14 Marzo 2024

Sulla terribile marginalità dello scrittore in un mondo dominato dal dogma del consumo e del “successo”

Il vero lavoro di scrittura, che possiamo porre come autentico e non consegnato ad ambiti spicciamente commerciali, non può che essere oggi insensato e utopistico. Nel momento stesso in cui si fa, esso si nega al mondo in primo luogo per la sua posizione di marginalità (che è un fatto eminentemente passivo all’apparenza, ma declina una forma dell’essere al mondo che testimonia senza l’insolenza di voler essere, per ciò stesso, a sua volta raccolta e testimoniata, se non appunto marginalmente) che è in parte definita da una sorta di dittatura del consuetudinario, del maggior numero e in ultima analisi frutto dell’acceso conformismo dei nostri tempi; in secondo luogo perché rivendica motivi e desideri intimi il cui statuto non delega deterministicamente a ragioni di preminenza sociale o politica, anche e soprattutto quando il suo discorso è politico e voce desiderante.

Credo che nel contesto odierno non occorrano i mezzi di una censura scopertamente tale o volta moralisticamente a detrarre il diritto di scandalizzare e di essere scandalizzati, la quale aveva ancora ruolo in un passato non così lontano, ma una sua versione preventiva presso una possibile, e perciò misconosciuta o avversata, possibilità di forza emancipatrice e sovversiva – là dove si sovverte la regola interviene una forza poietica che esce dal calco del prevedibile, ed è minacciosa verso un potere volto solo alla propria conservazione.

La censura in argomento, che potremmo definire moralmente impalpabile e pervasiva, muove su due linee: una è quella di operare una selezione verso ciò che è dettato essere un prodotto eguagliabile a qualsiasi altro tipo di manufatto, e l’altra che verte su un discorso di doma morale e intellettuale che ha lentamente assuefatto la massa a gusti plasmati secondo moduli asserviti a logiche di consumo e motivi di un’immediatezza barbara. Questa soglia dell’immediato si riscontra come misura non solo della fruizione culturale ma anche come fatto cognitivo inerente a coscienze deprivate del sedimento del ricordo, o della memoria, per cui ciò che è nell’attimo rimane tale senza misure di paragone o collocazione diversa da una contiguità eminentemente temporale e non più ampiamente contestualizzata o trasferita.

Ma per tornare al discorso della scrittura, è bene capire che a monte del processo di produzione che oggi le compete, ed è industriale e seriale, scarsamente distintivo e mimetico, a monte di esso risiede una logica che depaupera la possibilità di ciò che è complesso, non modellistico e non pedissequamente imitativo di codici oramai sdoganati in ogni aspetto della vita sociale. Di pari passo all’assottigliarsi della comunicazione effettiva e all’interdizione dei tempi che strettamente necessita fuori dalla cattività dell’istante e degli impulsi più crudi e grossolani, si assiste a un incremento del mezzo di comunicazione come frontiera di una simultaneità apparente, fittizia.

Mi spiego: esso si fonda sulla supposta interscambiabilità del mezzo e dell’esito della comunicazione stessa, tanto che il mezzo è predominante sull’esito o lo riassorbe a sé in forma apocrifa, contraffatta e illusoria. L’illusione è quella della compartecipazione (slogata in realtà dal piano concreto di un pur minimo momento collettivo che non sia ridotto a violenta astrazione), della condivisione (bandita questa, in forma piena, da frontiere sempre più intangibili ma fortemente ostative a livello sensoriale), della inclusività (escludere e includere sono facce di una medaglia della quale vale il taglio, ovvero la parte nulla che presuppone il loro alternarsi) e dell’abbattimento delle frontiere comunicative vincolate alla contiguità spaziale e temporale (ammesso che tale contiguità non sia auspicabile anziché da relegare a una importanza decaduta e obsolescente, cosa che negherò, non si esce dalla tirannia del mezzo, della visibilità, dell’evidenza che relegano il volto enigmatico di una presenza da interrogare, nel terreno di ciò che è immagine e non reale presenza). La sfera privata, in questa logica, viene assorbita dall’ipertrofia di quella pubblica col risultato di rendere dissacrabile ciò che è intimo e ciò che è intimo bandito dalla sacralità della vita e di una condivisione che non omette ma anzi ha ancora una vereconda forma di limite e sobrietà.

La scrittura è un atto intimo, esistenziale, irragionevole se vogliamo, ma non esibitivo o esornativo com’è a massimo grado quando consegnato a una propalazione contraffatta e seriale e a standard acefali ovvero tali da riprodurre uno specimen che non è di un soggetto compiuto e compiutamente attivo, ma risultato della massa inerte del largo consenso. Può anche darsi che scrivere sia una forma di abitudine che non si sa smettere, che il suo senso si perda nell’esigenza protratta e insanabile di moltiplicare una visuale nell’altrui sguardo, in questo caso nella altrui lettura; ma ciò che qui si dimentica è la responsabilità presso ciò che si diffonde e persino una visione che sia un po’ più che meramente imitativa e scimmiesca. La responsabilità avvicina scrittore e lettore e li ricomprende entro un orizzonte che è della reciprocità e del peso del testimoniare per il doppio verso di chi testimonia e di chi interroga quel testimoniare fuori da un contesto meramente decò.

