13 Novembre 2019

“Vale la pena, sempre e di nuovo, ritrovare quella radura in cui la parola dell’essere risuona, in cui la parola crea e ordina il mondo”: dialogo con Davide Susanetti su “Luce delle muse”

L’uomo ha iniziato a dare nomi a ciò che vedeva intorno a sé e ha continuato fino a che le parole stesse non sono diventate cose, i concetti. Alcuni di questi sono particolarmente problematici come quello di Verità. In effetti, sembra che più cose sappiamo più riusciamo a metterne in discussione. Per l’Europa e l’Occidente, gli antichi greci rappresentano il punto di origine di una trama che continua tuttora, nonostante la globalizzazione e la relativizzazione che la “postmodernità” ha portato con sé. Per gli antichi greci, ispirati dai miti, nei quali i miracoli vengono accolti continuamente, la verità è simile a un sogno fatto di simboli, a una favola, a un mito appunto. Rispetto a loro siamo disincantati, meno ingenui forse, ma anche vistosamente disorientati. Il Professor Davide Susanetti ha pubblicato per Bompiani un nuovo saggio dal titolo Luce delle muse dedicato alle parole di questo popolo, distante nel tempo ma ancora così vicino a noi.

Fino a che punto gli antichi greci sono influenzati dai miti che hanno creato? 

Il mondo greco, così come accade ad altre civiltà tradizionali, è interamente immerso e pervaso da un universo di storie fondamentali. Thomas Mann, in una conferenza del 1936, ricordava che per l’uomo antico la vita era una sorta di ripetizione cerimoniale e solenne di storie: la vita come ripetizione e inveramento di vicende già accadute nel tempo assoluto del mito. In questo senso, l’esempio archetipico, la scena fondante ci è offerta dall’Odissea omerica. Odisseo deve e vuole tornare a casa, ma Circe gli dice che, per poterlo fare, dovrà prima andare nella direzione opposta per consultare le anime dei morti. Ma, in questo incontro con i morti, l’eroe ritrova in forma di immagini e di parole, non solo i propri compagni dell’impresa troiana, nel frattempo periti, ma anche una teoria che gli scorre innanzi, i simulacri di tutti gli eroi e di tutte le eroine del mito greco. Nell’aldilà, egli incontra il suo passato e insieme tutti i miti fondamentali. Come se, per ritrovare se stesso e la strada di casa, fosse necessario incontrare l’universo delle storie e da lì ridisegnare la propria. Così, da Omero in poi, la tradizione poetica, che nella materia mitica si sostanzia, non è che rimodulazione infinita di vicende archetipiche in cui vita e morte, desiderio e paura, essere e divenire, cosmo celeste e mondo umano si intrecciano e si rincorrono. Certo, nel tempo, i Greci si fecero anche osservatori critici della materia mitica, sperimentando forme di distacco e di fuoriuscita da tale dimensione. Tentarono di interpretarla allegoricamente o, in taluni casi, la rigettarono. Ma il mito ritorna sempre. Come mostra lo stesso Platone, che dei miti e dei poeti fu aspro censore, ogni volta che c’è anima, ogni volta che si parla del respiro e del palpito invisibile della psiche, c’è un mito che subito prende a essere intonato. Perché l’anima è mito.

Da cosa scaturisce la forza persuasiva del mito greco?

Miele, fluido magnetico, incantesimo sono alcuni dei termini che, nei testi degli antichi greci, si rincorrono a indicare l’effetto delle storie sul loro pubblico. Un pubblico assorto e come incatenato, per malia, al ritmo e al fluire delle parole, allo snodarsi del canto intonato dai poeti, così come avevano fatto da sempre le Muse nei boschi e nelle valli che esse usavano frequentare: un gruppo di ragazze, che, nell’oscurità della notte, tra gli alberi e l’erba del monte, cominciano a cantare e danzare le storie del mondo. Ma questo incanto – prodotto dall’uso sapiente dei ritmi, dalla scelta delle parole e delle immagini, dalle movenze della danza – che scende nell’anima di chi ascolta è quanto serve a imprimere in essa la traccia persistente e duratura degli archetipi mitici, a imprimere i paradigmi che orientano la vita e i valori che la sostanziano. La persuasività del mito poetico si deve a questo e insieme al fatto, per noi così distante e diverso, di un ascolto che si dà sempre in forma di rito. Che si tratti del simposio di amici e di compagni o di una festa della città, delle cerimonie che accompagnano le gare atletiche di Olimpia o le scansioni delle stagioni, il mito intonato dai poeti è performance rituale che crea, ogni volta, una forma di eterotopia, che conduce in un’altra dimensione, in un altrove, dove le invisibili forze della vita e del cosmo si dicono e prendono figure agli occhi della mente.

