20 Febbraio 2020

“Bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti resusciti, ti racconti a te stesso”: elogio di Salvatore Satta

Il rifiuto, a posteriori, non fa che sigillare con triplice forza l’autenticità di un’opera. Pare quasi un cliché nel fatto letterario. I casi clamorosi, tra i tanti, sono quelli del Gattopardo, di Guido Morselli, di Salvatore Satta. Indubbiamente, Il Giorno del Giudizio, iniziato nel 1970, è uno dei grandi libri del ‘canone’ italiano. Un libro lugubre e stravolto, elegante e primordiale, in una Sardegna corrusca tra le cui spire vedo sbucare Malcolm Lowry, il Console, Sotto il Vulcano.

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Salvatore Satta mi affascina per due ragioni. La seconda è che il rifiuto si lega, infine, dopo averlo scontato, alla forza d’urto di una griffe, a una volontà di potenza critica. Intendo. Satta muore nel 1975. Tra le sue carte viene scoperto il romanzo, pubblico, nel 1977, per Cedam. Non se lo fila nessuno. Nel 1979 Adelphi – che, forse occorre ricordarlo, dal 1974 aveva cominciato a pubblicare, con successo, l’opera di quell’altro grande postumo, Morselli – ripubblica Il Giorno del Giudizio, “per la sollecitudine di Francesco Mercadante”. Allora, “il libro, inizialmente ignorato dalla critica e accolto con imbarazzo nella città natale, divenne presto un caso letterario tradotto in diciassette lingue” (così Italo Birocchi e Eloisa Mura nella nota al Dizionario Biografico degli Italiani Treccani). Del libro, ora, esiste anche l’edizione Il Maestrale e Ilisso.

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Nino Frank veniva da Barletta, morì a Parigi, era amico di Joyce, dava del tu a Beckett, a Picasso, a Sartre. È lui che traduce Il Giorno del Giudizio di Satta per Gallimard, nel 1981 – traduce anche La veranda, e traduce, per il grande editore francese, Cesare Pavese e Italo Calvino, Alberto Savinio e Curzio Malaparte e Beppe Fenoglio e Gavino Ledda, ma questa, come si dice, è un’altra storia.

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Questa storia, invece, narra della forza critica di George Steiner che sul “New Yorker”, è il 1987, consacra Satta come uno dei grandi scrittori del Novecento (l’articolo è riprodotto in George Steiner at The New Yorker, appunto). Steiner apparenta Satta a Benjamin, a Lee Masters, a Dylan Thomas, a Joyce. “Nessuno scrittore della memoria, a parte Walter Benjamin, comunica in modo più toccante di Salvatore Satta (si noti il presagio contenuto nel suo nome di battesimo) il diritto degli sconfitti, dei ridicoli e degli apparentemente insignificanti a essere dettagliatamente rievocati… La composizione del testo, allo stesso tempo episodica e fittamente intrecciata al proprio interno, richiama alla lontana quella dell’Antologia di Spoon River, ci sono momenti di vivace satira sociale, voci pompose o tumultuose come quelle che si odono in Sotto il bosco di latte. Ma né Edgar Lee Masters né Dylan Thomas hanno l’intelligenza filosofica, la pazienza della sensibilità che consentono a Satta di realizzare una struttura formale pressoché priva di difetti. Migliore analogia la troviamo nei pittori. Gli effetti raggiunti nel Giorno del giudizio possiedono la misteriosa autorità che vive nella grana delle cose in uno Chardin, l’opaca luminosità che ci arriva dai corpi umani di La Tour… Solo nei Morti di Joyce risuona in maniera tanto commovente il passo del tempo che mai più tornerà”.

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In effetti, il brandello della “Parte seconda” del Giorno del Giudizio che si replica in fondo, accade la neve, come nel finale dei Morti, in Joyce. Vi leggo la pace di Satta nell’accettare di essere postumo – di scomparire alla letteratura.

