
La famiglia sciagurata e il pericolo del matrimonio. Sulla “Lettera al padre” di Kafka
Letterature
Massimo Triolo
I racconti di questa pregevole raccolta, scelti e ordinati dallo stesso Buzzati, sono allegorie turbanti, spunti surreali, bugie fantastiche che abitano con dati di cronaca, o presunti tali, in una boutique del mistero (1968): affascinante terra in cui padroneggia l’Inconscio, attraente corifeo della cerea ombra di un indeterminato che non ha confini come una notte fosca di bitume, senza lampi e senza astri; ammaliante paese con un solo nemico “l’eternità o l’assenza di essa” come direbbe Hemingway. Alterazione della facoltà di percepire mediante i sensi, coscienza vacillante, pensieri vaghi ed evanescenti, sviste, allucinazioni reggono la texture della narrazione che si equilibra sottilmente sulla fune del paradosso.
L’analogia o il debito con Kafka, evocati dalla critica in maniera pletorica e ripetuta a svantaggio palese dell’autore italiano, sono per Buzzati simili a una persecuzione, tanto da suggerire scherzosamente egli stesso che, parafrasando, vengono rilevati persino quando scrive un telegramma o compila un modulo. Non capiamo allora perché non riscontrare analogie significative con racconti di Čechov come “La morte dell’impiegato” o con molti dei racconti di Gogol’, per fare due esempi celebri. È ripetuto fino alla nausea, in via esegetica, il concetto della presenza costante, in Buzzati, della tematizzazione di angoscia e alienazione e il nesso con la routine del suo lavoro di giornalista, talché “Il deserto dei Tartari” diverrebbe, in modo corrivo e banale, un romanzo allegorico sulla solitudine e sulla meccanica opaca del suo lavoro redazionale. In verità Buzzati scorge mistero ovunque nella vita, anche laddove sembrerebbe interdetto o bandito; e se un paragone con Kafka deve essere fatto, è quello in chiave simbolica, ovvero tale da rimandare all’orizzonte borghese o piccoloborghese che si presta a essere deformato fino all’evidenza della sua insensatezza, fino a essere nunzio di assurdità e di un solo mistero, cioè quello dell’eccedenza di una ragione sterile e notarile, dell’atrofia del desiderio, spurio e legato a dettami materialistici, che divengono il contrario di un progetto sensato di vita.
Come può agire un autore, di fronte a una classe sociale dominante che ha canonizzato valori spenti e cinerini, conformisti e figli dell’assuefazione e della coazione a ripetere di agiti che sanciscono la fine, o l’eclissi, di ciò che non rientra nel prevedibile, nel perspicuo e in una serietà pesante almeno quanto infertile alla fantasia, di ciò insomma che è misterico e imponderabile, se non facendo di quei cliché una caricatura mostruosa che invera il suo contrario: ovvero, contro un senso unico e totale, il nonsenso e l’angoscia di qualcosa che incombe ed ha connotati fantasmatici dal punto di vista delle cause e dei motivi razionali? Bisognerebbe piuttosto chiedersi se l’assurdo, nel teatro come nella letteratura, non sia una risposta al mito della trasparenza, della produttività, dell’efficienza burocratica, della scalata sociale, del regno affaristico e di un materialismo non soggetto a interrogativi altri dal come e cosa agire per ottenere cosa. La serialità monotona, il rituale solito, il desiderio effimero, finanche l’amore, tutto è orientato verso un altrove preoccupante che non è dato intendere. Allora si capisce perché l’autore scardini tutta la meccanica deterministica degli eventi e dei contesti, slogando l’attenzione dal nesso causa/effetto e proiettandolo in un territorio in cui gli effetti sono dati senza preamboli, imponderabili nell’origine e tali da ingenerare interrogativi al limite del pensabile, senza che mai sopraggiunga una risposta a dirimere il concretarsi dell’inesprimibile.
