
“La notte è il mio giorno preferito”. Le poesie d’amore di Emily Dickinson
Poesia
Paola Tonussi
Prima di costruire, occorre distruggere, per fare spazio. Perciò ho sterminato migliaia e migliaia di poeti, a partire dal sottoscritto, per stendere una lista buona per chi volesse mettersi ad attraversare la palude contemporanea e dragarla, in modo da renderla abitabile, dove può valerne la pena, e costruirci invece vie ad alta velocità dove non c’è nulla. Ne ho annotati quasi duecento, di autori. Così tanti? A dire il vero, sono il minimo, per affermare di conoscere ciò di cui si vuole parlare, se di poesia contemporanea parlar si vuole.
Ovviamente, al grido di battaglia “O tutti o nessuno!”, gli assenti e gli amici degli assenti hanno cominciato il lancio delle pietre, ossia delle lapidi coi loro nomi, per trovare spazio nel paradiso, che è poi, invece, soltanto un cimitero. Nessuno a scandalizzarsi se poeti di valore assoluto, ma del Novecento ormai profondo, erano lasciati nascosti tra le antologie da compulsare. Invece di scandalizzarsi per Palazzeschi, ecco Tizio che s’indigna per il torto a Caio, mentre Caio s’indigna in difesa di Tizio. Ma hanno fatto capolino, certo, anche quelli nient’affatto stupiti del numero, altri esperti più aggiornati del sottoscritto a cui ronzano nelle orecchie il lamento delle migliaia di voci sacrificate: lasciano, questi, qualche suggerimento sensato, anche azzeccatissimo. In ogni caso, almeno una ventina tra i poeti contemporaneissimi, nella lista di partenza, sono scambiabili con altri a piacere, guidati dal proprio gusto ma anche, perché no?, dal proprio ambiente di appartenenza. Sempronio, però, esperto e paladino della giustizia, liquida la faccenda in una battuta, s’indigna in generale, sventola principi non rispettati. Non si accetta il gioco, che è serio, e si resta seriosi a giochicchiare.
Era ben prevedibile, eh, perché la provocazione sarà in sé anche ingenua, ma non chi l’ha promossa. Tanto, per zittire ogni critica, basta indicare il principio secondo cui per includere, occorre escludere. Oppure, che si proponga un’altra lista più coraggiosa, tenendo presente però l’obiettivo di offrire una campionatura proporzionata di tutto il circostante, non la rappresentazione del proprio gusto. Ma, a queste condizioni, si rimane tranquilli in trincea, dove non si starà comodi ma si è almeno al riparo dal fuoco avversario e persino da quello amico. Armiamoci e partite!
I duecento prescelti hanno invece gongolato. Non hanno capito un bel niente. Al netto dei primi nell’elenco, così all’avanguardia da essere per lo più già nell’aldilà, gli altri sono come spartani pronti al macello. Ma sì, chiamino gli amici a supporto, per arrivare alla canonica cifra di trecento. Tanto il numero non fa la forza, anzi. Io, per me, dovessi scegliere solo i prediletti, del mio catalogo ne terrei a fatica una decina e ne inserirei di esclusi, magari che mi interessano al di là del valore letterario. E non per amicizia, ma per ciò che scrivono, imperfetto eppur fertile.
Gongolano, i duecento. Ma uscire dal mucchio indistinto e mettersi spalle al muro significa esporsi al giudizio impietoso di chi verrà, e farà piazza pulita il più possibile. Sempre che, ovviamente, qualcuno ci sia, animato dal desiderio di portare avanti la storia. Al momento, è più probabile che si salterà il capitolo a piè pari, e via, leggeri, vele spiegate al vento dell’epoca futura, lieti di ripetere, inconsapevoli, le sorti del capitolo appena saltato.
Ma la speranza, per chi ama la letteratura, è che la tradizione non s’interrompa, che ci sia ancora qualcuno che leggerà, per capire da dove si viene e dove ha senso andare. Qualcuno che valuterà con più distacco e rimedierà ai nostri errori: la lista provocatoria è stata stesa a vantaggio anche di chi non c’è, se lo si vuol capire.
Ma eccoci al cuore del problema, al di là dell’episodio buono per l’innesco. Sono tutti così preoccupati di salvare il proprio nome in qualche repertorio offerto ai posteri, da aver rovesciato il senso di marcia. Fateci caso: anziché guardare ai padri non solo con legittima ammirazione, ma anche con fiero distacco e con capacità di critica, si sta diligentemente in fila, accodati al proprio maestro-padrino, in attesa di uno sguardo benevolo. Dall’altra parte, si sbircia verso gli ultimi arrivati con un mix di astio (“Ehi, accodati al posto giusto, non saltare la fila!”) e di accondiscendenza, perché prima o poi, potenza della biologia, si compirà lo scatto, e allora qualche discepolo bisognerà pur averlo a propria volta. Nessuno contesta la legge dei presunti padri, ovvero dei padrini d’oggidì: “Se non stai dalla mia parte, non esisti”. Come quel poeta, ormai ultrasessantenne, che mi aveva mandato dei testi e, in attesa di un’opinione, mi raccontava delle sue frequentazioni con il Poeta Illustre, di come da decenni passasse con lui le domeniche nella Grande Città, e infine della delusione perché finché si trattava di pubblicare presso l’editore minore, la soluzione B, non c’era stato problema, ma per l’Immortale Collana del Supremo Editore no, non se ne parlava proprio. Possibile che cercasse da qualcun altro, a questo punto, un risarcimento, un tardivo attestato d’esistenza? Eh no, qui non si certifica l’esistenza di nessuno. Nessun catalogo, nemmeno una definitiva consacrazione nel canone esime dal dover fare i conti con la morte. E i conti con la morte si fanno da soli, davanti alla pagina bianca se è il caso, oppure tra sé e sé. Poi, come poeti, si percorre, schiena dritta, la propria strada, qualunque essa sia, in compagnia o in solitudine, senza bisogno del battesimo di chicchessia.