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Alessandro Parronchi esprime un giudizio forse più severo, forse più lucido di Steiner: Il Giorno del Giudizio è stato da taluno paragonato al Gattopardo, ma il paragone sembra improprio. Lampedusa era un letterato raffinatissimo, e il suo romanzo è di squisita qualità letteraria, la sua via alla poesia è l’alta malinconia dello scrivere letteratura. Il Satta traeva la sua intensità di rappresentazione da un’esperienza di vita nutrita di austero sentimento morale, arrivava alla sostenutezza del suo lirismo solenne, di quasi epica risonanza, direttamente dal profondo del suo sentimento morale, e a questo livello va giudicato”. Resta che Satta è una delle medaglie più preziose in teca Adelphi: quasi un ‘caso’ prodotto in vitro.

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Non si è detto degli altri rifiuti. La veranda – poi edito da Adelphi nel 1981 – fu presentato, manoscritto, al Viareggio, nel 1928. I giurati lo snobbarono: la vicenda infera di quei malati carcerati in un sanatorio del Nord era troppo triste. Soltanto Marino Moretti si esaltò, come disse sul Corriere dell’Informazione vent’anni dopo. Di Satta non aveva più saputo nulla, lo credeva morto… Due anni prima, per altro, Satta aveva proposto a Einaudi De Profundis. Squalificato pure quello, per istinto politico più che per ragioni di poetica. “Rifiutato da Einaudi nel 1946 con la motivazione che l’autore, rimasto al di fuori dell’ambiente antifascista, non poteva comprendere le spinte ideali sottese alla Resistenza (la lettera, firmata da Massimo Mila, ebbe una piccata risposta di Satta), fu poi respinto da Sansoni (nonostante i buoni uffici di Ugo Spirito, su richiesta di Capograssi) e da La Nuova Italia (si attivarono Francesco Calasso ed Ernesto Codignola). Il libro fu infine edito da Cedam nel 1948, ma rimase pressoché ignoto al largo pubblico e ai giuristi fino al 1980, quando, accolto da Adelphi, ebbe una notevole fortuna sulla scia del successivo romanzo” (Birocchi-Mura).

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L’altro aspetto che mi affascina – che mi affascina primariamente – è che Satta – vi prego di leggerlo, è sotteso – fu giurista di altissimo pregio. Accademico a Padova, Genova, Roma, già rettore dell’Università di Trieste, compila un importante Commentario al Codice di procedura civile. Sprofonda nella Legge, ne è un esegeta – pare iscritto in un racconto di Kafka corretto da Borges: il giurista sardo che passeggiando in un cimitero incide, sanzionando gli dèi, la propria idea di giudizio e di universo. In fondo, Satta è un talmudista della letteratura – dirime il diritto dei propri personaggi, ne setaccia l’ambiguità luminosa dal grumo tenebroso, della ragione sonda l’irragionevole. Il giudizio non fa merce delle pene, non contrabbanda colpe, svasa nell’insperabile. (d.b.)

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Riprendo, dopo molti mesi, questo racconto che forse non avrei dovuto mai cominciare. Invecchio rapidamente e sento che mi preparo una triste fine, poiché non ho voluto accettare la prima condizione di una buona morte, che è l’oblio. Forse non erano Don Sebastiano, Donna Vincenza, Gonaria, Pedduzza, Giggia, Baliodda, Dirripezza, tutti gli altri che mi hanno scongiurato di liberarli dalla loro vita; sono io che li ho evocati per liberarmi della mia senza misurare il rischio al quale mi esponevo, di rendermi eterno. Oggi, poi, di là dai vetri di questa stanza remota dove io mi sono rifugiato, nevica: una neve leggera che si posa sulle vie e sugli alberi come il tempo sopra di noi. Fra breve tutto sarà uguale. Nel cimitero di Nuoro non si distinguerà il vecchio dal nuovo: ‘essi’ avranno un’effimera pace sotto il manto bianco. Sono stato una volta piccolo anch’io, e il ricordo mi assale di quando seguivo il turbinare dei fiocchi col naso schiacciato contro la finestra. C’erano tutti allora, nella stanza ravvivata dal caminetto, ed eravamo felici poiché non ci conoscevamo. Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti resusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale. È quello che ho fatto io in questi anni, che vorrei non aver fatto e continuerò a fare perché ormai non si tratta dell’altrui destino ma del mio.

Salvatore Satta

*In copertina: un particolare dal “Giudizio universale” di Michelangelo

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