19 Aprile 2023

“In questo aprile mostruoso, così privo di Storia”. Omaggio a Pasolini

Non sapete? Proprio
insieme al Barocco del Neo-Capitalismo
incomincia la Nuova Preistoria.

Pier Paolo Pasolini, da Poema per un verso di Shakespeare

Ho ascoltato in grande serenità i tuoi lucidi interventi, là dove la parola, seppure misera e derelitta quando non classista, era in te una forma splendida di nitore e coesione. Sapevi bene che il tuo ruolo, quello cioè che ti concedeva il Potere – un Potere angariante e neanche troppo sottilmente censorio ma per certo tale da condannarti nello stesso gesto di compiere un’assimilazione del tuo ruolo –, doveva eludere moralismo e demagogia per non essere un fascismo di sinistra. Il primo, il moralismo, è una patologia del senso morale; e il secondo una patologia dell’impegno – politico o civile fa lo stesso.

Le tue parole erano veridiche e precise come un compasso ma il problema di forma e contenuto non aveva statuto che nel metafisico, nell’assenza di senso presso l’esercizio stesso della scrittura, che più volte avevi definito una vis inertiae, un’abitudine come mangiare, vestirsi…

Sapevi bene che il pantano del partitismo era una degenerazione della democrazia, e quindi in ciò eri anarchico e contrario alla logica del confessionale, fosse esso quello dei media di massa, fosse quello clericale o politico.

Amavi chi era ingenuo, incontaminato da una cultura bieca e affettata almeno quanto anodina, e provavi simpatia per chi fortemente, in modo assoluto e generoso, sentiva. Se mai vi fu un calcolo nel tuo terreno di scrittore e intellettuale, non fu un calcolo legato all’utile, fosse esso l’utile all’interno della contestazione, fosse esso l’utile del vantaggio, del primato.

Amasti un mondo contadino e arcaico e un cristianesimo non adulterato dagli elementi temporali e gesuitici del cattolicesimo. Il Vangelo era per te un testo rivoluzionario, la parola e l’atto a cui attingere come a una grande opera intellettuale.

Sapevi poi che un intellettuale, al tuo tempo, come oggi aggiungo io, oscilla tra due poli ravvicinati fino quasi alla loro fusione: da un lato l’esempio ex cathedra che odiasti, perché conferiva un tono e un valore apodittico a ogni enunciato speso, e questo anche quando falso o sottilmente vessatorio; dall’altro quello della propria intima necessità di esprimere idee, che presuppone una libertà confiscata, nella sostanza, dai modelli culturali vigenti e dominanti, dalla macchina stessa della fabbricazione del consenso e infine dalla gabbia del cliché.

Che libertà ti rimaneva, dunque? Forse quella di far coincidere ierofanticamente il Pasolini scrittore e regista, il Pasolini uomo e polemista, per non incorrere nel paradigma schizoide e nelle nevrosi tipiche di un censo elevato.

Dicesti chiaro che il peccare non significa non fare il male – ciascuno ha un rapporto intimo e irrevocabile col male ed esso non è qualcosa di ontologico, caso mai esistenziale –, ma non fare il bene quando possibile, questo significa. Splendida dichiarazione popolare e non populista, che voleva suggerire la necessità di avere verso un’anima la stessa pietà che si ha per un bambino – ma lontana dal paternalismo –, perché essa è proprio come un bimbo, un animale, una creatura che si aggira sola per la terra. Questo scrivesti in un vibrante passaggio poetico di “Una disperata vitalità”.

La tua arte sollevava scandalo, ed è ben vero che anche questa era una forma di privilegio, per quanto vacua e inconsistente all’atto pratico; ma in linea di principio, andava se non altro rivendicato il diritto a scandalizzare come a essere scandalizzati.

Ti ponesti alla fine di un ciclo storico, al centro di un’era neo-barocca di edonismo e falsificazione, e quella che chiamasti mutazione antropologica era qualcosa di spesso e palmare: era il delitto perfetto compiuto su un popolo ancora non privo di una identità arcaica e puramente ingenua, religiosa in senso autentico e rituale, attraverso la massificazione e il consumismo; attraverso il passaggio, anche, da un desiderio spontaneo a uno indotto e non lineare.