Il nostro rapporto con le parole si perde nei secoli. Perché vale la pena rivolgersi alle parole degli antichi greci?

Vale la pena, sempre e di nuovo, ritrovare quella radura in cui la parola dell’essere risuona, in cui la parola non è strumento di mera comunicazione referenziale, ma è parola che crea e ordina il mondo, che lo compie e insieme lo dischiude in uno spettacolo di bellezza perfetta. Nel poema di Esiodo, le Muse affermano di saper “dire cose vere”, ma anche di essere in grado di “dire molte menzogne simili al vero”. La “verità” è dalla parte del “canto”, dalla parte di ciò che si pronuncia altrimenti rispetto al quotidiano e alla percezione ordinaria. E di questo, attraverso la poesia degli antichi così come dei moderni, abbiamo bisogno, di un “dire altrimenti”, di ritrovare parole che illuminino, schiudendo le porte della percezione all’invisibile. Parole di luce, perché “parola” e “luce” rimontano, in antico, a una medesima radice. Parole “magiche” perché in esse vi è la vibrazione delle energie che plasmano e animano la realtà, come la mitologia vedica o il mito di Orfeo o lo stesso canto delle Muse sul monte mostrano. Nel rapporto con i testi della Grecia antica, che s’inscrivono nella tradizione dell’Occidente, ritroviamo il riverbero di queste forze e, allo stesso tempo, i modi di un diverso abitare la parola e l’anima.

Oggi la letteratura e il teatro stentano, oltre ai numeri, nel produrre qualcosa di interessante, ovvero, che parli realmente di noi. In fondo, cos’è cambiato nel modo di fare letteratura o comunque l’arte in generale?

In realtà, in giro, vi sono molte esperienze e voci interessanti, tentativi e lavori che, in modo esplicito o implicito, si pongono il compito di abitare la “valle del fare anima”, per riprendere l’immagine nota di Keats. Voci ed esperienze che riattivano codici della performance rituale e dell’eterotopia che il rito produce, che lavorano sul simbolo e sul mito. Certo, non sono, in genere, opere sotto la luce dei riflettori mediatici né tanto meno presenti nei grandi circuiti del consumo, che condizionano tanto la produzione quanto la fruizione. Questo è un limite ma, tutto sommato, anche una risorsa, nel senso che protegge tali lavori dall’essere fagocitati nel vortice del mercato che ne stravolgerebbe senso e valore. Perché certe dinamiche “funzionino”, bisogna che i contesti in cui si danno si sottraggano, inevitabilmente, al numero e alla massa. Sono T.A.Z., per usare un’espressione di Hakim Bey: Zone di Autonomia Temporanea. E tali forse devono essere. L’importante è moltiplicarle e disseminarle, perché ove tanti, sia pure tra loro lontani e diversi, rimettono in circolo alcune forme di energie, si crea una massa critica utile a produrre nuovi orizzonti di coscienza. Ed è questo, credo, che ci sta a cuore, nella giunzione di antico e postmoderno, per immaginare un tempo e un mondo che verrà, un po’ nello spirito con cui Jung annotava nel suo Libro rosso: “Qual è l’elemento risolutivo? È sempre qualcosa di antichissimo, e proprio per questo qualcosa di nuovo, perché, quando una cosa passata da molto tempo ritorna, oggi, in un mondo mutato, è nuova. Dar vita a cose antichissime in un’epoca nuova significa creare”.

Alessandro Paglialunga

*In copertina: François-Léon Benouville (1821-1859), “La furia di Achille”

Gruppo MAGOG