Il problema più grande è quello della supposta simmetria dei rapporti che oggi viene celebrata in ogni contesto della vita collettiva. Un rapporto perfettamente simmetrico è sterile, non dà luogo a nessun travaso, a nessuna forma di permeabilità di conoscenze e di espressioni del sé. La dissimmetria dovrebbe presupporre la legge dell’analogo in luogo di quella dell’uguale, in mancanza dell’identico che è irriproducibile.

In questo caso la simiglianza non è seriale e neutra, ma tale da creare risposte distintive e distinte che la assumono a presupposto di condivisione. Parimenti non esiste discorso di forma che sia solo un discorso strumentale: essa è già contenuto nel momento stesso in cui non si interdice la possibilità della simiglianza. Essa è al contempo tattica e strategica, se si vuole, cioè una presenza sostanziale in cui la fisionomia è identità e l’identità è fisionomia. L’atto di scrivere, poi, è quanto più creativo se ingenera simiglianza là dove v’è il suo contrario, ovvero avvicina versanti che sono inconciliabili entro la conciliazione metaforica, o frutto di una traslazione che deterritorializza gli ambiti, per assegnargli territori nuovi.

Viene piuttosto da chiedersi perché si assiste oggi a una simile ridondanza pletorica di conformismo e omologazione delle voci letterarie. Questo è un problema che ha statuto solo se si considera la letteratura un mezzo e non un fine. Per essere essa uno scopo deve scavalcare l’utilità ricondotta a schemi di mercato, cioè una brutta utilità, ma persino, aggiungo, un concetto più puro e pregresso di utilità. Essa cioè dovrebbe essere libera dalle bardature eteronome di scopi di secondo grado rispetto alla propria forma conchiusa e a sé bastevole. Quando viene meno il suo presentarsi come scopo altro da sé, viene in suo soccorso la bellezza di ciò che non è orientato se non a sé. Il che non pone come infruibile il suo prodotto, ma come massimamente fruibile in quanto gratuito e matrice di uno sguardo che si dà come originario e si invera come originale nella precisa forma della prospettiva cui lo consegna il lettore. Privare insomma la scrittura dell’artificio di una linea di fuga perfettamente prospettica, che non può avere in quanto simbolica come un bel quadro gotico e non precipuamente imitativa, per rendere profondamente prospettico il gesto di fruirla. Essa dovrebbe rimandare sempre ad altro che alla fattualità dell’espresso, essere cioè l’inenarrabile in quanto narrato.

Ma se questa è una postura che ha senso solo nell’utopia, si deve anche credere che quanto più autentico è un soggetto che scrive, tanto più utopistico è il suo fine. Il che non esclude che egli vada a segno, semplicemente non si pone di andare a segno. Sta fuori, cioè, dal raggio di ciò che è addomesticato dal consumo e dall’omologazione, e in virtù della sua marginalità trova scopo nella propria stessa identità partecipata qualitativamente e non numericamente: assurda perché più avviene più non avviene in modo sensibile per ciò che detta la legge edonistica del consumo sfrenato.

Una scrittura così fatta è irragionevole, irriducibile, o meglio orientata a ragioni che non sono fattuali ma misteriche e simboliche nel senso di sacrali. Essa si fa voce del numinoso e si fa carico di una propulsione sorgiva e immanentistica rispetto al fine designabile come auspicato dalla regola e dal codice delle mercanzie di idee e di arte letteraria.

Viene da chiedersi come un autore possa desiderare di rimanere a margine e senza sperimentare una sorta di alienazione, ma la vera alienazione è quella di chi produce letteratura consegnandola a un anonimato di massa piuttosto che a soggetti pensati per comprenderla e farne un uso che non metta l’autore in una estraneità verso l’unicità dell’opera stessa.

In altri termini, un autore deve riscoprire le proprie sorgive risorse e non cercare largo consenso come postulato motivazionale delle proprie scelte. Essendo un utopista deve ragionare al limite dell’insensato, là dove si crea invece di produrre testi di culto letterario incoronati dall’assuefazione feticistica del pubblico verso oggetti seriali, proprio là dove la parola somiglia a qualcosa di irripetibile e irriducibile al consenso che genera: scandalosa in quanto fuori dall’orbita dell’abitudine. Un’abitudine temprata da un sistema che reifica i soggetti deputati a leggere come campioni su scala ampia di ciò che deve essere ulteriormente prodotto, creando un circolo vizioso di stagnazione e di somiglianza generalizzata e non individuata.

Se una censura didascalica, o morale se preferite, ha cessato la sua funzione storica, è perché è stata sostituita da una più temibile che è quella descritta in avvio. Qui non si tratta più di modellare le coscienze con tribunali da inquisizione, qui si tratta di mandare al rogo la possibilità stessa di una forza liberatrice ed emancipatrice a livello cognitivo e posturale.

Di pari passo comunicare non dovrebbe più significare trasferire dei contenuti, siano essi affettivi o ragionati, come da un computer a un supporto, ma creare una risonanza dai risultati imprevisti e imprevedibili che investe i contenuti di un’aura nuova e di una significanza accresciuta perché non pianificata a monte secondo regole eterograde, ma risultato di una scrittura erratica, dell’azzardo e non ispettiva, sempre straniera anche su terreni apparentemente consolidati: tale da essere “terribile” in quanto sublime.

Massimo Triolo

*In copertina: Salvador Dalí, Galatea delle sfere, 1952

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