Quanto alla politica, essa non aveva scrupoli o orizzonti morali, nemmeno a livello conservatore: era cioè un soggetto sovracodificato ma unidirezionale nel volgersi a una sola istanza: il mantenimento del potere. La conservazione era conservazione del ruolo e il ruolo mai così distante dalle esigenze dei diseredati e della classe-non-classe del sottoproletariato. Ma intuisti anche che nella fucina di omologazione odierna, nessun giovane di sinistra si sarebbe potuto distinguere, né somaticamente né in altro ambito, da un giovane fascista; e questo perché la dimensione del desiderio, che è eminentemente una questione politica, non poteva che essere inoculata in guisa di veleno nel corpo-società: il veleno di una soggettivazione nevrotica e dissociata, tale da rimuovere sempre il trauma della responsabilità sostituendolo con la coazione a ripetere del consumo.

Dicevi che con l’età avanzata avevi guadagnato il “lusso” della felicità, di una felicità che aveva gettato via ogni zavorra e peso, persino quello della logica (compromessa) dell’impegno, e anche il tuo cinema per breve tratto ne ha partecipato (il Decameron ne era un esempio); ma sapevi bene che il volto tetro di un sistema chierico-fascista si traduceva ora in una entità diffusa e pervasiva, non strutturata in regime dalle fisionomie e ritualità riconoscibili, se non attraverso l’interpretazione del volto esopico di fatti e circostanze apparentemente disarticolate.

Conoscevi anche l’azione concessiva del regime cui accennavamo, cioè il suo ruolo post-ideologico e la sua gestione degli spazi di desublimazione, come li chiamava Adorno.

Il padre severo e tutto d’un pezzo (quello da uccidere simbolicamente) è stato sostituito dal padre amico e permissivo, la famiglia è divenuta un luogo anomico, valori sobriamente genuini vengono rimpiazzati dalla suasiva voce di una logica inclusiva che concede libertà inespugnabili almeno quanto vuote: vale a dire che un regime storicamente fascista sanciva un Ethos, per quanto orribile, mentre oggi si fatica a rintracciare i soggetti responsabili cui ricondurre in primo luogo il delitto sull’azione di contenimento (identitario) dell’edonismo più spinto, e in secondo luogo la stringente programmazione seriale della diseguaglianza di fatto, nonché di un’eguaglianza speziata che livella e rende tutti uguali “ma senza amore”, come scrivesti tu.

Quanto alle madri, bene, il razzismo di ieri è quello di oggi, ma vestito e guernito d’ogni diritto inessenziale alla parata del mito della simmetria (i rapporti simmetrici sono un inganno sterile, a mio avviso) e dell’egalitarismo delle identità. La donna non si è ancora realmente riscattata, perché la figurina bidimensionale che era nella società del patriarcato fascista è omologa a quella odierna in cui emula l’aggressività e il rampantismo del maschio machista, pena il perdere un ruolo sociale che non sia quello del focolare domestico. Un tempo era custode di vita, oggi è solo generatrice di essa e consegna i propri figli a un mondo senza più un alfabeto, sia affettivo o sia afferibile al farsi di una coscienza di sé che si svincoli dall’automatismo del tutto è lecito, tutto è concesso.

Invero niente esce dal divieto di essere veritativi e padroni di un eudemonismo rivoluzionario, e quindi niente è realmente espressione di libertà seria, felicità, autarchia, mentre tutto è sacrificato a essere la ripetizione dell’uguale in luogo dell’identico. Aggiungeremo che questa penuria d’essere attraversa anche il linguaggio e che quando un termine, o una fraseologia, è codificato e riconoscibile è già sdoganato non tanto il suo perimetro semantico quanto,  in modo surrettizio e con tutto il carisma del simbolo, il suo statuto d’essere simile a un’ipostasi. Il fatto che i neo-simboli siano una truffa e una brutta propaganda è solo il necessario corollario e companatico di un Potere che mistifica mercificando opinioni e fatti desunti apparentemente perspicui e irrevocabili.

La nuova realtà schizoide è quella che deriva il concreto dal simbolo e non viceversa.

Il Potere, poi, è l’allegoria di un inferno in cui il diritto è tale solo se concesso e figlio di un surplus di delega; privo d’ogni statuto di concretezza, invece, quando figlio di un poetante atto poietico.

