Per un lettore di professione, la scoperta di uno scrittore è spesso legata a un episodio specifico o a una rete di episodi che glielo hanno fatto approfondire. Per esempio, il nome di Fausta Cialente per me è connesso a due fatti. Il primo riguarda gli anni universitari.
Studiavo il Novecento italiano ed ero attento a quanto suggerivano, in presa diretta, i critici a cui sentivo d’essere più legato. Cialente la conobbi per un giudizio entusiastico che ne aveva dato Emilio Cecchi introducendo una nuova edizione del romanzo Cortile a Cleopatra, la cui prima edizione risale al 1936. Il secondo episodio che, tempo dopo, mi fece tornare di nuovo a lei, fu la scoperta, sorprendente, del Quartetto di Alessandria di Lawrence Durrell, tra i capolavori narrativi del secolo scorso, il cui ultimo volume, Clea, che consideravo, tra i quattro, il più poeticamente risolto, o dove la poesia si divinizzava nel personaggio più misterioso della tetralogia, appunto in Clea, era stato tradotto per la prima volta in italiano nel 1962 da Feltrinelli proprio da lei, dico da Fausta Cialente. Di quel lavoro, la Cialente aveva dichiarato:
«L’autore mi ha come presa per mano e riportata su luoghi che mi sono infinitamente cari, in mezzo a figure e paesaggi che prediligo, ma che ho dovuto rivedere in una luce completamente diversa: un’Alessandria molto più immaginaria che reale, più colorita e torbida, più complicata e misteriosa di quanto lo sia mai stata. Così è naturale che io abbia preferito la fedeltà e la poesia con cui sono restituiti, in pagine veramente belle, i bagliori del mare d’Agami, la caccia alle anatre, le albe sui laghi salati. Ed è innegabile il fascino della prosa lussuosa e sgargiante di cui si serve il Durrell per interpretare questo moderno milleunanotte di un Medio Oriente spettacolare».
Quello che si evidenzia da questa dichiarazione è proprio il differente modo di sentire quella città leggendaria, che Fausta Cialente aveva abitato tra le due guerre per oltre vent’anni insieme al marito musicista (dal quale poi si separerà, continuando a viaggiare per il mondo, così come era stata abituata fin da bambina) e che rappresenterà anche il filo di molti suoi libri, da Ballata levantina (1961), a Il vento sulla sabbia (1973). Se per Durrell la città egiziana era un luogo soprattutto mentale, psichico, uno spazio poetico in cui provare a raccontare quanto la realtà fosse un fatto soprattutto interpretativo, Cialente vuole invece dipingere le atmosfere che ha vissuto e restituire, prima di ogni cosa, una musica e un colore che si porta dentro.
E tra i romanzi che hanno come scenario proprio Alessandria d’Egitto, forse il più importante è proprio il primo, Cortile a Cleopatra, che ora torna in libreria per La Tartarugacon un lungo ed esaustivo ritratto dell’autrice firmato da Melania G. Mazzucco. Si è detto un romanzo di colori. E se dovessi suggerirne uno per Cortile a Cleopatra direi che non c’è paesaggio, tra quelli descritti da Cialente, che non sia giallo. Un giallo così intenso da tendere al bianco. Un giallo che contiene già tutta la sabbia del deserto che s’alza coi venti e tutta la luce che risplende; una luce senza ombre, equatoriale. Ma non solo le luci della città hanno quel colore, anche la sintassi (suadente, calda, sensuale), la lingua (un lessico denso, saturo), la storia, i personaggi sono parte dello stesso paesaggio, irradiano lo stesso bagliore.
Cleopatra è un quartiere d’Alessandria, corroso dalla salsedine e dalla povertà, in cui avviene gran parte della narrazione. Lì, nello stesso cortile, convivono tutte le culture del Mediterraneo. Il romanzo ruota intorno a Marco, un ragazzo nato in quel sobborgo da madre greca e padre italiano. Ma un giorno, quel padre, fa un fagotto e porta via con sé suo figlio lontano, in Italia. Quando però il padre muore, Marco decide di tornare da una madre che praticamente non conosce, in una vita che gli è totalmente estranea.
Ma è Marco il vero corpo estraneo che irrompe nella vita del cortile, e la sua estraneità è una sorta di irruzione e rivoluzione di una illusoria armonia. Marco è dio e demone, colui capace di commuoversi e commuovere e nello stesso tempo la persona che mette in crisi, col suo comportamento che seduce e irrita, la vita di tutti, stravolgendola e poi, quando sente esaurita la sua carica numinosa, quando il senso della responsabilità lo vorrebbe inchiodato a dei doveri, lasciare tutti al loro tragico e infelice destino. Si è detto che il colore di Cortile a Cleopatra è il giallo. E forse occorre aggiungere che quel colore è lo stesso Marco a portarlo, lui l’Apollo che accende in quello stanco quartiere l’alito della vita.
Fausta Cialente, a distanza di vent’anni dalla pubblicazione del romanzo, in una nuova edizione scriveva che il libro non aveva avuto la sorte che meritava. È la stessa sorte toccata alla sua autrice, che nonostante un Premio Strega (con Le quattro ragazze Wieselberger del 1976), importanti giudizio critici (tra i più recenti, un profondo saggio di Franco Cordelli che introduce la ristampa di Ballata levantina), trasposizioni televisive (uno sceneggiato con Giulietta Masina rifaceva il romanzo Un inverno freddissimo del 1966), è sempre rimasta nascosta dai nomi noti della letteratura del secolo scorso. Ma è anche il destino che la Cialente ha in qualche modo scelto per se stessa. Non amava rilasciare interviste e nemmeno la vita mondana; sapeva difendere il privato e separarlo dalla letteratura; era una donna inquieta e sempre in fuga. In fuga come il suo splendido protagonista, Marco, che entra in scena, mostrando quanto intensa possa essere l’esistenza. Ed è l’intensità di un attimo, come un paesaggio giallo che per un momento contiene dentro di sé tutti i colori: tutta la vita.
*In copertina: Jean-Léon Gérôme, Studio per palme, 1868