Ma lasciamo i presunti padri nella loro illusione di appartenere a un mondo che ormai non c’è più. Lasciamoli godere serenamente la loro vecchiaia, i padrini padroni della poesia. Fuor di ogni ironia, è un loro diritto acquisito arrotondare la pensione portando avanti la sequela infinita delle rassegne di esordienti e le rubriche sui rotocalchi dedicate ai libri ricevuti; svernare correggendo le bozze del nuovo libro o scrivendo le prefazioni ai nipotini; risvegliarsi in primavera tra la giuria di qualche premio, per distribuire benefici alla stirpe con bilanciata magnanimità; trascorrere l’estate in tournée per ricevere premi e discettare in convegni, possibilmente con qualche vecchio amico al fianco, se ne è rimasto ancora qualcuno; prepararsi al nuovo inverno ripresentandosi al solito festival settembrino, dove li attende, anno dopo anno dopo anno, la poltrona riservata; infine, riprendere a scrivere, al riparo dalle correnti infauste della stagione, per riavviare il ciclo.
Piuttosto, guardiamoci tra noi, che siamo nel mezzo del cammino. Eccoci incantati dal triste spettacolo, illusi che presto la pacchia toccherà a noi. Ma la poesia non è una compensazione per la morte che incombe; la poesia non salva la vita. Non la nostra, almeno. Alimenta la vita in sé stessa, semmai. Così, il modello perfetto per i poeti “contemporaneissimi” è don Abbondio. Occorre evitare ogni conflitto. Essere debole con i forti e forte con i deboli, ma sempre con lo sguardo di chi sembra giustificarsi: “Non è colpa mia, se il potere fosse stato dalla tua parte, starei con te!”. Oh, certo, in privato fanno i leoni, i poeti. Poi, gli metti sotto il naso un elenco, giusto per innescare la sacrosanta rissa, e manco colgono la citazione.
E invece: passare la vita a grattarsi via dalla faccia il nome, abbandonare persino la propria casa e lasciarla aperta ai ladri e ai vagabondi! Là dove tu hai costruito, permettere che i Proci gozzoviglino, ignari della sorte.
Un padre vero esige la lotta, dal figlio, la rivendicazione di un suo sguardo personale sul mondo. Solo così sarà temprato. Perché la disciplina è una forma d’amore.
Ma i giovani, quelli che io non mi sono nemmeno azzardato a inserire nella famigerata lista, possiedono naturalmente la ricchezza che tutti bramano, il dono più prezioso: il tempo. Così, ecco che chi può se li coccola e li protegge. Gli prepara la pappa e la professione a venire, per mantenere i beni di famiglia. Come i genitori dei figli a scuola, che peraltro crescono fragili e ansiosi.
Non li vedete, gli scrittori che si spartiscono le nuove leve, che le coltivano a dovere? Prima li infilano in qualche quaderno collettivo, poi, dopo averne testata la fedeltà, gli affidano la cura della loro antologia, quindi gli pubblicano da qualche parte la monografia che gli hanno tributato e, a quel punto, lasciano loro uno sgabello da segretario in qualche giuria o la cura degli autori under 20, in un processo avanzato e inarrestabile di lottizzazione. Ashbery, mi spiegavano, è stato metodico nel lavoro per assicurarsi la discendenza e quindi la gloria letteraria. Vuoi mettere in Italia, con l’esperienza maturata nei vari baronati accademici?
Per quel che mi riguarda, invece, la direzione va rovesciata, se si vuole che il motore della tradizione si rimetta in moto. Nessuna deferenza per i padri, se tali sono, perché la riconoscenza non va rilanciata all’indietro, come dovrebbero insegnarci essi stessi; leale competizione con i coetanei, perché vincere facile non aiuta nessuno; testimonianza di fedeltà a una visione da raccontare a quelli che verranno, perché trovino però la loro strada. I giovani non vanno vezzeggiati, favoriti, spinti alla poesia, semmai indirizzati altrove, svezzati con la prosa del mondo. Poi, nel caso, starà a loro svoltare.
Ciascuno dunque prepari il proprio canone privato, lo arrotoli come una pergamena, e tiri randellate sulla testa del primo esordiente che si pavoneggia. Poi si predisponga, quietato, al grande falò della nostra epoca.
Andrea Temporelli