Inattuale e lontano dalle mode estetiche della sua epoca Ramόn Gaya, di cui poco è stato tradotto e pubblicato in Italia (Il sentimento della pittura, De luca editore 1960, poi ripubblicato da Solfanelli nel 2015 e due scritti comparsi su “Conoscenza religiosa”, 1970/1976, Velazsquez, passero solitario e Il frutto proibito) non può che palesarsi a noi se non come un avvento silenzioso, tremolante come un acquarello eppure dal verbo tanto corrosivo come il fuoco vivo.
“La posizione critica di Gaya appare oggi poco meno che scandalosa: essa è la sconfitta della storia, la demolizione della psicologia, e dell’estetica pure, in una parola di tutta la critica d’arte contemporanea, e appare la diretta eredità di colui che una donna d’ingegno definì il primo critico, colui che si limitò ad annunziare: io vi battezzo in acqua ma dietro me viene colui che battezzerà in fuoco e spirito”.
Così scriveva Cristina Campo.
Qui sono tradotte alcune pagine tratte da Cuaderno de Viaje un taccuino che il pittore-poeta scrisse nel corso di un anno. Testimonianza di un viaggio compiuto fra il ’52 e il ’53, poi pubblicato l’anno successivo sotto forma di calendario in Messico, il taccuino presenta gli spostamenti dell’autore in alcune città europee; eppure ciò che conta davvero non è il racconto in sé quanto il modo di intendere l’arte e la scrittura stessa, tanto che Cuaderno de Viaje così come il suo Diario de un pintor sono sempre un doppio viaggio: verso l’esterno e verso l’interno, rispettando così la convenzione del diario privato.
“Tutto quello che si dice in questo quaderno è probabilmente uscito da un diario eccessivamente soggettivo; da un diario increspato, balbettante dall’interno e fissato solamente da qualche segno provvisorio”.
Dunque cedere allo sguardo e alla parola di Gaya è cedere alle pretese di un vecchio e placido maestro orientale, a cui un semplice e cauto gesto basta per squarciare la veste delle evidenze e restituirci la più sentita carne.
Un’opera pittorica di Ramόn Gaya
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Chartres. La cattedrale
Sembra un’arma, un pugnale. Non è di pietra ma di vibrante acciaio. È quasi una violenza però una violenza fatta senno, fatta pienezza. Una volta dentro Chartres – incorreggibili – ne vorremmo misurare l’eccellenza, riconoscerne i meriti, scoprirne le leggi artistiche, però in quest’opera non rimane traccia alcuna d’arte, e non perché sia stata allontanata, esiliata, al contrario, precisamente perché l’arte v’è stata imprigionata, accettata dentro le sue viscere azzurre, bruciando, trasfigurandosi. Conoscendo la sfacciataggine e la visibilità dell’arte arriveremmo a pensare, per un momento, che non si tratti di architettura né di scultura; che si parli d’arte anonima – incluso di arte sociale –, chiaramente presto, svegliandoci da questa assurdo equivoco, ci accorgeremmo che l’arte sia arrivata a Chartres con le sue solite figure, con la sua figura d’ insolenza, di personalità, e che una volta lì dentro tutto si sia fuso, convertito in un’altra cosa. Si tratta forse di un miracolo, di un vero miracolo, che non si deve agli artisti e che forse viene da un’altra parte. Davanti a questa cattedrale, Rodin, sbagliando, con il suo tono esaltato, modernista, avrebbe detto: “Gloriosi autori del Partenone, riconoscete in questo l’opera dei vostri fratelli, dei vostri pari. Di questa grande scienza che è la scultura en plein-air, i gotici sapevano tanto quanto voi”. Rodin, dal suo XIX secolo, dal suo partito artistico, non poté comprendere del tutto questa spada nuda, questo acciaio forgiato dalla Grazia.
