Contro i traditori del pensiero, un libro per immoralisti e scalatrici
Filosofia
Federico Magrin
Fui edotto all’arte dell’eredità da Roberto Barbolini. Tra i suoi talenti, infatti, c’è quella di scrivere racconti apocrifi che hanno per protagonista Sherlock Holmes. Alcuni sono editi da grandi editori, uno l’ho maneggiato qualche anno fa in una raccolta, Sade in drogheria, edita da Guaraldi: Un walser per Sherlock Holmes ipotizza l’incontro fatale tra il grande detective e Robert Walser. Per dire ciò che si sa: che Sherlock Holmes vanta innumerevoli imitazioni, letterarie – da Joyce Lussu a Stephen King –, televisive, cinematografiche. La vera investigazione, però, va compiuta nella mente, labirintica, di Arthur Conan Doyle, il creatore del più celebre detective d’Albione. Alfiere del metodo deduttivo, Conan Doyle (ma “Conan” è il terzo nome) si dilettava in spiritismo e andava per fate. Oltre a Sherlock Holmes – di cui desiderava la morte, certo che la creatura avrebbe finito per massacrare il creatore – il poligrafo ACD ha inventato il Professor Edward Challenger, protagonista de Il mondo perduto; Etienne Gerard, ussaro al servizio di Napoleone (che appare in diciotto testi); Sir Nigel Loring, scudiero medioevale; John Sharkey, pirata, che furoreggia nei Tales of the High Seas. La fantasia di ACD, a mitraglia, sorprende. È stato anche poeta. Nella formidabile “The Arthur Conan Doyle Encyclopedia” ho trovato una poesia manoscritta del 1904, Dinosaurs and J (il titolo è fittizio), che fonde la passione per le fate alla mania per l’epoca preistorica:
Là dove ha passeggiato la fata J
Presso l’oceano blu, nel passato
Trottava il Mammut
E planava lo Pterodattilo.
I mostri del Miocene
Potevano giocare con l’uomo
Ma poiché lo stesso dicono di J
Terminiamo come abbiamo iniziato.
Naturalmente, una vasta raccolta di Poems of Arthur Conan Doyle è stata pubblicata da John Murray nel 1922. “Volevo specializzarmi in oculistica, presi uno studio in Wimpole Street. Aspettavo tre, quattro ore al giorno. I pazienti non arrivavano. Così, usai quel tempo per scrivere il primo dei racconti di Sherlock Holmes”, disse Conan Doyle a un giornalista del “Daily Mail”, edificando il proprio mito. Era il 1904. Vent’anni dopo, la stessa testata citofonò ancora allo scrittore. Flotte di fan si presentavano davanti al 221B di Baker Street. ACD disse di non ricordarsi perché avesse scelto proprio quel numero civico per ambientare l’abitazione della sua creatura, “per fortuna nessuno pretende di visitare la casa di Sherlock Holmes”. La fantasia aveva fagocitato la realtà. Già esperto di Chesterton e di Tolkien, Paolo Gulisano ha firmato una Indagine su Sherlock Holmes (Edizioni Ares, 2020). Ovviamente, mi sono messo sulle sue tracce. (d.b.)
Intanto, tu… perché ti metti a indagare su Sherlock Holmes? Come ti permetti?
È vero: Sherlock Holmes è un mostro sacro della Letteratura, un personaggio inventato quasi 130 anni fa ma che continua ad affascinare, a dare vita a nuove versioni del suo mito. È la quintessenza dell’arte investigativa. Ma proprio per questo meritava di essere indagato, studiato, passato sotto la lente di ingrandimento. Non per dissacrarlo, come viene fatto spesso, o per imitarlo, o per idolatrarlo inopportunamente, ma solo per capirlo meglio, per conoscerlo a fondo, come merita. Spero che questo giustifichi il mio ardire.
Dall’indagine che hai svolto: qual è l’aspetto di Holmes che ti è parso più insolito? E il suo creatore? Che tipo era Arthur Conan Doyle, cosa ci può affascinare, oggi, di lui?
C’è qualcosa di Holmes di cui non si parla mai, e che invece io ho voluto mettere in evidenza: l’umanità di Sherlock. Solitamente sia detrattori che ammiratori sottolineano la sua freddezza, il suo rigoroso metodo analitico-deduttivo. Eppure in Holmes c’è anche un lato umano, che fa sì che magari non faccia arrestare un ladruncolo, che si impietosisca di fronte alle miserie umane, che si opponga con fermezza al male, rappresentato in modo quasi diabolico da Moriarty, il suo grande nemico, e infine la sua solitudine, profonda dolorosamente scelta, e lenita dalla presenza di Watson. “Lei è il mio solo amico” gli dice, in un racconto, con un tono quasi commovente. In quanto a Doyle, era una personalità complessa, con debolezze come quella della propria origine. Non era inglese, ma scozzese, e per di più con origini irlandesi che cercò di occultare. Si chiamava Arthur Ignatius Conan, e fece diventare questo suo terzo nome di battesimo – di origini celtiche – un finto cognome, accanto al semplice e umile Doyle, così da nobilitarsi un po’. Doyle era un uomo pieno di passioni: letterarie ma anche sportive. È un uomo di un periodo di transizione, dall’epoca vittoria al ’900. Nasce nel 1859 e muore nel1930. Sognava di scrivere romanzi storici, ma finì per aprire le strade a nuovi generi letterari: il Giallo e il romanzo fantastico.
