Lo scrittore che vedete in copertina ha scritto il più bel libro del 2019. Non so quando lo tradurranno in Italia, non so come suona in lingua originale – oltre i bastioni di Russia non sono linguisticamente attrezzato – ma in inglese il ritmo è suadente. Quando le pietre diventarono stelle e il prato sfociò nella gola di una tigre. Lo scrittore si chiama Galsan Sagil, fa l’allevatore di cavalli, in Mongolia è noto come poeta. Conosce le peripezie delle costellazioni, l’allerta del loro migrare, ma ignora i fondamenti della filosofia occidentale, sa metrare il tempo dal colore dell’erba, per questo non indossa orologio, agli enigmi della ‘proprietà privata’ preferisce la privazione, sa costruire una jurta, perciò è magneticamente ostile a ogni sorta di ‘casa’, è piantato nella sua terra come una rupe – s’inorgoglisce quando mostra un coltello istoriato eredità di avi frollati nella memoria di tre generazioni fa – ma è libero come un falco. Cercando di inquadrarlo nello schema geometrico della ‘storia della letteratura’, gli anglofoni hanno citato l’epopea di Gengis Khan redatta dal giapponese Inoue Yasushi – ancora inedita in Italia, terra dell’inedia culturale, ma si continua a stampare Murakami Haruki a go-go – le Mille e una notte e perfino – per un certo tributo alla ferocia – Cormac McCarthy. Il suo libro, letto a tentoni, è magnifico, rompe con le regole euclidee della narrativa occidentale – da svago o ‘sperimentale’ – è una deliziosa ‘novità’, appunto.
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Fate conto che ciò che ho scritto non esiste. Non esiste Galsan Sagil. Non esiste il suo romanzo. La fotografia è di un tizio che, effettivamente, fa l’allevatore di cavalli in Mongolia, forse detta versi intorno al fuoco, rievocando le epopee degli avi, chi lo sa. Il punto non è quello, è altro, è questo. ‘Nuovo’ è una delle parole che il dizionario etimologico rimarca tra le antichissime. Dal sanscrito (navas) ce lo portiamo dietro percorrendo il latino (novus) fino ad oggi, spagnoleggiando (nuevo) o anglicizzando (new), come vi va. C’è, in effetti, qualcosa di avveniristico e di nostalgico nella parola nuovo. L’uomo, sempre, è proiettato verso il nuovo, ma il nuovo non è lo sconosciuto, l’ignoto, è ciò che è – in sanscrito – giovane. La novità è amata perché ci parla della giovinezza perduta – la novità non è un’andata, è un ritorno.
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Rientrando in me. Un sistema editoriale che non va verso il nuovo, verso la gioventù, con spavalda giovinezza, è morto, mortificante, senile, sentitamente geriatrico. Smanettate su internet cercando, da avventurieri avventori, le ‘novità’ della stagione editoriale entrante. Vi casca la mascella. Soliti nomi, solite cose, stessi panni sporchi risciacquati in acido e stesi nel quartiere. La nostra non è nemmeno più una letteratura ‘nazionale’ o ‘provinciale’, è addirittura ‘rionale’. Per questo, ormai, tendo a pensare che grandi opere vanno vegetando nel sottobosco di ciò che non è pubblicato, che non ha pubblico – chessò, la raccolta poetica in perpetuo divenire di Riccardo Ielmini, i versi scritti a penna di Luca Gaviani – se non il samizdat degli affettuosi, dei cercatori.
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Quali sono, appunto, i grandi libri che si stanno scrivendo in Mongolia, i grandi poeti che cantano in Congo, i grandi autori che pubblicano nel Laos, i nuovi, geniali narratori che abitano in Vietnam? Non sono nato ieri: la letteratura è un atto di forza, lo slancio con cui una nazione impone il proprio immaginario narrativo, colonizzando il resto del mondo. La lotta si è sempre fatta a quel livello, mitragliando il mondo con le proprie storie, con i propri miti, con i propri autori. Michel Houellebecq contro Martin Amis contro Philip Roth contro Javier Marías contro Cees Nooteboom contro Eduard Limonov. Non conta la ‘correttezza’, conta il carisma. E noi, italioti, che immaginario esportiamo? La Napoli di Elena Ferrante. Contenti voi.
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Ma il punto resta questo. Le avventure editoriali. Andare fino in capo il mondo a scoprire il meraviglioso, per condividerlo in patria. Marco Polo. Siamo sempre stati questo, italici occidentali. Oggi preferiamo le quattro mura del consueto, abbiamo paura delle ombre – di cui io, umbratile, mi abbevero.
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Il resto è un esercizio da biografi del sogno. Amo inventare vite, dettagliandole. In un libro recente ho impastato dal vento la biografia di Joseph Gries, che ha scritto un racconto, L’imperatore, sugli ultimi anni di vita di Napoleone (il racconto è raccolto in Pseudo-Paolo. Lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro, Melville 2018). Era lui: “Joseph Gries (Norla 1923 – Tokyo 1979) è considerato insieme a Knut Hamsun «il grande innovatore della letteratura norvegese contemporanea» (Fulvio Ferrari). Indisciplinato, ha preferito pubblicare le proprie opere per editori d’arte o tipografi, ma ciò non gli ha impedito di essere segnalato al Nobel per la letteratura, nel 1976. Dopo l’esordio poetico (Cronache, 1947), ha pubblicato i romanzi L’epicentro dell’alba (1953), I lupi che divorarono la luna (1957), Mia sorella è l’assalto (1962), Come rettili della terra (1967) e Il malvagio non è un peccatore (1975), il suo libro più importante, «dove l’impianto romanzesco impossibile, totalizzante, che ricorda Hermann Broch, si mescola alla lucidità stilistica di Borges» (Daniele Piccini): è questo l’unico libro di Gries pubblicato in Italia (per Guida, nel 1989). Importante la produzione saggistica, che spesso sfocia nella narrativa: Reazione (1962) e Atlante letterario di tutti i tempi (1970), costruito da una antologia di centinaia di autori totalmente inventati, sono diventati libri “di culto” per la nuova generazione di scrittori e artisti norvegesi. Studioso di religioni orientali, dopo aver diretto una biblioteca nell’isola di Flagh, Gries ha insegnato all’Università di Tokyo, la città dove è sepolto”. Il bello, va da sé, è mescolare al fittizio, al favoloso, il dato reale, che riguarda l’intima biografia dell’estensore della nota – vai a pescare dove il vero s’indisciplina dal falso… Ora, giocate anche voi: chi è Galsan Sagil?
Davide Brullo