del riflesso del sé.
Il sé appare ovunque. Diventa sorgente kantiana del mondo. A cosa serve la filosofia? Chiede tra i suoi scarti Lichtenberg. Per chi serve? Chiede il castigatore delle virtù non-teologali, ovvero il castigato dai vizi. Per che cosa?
“Per trovare il modo di uscire dal mucchio di cose estranee, per incominciare a sentire da se stessi, per parlare in proprio e, direi quasi, anche per esistere da se stessi”.
La filosofia è esistenza, condotta di vita, maniera autentica di essere sé. È infinito specchio per rimirarsi e per studiare il sé, non lente, concetto od “occhialino per osservare gli altri”. Quegli sguardi curiosi, forieri, tradiscono un amore per sé.
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Ovunque, vediamo solo il sé stesso. Quando ci scordiamo di scrivere perché grigi cumuli coprono il cielo, o quando il buio ci fa dimenticare le nostre luci artificiali. Ovunque—sé.
Poiché anche la conoscenza dell’altro è riflesso del sé. La conoscenza del sé, gnoti seauton, serve per la vita, per apprezzare in maniera migliore l’alterità—il mondo esterno che non appartiene al sé stesso.
Federico Magrin
*In copertina: Jacques-Louis David, Patroclo, 1780