L’importante è sapere chi sei, il tuo ago d’enigma, il punto in cui tutto si dissolve nel vizio. Il mio vizio è la forma. Secondo me un libro deve essere formalmente impeccabile – poi sull’‘impeccabile’ sono disposto ad accettare patti barbari. Lo apri a caso e aspiri. Cocaina verbale. Faccio l’esercizio. La scimmiesca divinità del caso mi sbatte a pagina 143. “Delirio ossessivo che spazia arpionando dentro i cunicoli di una formazione mentale. Le formazioni mentali non vanno scacciate, bisogna lasciare che attraversino. Fare come le Bene Gesserit con la paura. Eccomi fantasticheria deforme che mi lascio mostrare a me stesso prima di dissolvere la concentrazione concentrandomi sulla parte umida delle narici durante l’inspirazione e l’espirazione”. Devo dire che anche l’incipit è azzeccato (“E comunque, quando la sciagurata vicenda principiò, quel martedì mattina di fine aprile, io non ero granché lucido, anzi sarebbe più corretto dire che versavo in un penoso stato di rincoglionimento stordito e dolorante”), ma a forgiare quello, lavorandoci, son buoni tutti. Fatto come sono fatto – un insieme di ustioni verbali vampiresche, ho lettere al posto delle ossa – se uno in una manciata di pagine – specificamente pagg.126 e 127 – fonde Smerdjakov a David Lazzaretti, il ‘Cristo dell’Amiata’, il Kalachakra e Metatron, l’angelo che balugina nei libri apocrifi di Enoch, la dea babilonese Tiamat e il soma, mantenendo una narrazione tra il visionario e il realistico (“Dorata era un donnone severo e taciturno dai fianchi tanto larghi che avresti detto fossero stati fatti per partorire cavalli, altro che bimbi”), beh, per me un tipo simile deve assurgere allo Strega, intronarsi sulla vetta della letteratura, esserne il despota. Vengo al nocciolo del fatto. Andrea Zandomeneghi ha pubblicato il primo libro con Tunué, s’intitola Il giorno della nutria, ha una copertina bellissima – un cervello che galleggia in evanescente viola – ed è un romanzo (diciamo così) fatalmente sorprendente, finalmente. Se volete la trama del libro, smammate, smaniosi, informatevi altrove, da me saprete soltanto che se uno descrive la pioggia così, “gocce grosse e sode come astragali o molari di scimmia”, ha la mia improbabile benedizione, sulla via della letteratura italiana, costui, può tutto. (d.b.)
Intanto. Da dove viene questo romanzo atipico, anormale, informale? Quando lo hai pensato, quando è scattata la miccia creativa, perché questa storia e non un’altra tra i miliardi di altre?
Questo romanzo viene da molto lontano e nasce da un fallimento. Cinque anni fa iniziai a scrivere una saga fantascientifica mascherata da fantasy romanistico ambientata nel 50.000 dopo Cristo: creai un pianeta artificialmente terraformato con una propria geografia, flora, fauna; inventai millenni di storia e di cultura; costruii religioni, dei, miti riti e simboli. Per tre mesi, dalla mattina alla sera, non feci altro, fermandomi solo per mangiare qualcosa al volo a pranzo e a cena. Scrissi circa 800.000 battute, appendici escluse. E così mi ammalai. Ebbi un esaurimento e la maniacalità partorì un tremendo disturbo ossessivo compulsivo. Dovetti dismettere quel progetto, ma dopo un po’ sentii l’esigenza di ricominciare a scrivere, ribaltai però ogni prospettiva narrativa in una vera e propria enantiodromia: se la saga aveva un’estensione abnorme, il romanzo su cui iniziai a lavorare sarebbe stato breve; se la saga era lontana nel tempo e nello spazio, il romanzo sarebbe stato ambientato nella contemporaneità e nei luoghi che mi circondavano; se la saga prevedeva molti punti di vista, il romanzo ne avrebbe previsto uno solo; se la saga era fantascientifica e si dipana nel corso di millenni, il romanzo sarebbe stato realistico e si sarebbe svolto in un solo giorno; se la saga m’aveva fatto ammalare e aveva generato il disturbo ossessivo compulsivo, il romanzo avrebbe trattato della malattia e in particolar modo delle ossessioni.
Poi. Entriamo nella tua fucina creativa. Di quali autori ti cibi, quale linguaggio è stato utile a perfezionare la tua visione linguistica (o quale incontro)?