Siena tutta sembra di carne, probabilmente il colore che porta il suo nome la tinge d’un tepore carnoso, acceso. Forse per la sua riparata condizione, il Rinascimento non sembra l’abbia interessata, conservandola più medievale che le altre città italiane. Eppure il medioevale non ha qui, come in Francia – Chartres soprattutto – quello scarno rigore, quell’assennatezza estrema, quell’acciaio, ma sembra esprimere il suo altro volto vivo: una specie di allegria, di sensualità sana e robusta, di festività innocente. In una di queste impervie vie, si udì, nel XV secolo, la voce poderosa, grave, appassionata, dura e libera, di Santa Caterina. Questa donna possiede la perfezione della nostra Santa Teresa; la potremmo sentire forse lamentarsi per lo spirito con tutto il suo essere, dalla sua un’impavida carnalità, che nonostante aspiri a vincersi, della sua condizione non ha nulla di cui vergognarsi. Per gli spiritualisti ideali Santa Caterina manca d’interesse, giacché in lei non possono incontrare l’idea di spirito, ma quella di carne dello spirito; leggendo le sue lettere, ne sono delusi, forse supponendo che lì, alla fine di tutto, non si dica granché, ossia che non si dica niente che possa chiamarsi pensiero. Eppure quando Santa Caterina, all’inizio delle lettere, firma col suo consueto “Io, Caterina serva dei servi di Gesù Cristo, scrivo a voi nel prezioso sangue suo” ci rendiamo conto che già questo è più, molto più che pensiero, inoltre giungiamo a sospettare che questo solamente sia il vero pensiero e non quello lasciatoci da una mente deliberatamente razionale. Santa Caterina è una di quelle nature privilegiate – come quella di Nietzsche – in cui decisivo non è mai quello che ci dicono, se non quello che stanno vedendo dicendoci qualcosa; sono esseri ai quali non è necessaria la ragione, l’avere ragione. Non sapremo mai se tutto questo che ci dicono sia vero, però si, sappiamo in cambio, che loro sono la Verità.
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Roma
Quando si tracciano queste quattro lettere sopra un foglio, poco altro abbiamo da aggiungere, queste di per sé sembrano già esprimere la città completa, e al pronunciare la parola che delineano c’imbattiamo in un corpo rotondo e fermo come la pietra di un fiume, come un canto sicuro, limato; le sue due sillabe sembrano i seni duri di una moglie feroce, antica governante, tenera, materna. Perché Roma non è per niente signora, ma in cambio completamente femminile, così rotonda, assoluta, forte. Ha una forza morbida, una morbida potenza, come ce l’ha una donna o il miele vergine, la cupola, l’arco di un ponte, la chioma di un pino. Appena entriamo a Roma ci rendiamo conto che il cerchio, la perfezione limitata del cerchio, è una chiave. La vastità, l’insolenza, il popolare del Barocco dovette sentirsi ad agio, perché il romano ha magnificenza, l’abbondanza della magnificenza, però non ha la delicatezza, la delicatezza dell’aristocratico. Roma sembra un grande trono maestoso innalzato all’intemperie, sembra proprio un trono contadino. Per questo l’estate – stagione plebea – si affianca a Roma con questo abbandono vivido, con questa proprietà, con questo diritto. Potrei dire che la poderosa e tirannica attrattiva di Roma sia la sua mancanza di spirito? Roma lusinga in noi tutto il nostro essere terreni, perdona la nostra mortalità. La cosa più elevata che possa capitarci a Roma è il suo lirismo, però il lirismo, già si sa, rimane unicamente una compiacenza, un riflesso dello spirituale; al lirismo manca respiro, salvezza, elevazione, trascendenza; il lirismo è la materia che rimane, quello che rimane di un incantevole incendio. Roma è, in effetti, eterna, però non come è eterno lo Spirito, ma come è eterna la terra, come è eterno il suolo fisso, il nostro suolo, il suolo della vita.
*Il testo è la traduzione sono di Tony Vero.
*Traduzioni da “Cuaderno de Viaje: Portada; Roma; Siena; Venecia; Montmartre; Asis; Florencia; Pisa; Pompeya; Lisboa; París; Pestum; Chartres” (Calendario Mazapanes Toledo, México, 1954) inserito in Obra competa, Ramon Gaya, PreTextos, 2010).