Le parole sono fili di ferro che tessono trame di vite sospese, le parole creano realtà che non esistono, le parole confondono, infiammano, straziano, le parole possono essere salvifiche e attraversare un oceano per tenere in vita un istante durato per tutta l’esistenza come quello di Clizia e di Arsenio, ovvero Irma Brandeis, la ragazza di fuoco (brand) e di ghiaccio (eis), giovane ebrea americana poliglotta e studiosa di Dante, ed Eugenio Montale, poeta che con le parole e con i nomignoli affettivi amava giocare. A rendere il «ricordo un pezzo di eternità» quel «Buongiorno, Direttore», l’incipit di un incontro avvenuto tra i due a Firenze presso il Gabinetto Viesseux nell’estate del 1933, che cambierà a entrambi la vita, trasformandola in una storia d’amore irrequieta e sospesa che il poeta dei Limoni renderà eterna con la silloge Le occasioni e con un carteggio di ben centocinquantasei lettere, votando Clizia a musa immortale. Ma chi è veramente Clizia? Valeria Traversi, saggista ed esperta di letteratura italiana del Sei e del Novecento, nel suo romanzo di esordio Io non sono Clizia per i tipi Raffaelli Editore con prefazione di Marco Sonzogni, ha voluto togliere a Irma le vesti di mera musa ispiratrice, restituendola al lettore come «una donna di eccezionale valore umano, un’instancabile e acuta studiosa».
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Irma, venuta a Firenze per studiare la lingua di Dante, si ritrovò tra le mani Ossi di seppia, dono di un amico; come per la più infelice Francesca da Rimini, «il libro» le fu «galeotto» e le aprì «l’ondata della vita» che sapeva di aria profumata di agrumi e riscaldata dal sole, e cominciava così per lei «a dipanarsi il filo che mette nel mezzo di una verità». Inizia l’incantesimo: Clizia, come Alice, scivola nel rabbit hole, la porta delle meraviglie che la conduce lungo Costa San Giorgio, Ponte Vecchio, Palazzo Pitti, San Ruffillo, fino alla veranda della storica Pensione Annalena, accompagnata da Parlez-moi d’amour, cantata dal suo Arsenio. Erano gli anni di «Solaria», delle Giubbe Rosse, del fermento più produttivo degli intellettuali e dei poeti italiani, ma anche gli anni del fascismo e della primavera hitleriana che fanno da basso continuo al romanzo.
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La Traversi ci svela una delle storie d’amore più tormentate del Novecento, che dopo il precipitoso ritorno di Irma in America, a seguito dell’entrata in vigore in Italia delle leggi razziali, fu soprattutto una relazione epistolare diradatasi dopo il 1939: «Non faccio che ripetere il tuo nome Irma Irma Irma. Mi sembra di vederti ovunque e non so se esserne spaventato o rincuorato». A queste parole di Arsenio risponde Irma: «Ho paura della mia fantasia che mi fa vivere spazi e tempi che in realtà non esistono; perché io ho visto veramente una nostra casa, un nostro gatto, i nostri libri e, fuori, Costa San Giorgio». Ma il tempo, scandito dall’attesa delle lettere, simile al «ritmo che il nuotatore deve trovare tra l’apnea e il respiro», dovette deludere Irma. Così nelle Occasioni Montale scriveva: «La speranza di pure rivederti / m’abbandonava; / e mi chiesi se questo che mi chiude / ogni senso di te, schermo d’immagini, / ha i segni della morte o dal passato / è in esso, ma distorto e fatto labile, un tuo barbaglio».
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Il romanzo cerca di popolare l’immedicabile assenza che caratterizzò quella storia, rivelando dietro quel vuoto una pienezza, il delirio di esserci per l’altro, una segreta forma di presenza: «My dear Arsenio, […] sento la tua presenza accanto a me in ogni istante della giornata e mi pare impossibile essere separata da te. Scriverti è l’unica consolazione». Ma quell’assenza per il poeta è linfa, Clizia, «il girasole impazzito di luce», salvezza per lui, il visiting angel, la sua Beatrice, la donna angelo che scende dalle «alte nebulose» a visitare il poeta. Ma Clizia non è Beatrice, venuta «da cielo in terra a miracol mostrare», il suo è un cielo d’«alte nebulose»: «Ti libero la fronte dai ghiaccioli / che raccogliesti traversando l’alte / nebulose, hai le penne lacerate / dai cicloni, ti desti a soprassalti».
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Montale lascia in eredità a Irma la più grande dichiarazione d’amore, una raccolta di poesia dopo un lungo silenzio epistolare e soprattutto questi versi in cui si vaticina un incontro nella dimensione più onirica della poesia, senza tempo né spazio dove passato e presente sono un punto: «Ho tanta fede in te / che durerà […] Ci ritroveremo allora in non so che punto / se ha un senso dire punto dove non è spazio / a discutere qualche verso controverso / del divino poema». La promessa di un ultimo incontro è datata giugno 1981, ancora una volta elusa da un destino avverso. Montale, infatti, muore a settembre, quando Irma aveva deciso di incontrarlo per l’ultima volta a Firenze: «Irma, / you are still my Goddes, my divinity. / Quando, come ci rivedremo? / il tuo Montale».
Anita Piscazzi