***

Omaggio a Pasolini

L’incendio di un’anima pur povera
è arte della forma al servizio di una parabola.
Non una cronaca degli attimi
dirimpettai della morte,
ma l’ardua messa in scena, con fini morali,
di un ramingare innocente
a spasso per luoghi anticamente acerbi
che sfidano il reflusso della Storia:
dalle cimase ai pinnacoli,
dalle corti ai cortili,
dalle cupole lontane e ramate,
col cospetto igneo
delle eburnee vedute statuarie,
ai bassifondi dove la storia drena ogni atto,
parola e circostanza –
minutaglie, ora più di ieri, indotte
e eteronome –,
e il senso perfino che spetta loro:
non votato che alla stentata forma
di protovita
che orba ostina il proprio perpetrarsi
senza cimento di discrezione,
né decidendosi infine
che per cognite ragioni senza riscatto;
atavicamente ostile
agli illustri testimoni stenografi
di ciò che è convenuto non trascurabile.
Io qui vedo e sono testimone della fine,
non di una fine genericamente intesa
ma di una fine stereotipa,
del limitare di un immenso gravame
di Secoli e perfidia,
maltolti sciacalleschi, ratti e abusi,
acerrime contese, papaline codardie.
Elisi proclami di libertà, infine,
che altro non sono
se non gli abiti da cerimonia
della più profonda confisca
che di essa mai si sia veduta,
fanghiglia del potere più vessatorio
e conforme a regola,
seriale declinazione
della propria violenta apodissi.
Qui v’è tutta l’itterizia dei vinti d’oggi,
lo scolorare lento e senza traccia di tempo,
lo sfiorire di un’urgenza ormai rappresa,
come i rivi e i fiotti carnali
d’antico glicine su tufo,
muri d’argilla o travertino:
ferite, ormai senza grido,
sulla via già innocente
e ora barbara e disusa alla pietà…
Perché il nuovo glicine
non sa quello avito,
e quello di un tempo ignora ciò che vedo,
e nel mezzo solo catene di fioriture.
Rasciutta è la passione, già cadaverica,
in questo aprile mostruoso
così privo di Storia
e così calato nel consumo e nei suoi usi.
Odo un canto agro,
anch’esso senza Storia,
sfilano canicole di volti obliqui
nella notte enfia d’odori urgenti:
e il canto si fa belato ruggente…
Di feticci, mode, nuovi idoli,
stampa libera
che opera bieche persecuzioni,
mostruosa religione legiferata –
infallibile livella delle coscienze
e delle identità –
con le sue regole
che vogliono tutti uguali senza amore,
padroni di riscattare un ringhio ferino
presso il proprio cieco possesso.
Ma là dove gli stiliti sono certi
troverete più umana via,
più ignara purezza:
proprio dove verginità è colpa e garrota,
animale speme non ammansita.
Il glicine pasoliniano è già memoria
e sgargia, quasi esonerato,
in limine ai fortilizi carogneschi
di un potere arrogante e barocco.
S’annuncia una fine –
anch’essa merce –
fitta di atti criminali
irrelati a ogni responsabilità diretta,
una fine pervasiva e intangibile
che pure detta
un’escatologia di pena e morte.
Un fine cui soccombe non la memoria,
ora zavorra e falso retaggio,
ma una stilla, sia pure, di vereconda luce.
V’era lo spettro della donna
che più non si incarnava nella storia
degli stenografi di chi la fece,
ma moriva nel raggio
della propria voce indocile e muta.
V’era lo spettro dell’uomo,
un così tondo e riuscito primato,
figlio di una esegesi morale e politica
esecrabile perfino quando tempestiva.
Ora, dentro il chiasso dei mercati,
anche quelli di idee e fatti desunti,
sta il sigillo di un olezzo mortifero,
la putrente miseria
di un’Età immeschinita
in cui tutto è a portata
e niente privo di prezzo e matricola.
Non occorre più maschera,
il potere l’ha fatta volto e figura.
Non servono più alibi,
il potere ha normalizzato questo delitto
dei corpi e delle identità –
fisionomia di un servaggio
figlio di un surplus storicamente inedito
di delega e pecoreccio consenso.
Quanto esile questa carta,
quanto fragile
l’anima grafitica di questa matita.

Massimo Triolo

Gruppo MAGOG