La prosa di Buzzati si fa paratattica, scarsamente descrittiva, lasciando più di un’intercapedine da riempirsi attraverso la riflessione su temi eterni, ma declinati nel neoterico fino allo straniamento e alla perdita di coordinate certe o epistemi logici. Parliamo di “vuoti” di concretezza che si affoltano di simboli e rimandi incessanti a figure e motivi moltiplicati da teorie di specchi deformanti. Ciò che conta qui si suggerisce, si accenna in modo tale da essere denotativo invece che maggiormente connotativo. Assistiamo a un contesto “imbastardito” che si nutre sia di sogno che di realtà: il tempo della realtà, monotono ed uguale a sé, tempo congelato nell’immobilismo, in una litania di gesti e pensieri ripetuta oltre ogni altra e più ariosa aspettativa; il tempo sognante o del sogno, del magmatico e del caotico, sempre diverso, sempre irriducibile, sempre tiranno e fuori da auspici disegnati dall’abitudinario. Eppure, la contraddizione è solo apparente: tutto si risolve e trova la sua giustificazione nella drammatica condizione della natura umana, nell’errore di prospettiva che è diaframma non trascurabile tra individuo e realtà. Il “fiume del tempo”, cordone ombelicale dei racconti, non cessa di scorrere, erodendo e decomponendo la condizione stessa d’ogni cosa; insensibile ma inesorabile.
A stupire non sono il grottesco e l’assurdo in valore assoluto, ma ciò che di essi si proietta a intercettare temi così attuali da sconcertare. La pandemia da Covid insegna qualcosa di molto vicino a “Sette piani”. Un trascurabile aggregato bio-chimico ormai privo di ordine, un insignificante scarafaggio schiacciato, diventa un vibrare lamentoso grande come una stella che si spegne ma ancora più vicino di essa, e propalatore di un agonico lamento che coinvolge per una notte un intero condominio in allarme. Un mantello nasconde la guerra ma la guerra reclama ciò che v’è sotto e la morte, personificata, attende paziente l’ultimo saluto di un soldato ai propri cari… Cosa di più logico di un piccolo mantello che ne simboleggi uno più grande, gigantesco: l’ideologia o il delirio di conquista, che occultino gli orrori della guerra e rintuzzino, sotto la cappa di una morale giustificazionista, ferite fisiche e morali, oggetto di collettive rimozioni.
E ancora, parole d’amore inattuali, consegnate allo spettro soltanto di una donna amata e dimentica persino della persona che le scrive: amanuense simbolico del proprio cuore e del quale si fa pedissequa esternazione – insensata solo come può esserlo l’amore quando chi lo testimonia abita un autismo esistenziale. Un Dio che, forse, preferisce a un’intelligenza aliena incapace di peccare e che non può concepirlo, la stirpe umana impeciata nel peccato e rivolta a Dio, incapace di non concepire entrambi. Una paura incessante presso ciò che sarà, tale da paralizzare e inverare un’attesa senza requie di qualcosa di fatidico… Medici, suore e infermieri che lamentano questioni di “pertinenza” locativa all’interno di un ospedale, procrastinando sine die le cure a una donna ferita portata in braccio da un soccorritore. L’elenco sarebbe ancora lungo, ma ciò che qui conta e stupisce è la sensibilità quasi esasperata di Buzzati, la delicatezza non priva di ombre e minacciosi segni, con cui tratteggia personaggi e storie, cucendo assieme un’attenzione ispettiva di carattere morale e universale, laddove la vita sembra scucire ogni sensatezza e non rispondere che per simboli e annunci di qualcosa che esorbita il progetto umano.
Se l’immaginario letterario di Buzzati ha molto a che fare con il surrealismo, e reca la nota intonata dell’evasione, esso è anche una partenza precipitosa che lo allontana dal neorealismo imperante e gli permette di essere “un addomesticatore di apocalissi”, come piace ad Emilio Cecchi, addestratore in una vita che è lenta attesa, goccia di uno stillicidio che rovescia la legge di gravità, luogo privilegiato in cui le regole dell’assurdo sono lo specimen di vite in cui l’ovvio non esiste se non nel sonno di una ragione che ostracizza la sacralità del fantastico e no sa prendere sul serio ciò che è destinale. Sì, un Fato che può tutto ed è impenetrabile, impermeabile a un’attribuzione di senso definita e definitiva; schernevole, tanto che
“Tutti, caro figliolo, son venuti quassù per uno sbaglio…Chi più chi meno, anche quelli che ci sono rimasti”.
Eclettismo illusorio e gioco combinatorio, fredda cronaca e brillante fantasia, l’irrazionale che irrompe nell’ordinario, creano un disallineamento nei significati e dichiarano che siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, per dirla con Shakespeare, ma il loro sommerso è ciò che risulta, in Buzzati, messo costantemente alla vista seppure fantasmatico e misterico: voce inascoltata di una realtà che spartisce col sogno il teatro dell’umana vicenda.
Massimo Triolo e Giusy Capone