Schopenhauer dice che la legge di gravità è valida anche per la scrittura e la lettura: quando scriviamo le parole scendono facili dalla mente alla mano al foglio, quando invece leggiamo serve uno sforzo – che contrasti appunto questa metaforica gravità – per far risalire le parole dal foglio agli occhi alla mente. Ecco, io sono dislessico e lo sforzo per me è molto più poderoso. Ho iniziato quindi a leggere tardi, verso i 15 anni, prima mi rifiutavo, faticavo troppo. Il grande incontro della mia vita è stato Dostoevskij che poi ho sempre continuato a leggere e rileggere. Gli altri autori di cui mi cibo, oltre al grande russo epilettico, sono soprattutto: Petronio, Plutarco, Cesare, Tolstoj, Gogol, Gončarov, Leskov, Bulgakov, Turgenev, Balzac, Flaubert, Sade, Huysmans, Maupassant, Proust, Schwob, Stendhal, Rabelais, Mann, Goethe, Schopenhauer, Nietzsche, Hesse, Kafka, Jung, Eliade, Kristof, Wallace, Roth, Bolaño.
Nel romanzo (diciamolo così) c’è una totale contaminazione, c’è il mito e il culo, la teologia e la biologia, la vertigine e il sottosuolo, misceli le visioni di uno Pseudo-Dionigi allo svacco di Lebowski. Insomma, cos’è il romanzo per te, che senso ha la letteratura, ora?
Ho riflettuto proprio in questi giorni sul punto, stimolato da un’indagine di Writing bad. Sono giunto alla conclusione che il romanzo non è morto e non può morire; certo, soffre, perché è il territorio della complessità mentre lo spirito del tempo idolatra il riduzionismo. Proprio alla luce di questo il romanzo è fondamentale. Scrive Hermann Broch che l’unica ragione d’essere del romanzo è scoprire quello che solo un romanzo può scoprire, che il romanzo che non scopre una porzione d’esistenza fino ad allora ignota è immorale, che la conoscenza è la sola morale del romanzo. Aggiunge Milan Kundera che il romanzo è pervaso dalla ‘passione del conoscere’ (quella passione che Husserl considera come l’essenza della spiritualità europea) che l’ha spinto a scrutare la vita concreta (dove non alberga la certezza, dove sorge l’impero delle contraddizioni, del dubbio, dell’interrogativo) dell’uomo e a proteggerla contro ‘l’oblio dell’essere’: la storia del romanzo è la storia delle sue scoperte e non la somma di quel che è stato scritto. La missione del romanzo è quella d’illuminare – e perché no? contribuire a produrre – l’irriducibilità dell’umano. L’incubo del riduzionismo è il mensuro ergo possum che progredendo si ribalta distruggendo l’uomo nel mensuror ergo non sum. La missione del romanzo – lo ripeto – è far sì che l’umano sia.
Che libro avresti voluto scrivere e che libro vorresti scrivere in futuro?
Ho scritto il libro che volevo scrivere, sono soddisfatto, posso dire che mi sarebbe piaciuto allentare ulteriormente la trama, fare della digressione il perno di ogni discorso, moltiplicare all’infinito le visioni. Insomma mi sarebbe piaciuto farmi contaminare di più da Cărtărescu. Non è stato possibile perché andava oltre le mie attuali capacità e potenzialità. In futuro vorrei scrivere un trattato di storia della masturbazione, il seguito de Il giorno della nutria e soprattutto vorrei riprendere in mano la saga fantascientifica di cui ho parlato prima.
Per fare letteratura conta di più: la rabbia, l’amore, l’invidia, il candore, la disciplina, l’istinto selvaggio, il culo smodato?
Contano tutte queste cose, perché ognuna è un motore potente. Se fossimo in un laboratorio di scrittura creativa direi ai partecipanti che le cose che contano di più sono: l’amore per la letteratura e la disciplina nella lettura e nella scrittura. Lo direi perché ci credo fermamente. Per quanto riguarda il mio caso specifico la rabbia e il culo smodato hanno giocato un ruolo non secondario. La rabbia per la cefalea cronica da cui sono affetto, il culo smodato di aver trovato in Vanni Santoni un interlocutore estremamente stimolante.
T’interessa la letteratura italiana recente? Come la leggi, cosa ti piace?
Della letteratura italiana non me n’è mai fregato molto – amavo giusto Tondelli, Tomasi di Lampedusa e Calasso – e mi ci sono avvicinato in modo serio solo a partire dal 2016, quando ho accettato la condirezione di CrapulaClub. Ho capito – colpevolmente e troppo tardi – di aver sbagliato a fregarmene: in realtà la letteratura italiana contemporanea è ricca e interessante. Ora la leggo parecchio, mi piace anche recensirla, ho iniziato a farlo prima su Crapula, poi su Il Foglio. Gli autori che preferisco sono Siti (Troppi paradisi si gioca con Il tempo materiale il titolo di miglior romanzo italiano degli ultimi vent’anni), Vasta e Sebastiano Vassalli. Mi piace poi moltissimo la scrittura di Santoni (forse non sta bene dirlo perché è il mio editor, ma lo dico ugualmente). Aggiungo che c’è anche un autore, ancora del tutto inedito (ha pubblicato solo satire menippee su riviste on line), che mi fa impazzire, si chiama Gregorio H. Meier ed è di Prato – se dovessi scommettere su qualcuno per il futuro scommetterei su di lui.