Come nasce Holmes nella mente di Conan Doyle?
Nasce mentre faticava ad affermarsi come medico, e mentre aspettava in ambulatorio i suoi scarsi pazienti: comincia lì a rielaborare la figura del professor Joseph Bell, il suo grande maestro alla Facoltà di Medicina dell’Università di Edimburgo. Mentre cercava spunti per i suoi racconti, comincia ad applicare i procedimenti diagnostici della Medicina, fondati su una attenta e scrupolosa osservazione dei segni, alla professione del detective. Ne scaturisce così la figura di un investigatore assai peculiare, di un irregolare, che non fa parte dei corpi di polizia, ma che combatte il crimine e il male a modo suo, come un moderno cavaliere errante.
Padre Brown vs. Sherlock Holmes. Cosa li divide? Chi preferisci?
Chesterton, il creatore di Padre Brown, era di una generazione letteraria successiva a Doyle. Peraltro Chesterton era stato un attento lettore delle avventure di Holmes. I due personaggi hanno molte cose in comune: una spalla che li affianca, la determinazione a combattere il crimine, il calarsi coraggiosamente nella mente dei criminali per coglierne il modus operandi. Cosa li divide? Il modo di porsi nei confronti dell’esistenza. In fondo Holmes è un depresso che ha bisogno del lavoro, del piacere di entrare in azione di scendere in campo, per sfuggire al male oscuro che alberga nella sua anima. Padre Brown è un uomo la cui fede profonda conferisce certezze, equilibrio, forza morale, coraggio sereno di fronte alle storture del mondo. Il piccolo prete è dotato di una virtù, l’umiltà, che manca a Sherlock. Chi preferisco? Preferirei averli visti lavorare insieme: sarebbero stati la più grande coppia di detective di tutti i tempi!
Che c’entra il creatore dell’eroe del metodo deduttivo con lo spiritismo, i fantasmi, le sette spettrali, lo scatenato Houdini?
Come molti intellettuali del periodo vittoriano – in particolare l’ultimo – Doyle sentiva il fascino un po’ torbido del misterioso, dell’insolito. Da giovane medico si associò alla Massoneria, anche se in seguito ne prese le distanze. Col passare degli anni emerse in lui anche quell’attrattiva tipicamente celtica verso il soprannaturale. Era stato educato dai gesuiti, poi aveva lasciato la fede cattolica per diventare un razionalista scientista, ma ebbe sempre vivo una certa religiosità che però divenne negli ultimi anni soprattutto curiosità nei confronti del soprannaturale. Apparve ai più come un anziano un po’ patetico quando si convinse – e cercò di convincere la gente – dell’esistenza delle Fate, il “piccolo popolo” celtico.
Il romanzo (o il racconto) di Holmes che ci consigli di leggere. E quello più anomalo, strampalato, bizzarro.
A mio avviso il vero capolavoro di Doyle è Il segno dei quattro, il secondo romanzo, scritto a soli trent’anni di età. È il vero modello, l’archetipo del romanzo Giallo, un genere creato originariamente da Doyle. È una storia che affronta il mistero del male, e dove entrambi i personaggi della saga, Holmes e il buon Watson, si stagliano nettamente con le caratteristiche che saranno proprie per tutto lo scorrere delle avventure del canone. Il racconto più curioso è L’avventura del terzino scomparso, ambientato nel mondo dello sport, un mondo che era molto caro a Doyle, che alle Olimpiadi di Londra del 1908 aveva cantato le lodi dello sfortunato maratoneta italiano Dorando Pietri.
Perché ci conquista ancora Holmes, eroe letterario prediletto da infiniti tentativi di replica, traduzione, trasmutazione?
Credo perché rappresenta la metafora della condizione umana, che è ricerca di verità. Il detective – e Sherlock più di ogni altro – è un uomo in cerca di risposte, che procede seguendo tracce, indizi, segnali. Dentro ciascuno di noi ci sono domande in attesa di risposte, enigmi che richiedono soluzioni. Sherlock rappresenta questa ricerca, e ciò non può non evocare nei lettori analoghe tensioni e aspettative, magari a livello inconscio, non sempre esplicitate. Sherlock è un mito con cui la narrativa e il cinema continuano a fare i conti, confrontandosi con una figura talmente originale che può essere imitata e replicata, ma che continua ad imporsi come unica.
Qual è il libro di Holmes (o di Conan Doyle) che regaleresti a un Ministro (e perché).
Regalerei Uno studio in rosso non ad un Ministro qualsiasi, ma proprio al Ministro della Sanità Speranza. In primo luogo perché uno dei principali protagonisti si chiama come lui, Hope. E poi perché Holmes è uscito dalla mente creativa di un medico, e il buon Watson è un medico, e infine perché è una lettura che insegna a non fidarsi delle apparenze, a non giungere a conclusioni approssimative, e ad indagare a fondo. Tutte qualità che il Ministro farebbe bene ad acquisire, specie di questi tempi.