10 Aprile 2019

Reportage dall’isola di Jura, dove George Orwell – bambino in spalla, motocicletta e Luger a portata di mano – scrisse “1984”, il libro del nostro presente

Gli amici nordamericani di Longreads hanno pubblicato un reportage dall’isola di Jura, Scozia del Nord. Lo leggete qui, è scritto con sobrietà da David Brown, fisico di formazione, già corrispondente per vent’anni del Washington Post. Brown si è recato sul vecchio continente in una zona tuttora poco ospitale, con la sua companion Judy. Seguiamolo sull’isola di Jura al largo delle coste scozzesi, dove tra ’46 e ’49 Orwell elaborò il nostro presente: 1984.

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Benvenuti a Jura, nelle Ebridi interne: quella è la casa dove George Orwell scrisse “1984”

La casetta di Orwell si trova in località Ardlussa, tonalità color crema, struttura architettonica pressappoco georgiana, di eleganza settecentesca (siamo sempre in Scozia e col Settecento finirà ogni autonomia espressiva sotto il tallone inglese). Classico caminetto e affaccio sul mare. Ma per raggiungerla serve percorrere 11 chilometri dalla località principale che è Barnhill. La bambinaia raccontava che Orwell si mise in spalla Richard, il figlio di un anno, per fare le ultime tre miglia prima di raggiungere la casa.

Questa immagine di Orwell col bimbo in spalla su un terreno “impraticabile per normale traffico” vale un altro articolo.

C’è un dettaglio inatteso, però. Orwell dovete immaginarvelo in moto, e magari con una falce ben stretta al sellino posteriore per rimuovere ostacoli su altri percorsi poco battuti nell’isola; così dicono gli eredi del proprietario che affittava a Orwell. Solo dieci anni fa è stata buttata la moto di Orwell (era “danneggiata oltre ogni dire”). Dettaglio singolare, come Kafka in motocicletta.

E a proposito del proprietario, ha anche lui un alone affascinante. Si chiamava Robin Fletcher e durante la guerra aveva servito nei Gordon Highlanders nel lontano Oriente, era stato catturato Singapore e spedito a costruire l’impervia ferrovia Burma-Siam (nomi antichi inglesi per Birmania-Myanmar e Thailandia, dettaglio che serve per capire Orwell, anche lui spaesato tra India e Birmania). Orwell aveva conosciuto Fletcher quando frequentava con borse di studio l’iperaristocratica boarding school (cioè preuniversitaria) di Eton. Robin Fletcher era housemaster, direttore di convitto. Del resto, i carteggi di Orwell stampati da Penguin si aprono con lui appena maggiorenne che scrive all’amico, tale Steven Runciman, che è l’autore migliore anche oggi se volete leggere la storia delle Crociate. Ecco cos’è la “società stretta” che Leopardi lamentava inesistente in Italia: il coacervo di personalità illustri e intelligenti che al Nord Europa è diffuso da tre secoli, e significa che un giovane scrittore poteva frequentarsi con un altrettanto giovane storico di vaglia: società stretta, tenete a mente.

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Torniamo sull’isola scozzese: la proprietà affittata da Orwell si componeva di più di ottomila ettari, e vi passò una buona estate nel ’48 mentre l’anno precedente era stato dedicato tutto a preparare il terreno, a piantare, seminare, potare. In compagnia del figlio Richard e assistito dalla bambinaia perché la moglie era morta un anno prima a 42 anni in seguito a un’operazione chirurgica. Così la vita proseguiva, e se volevi scambiare due parole trovavi oltre a Fletcher due ex tenenti sopravvissuti allo sbarco in Normandia, due veterani della campagna in Italia e altri due reduci dalle prigioni giapponesi. C’era un solo negozio in località Craighouse e lì si chiedevano per posta scritta le provviste alimentari; vigeva ancora il regime di razionamento.

Si legge nel diario di Orwell in un giorno di fine maggio del ’46, arrivato da pochissimo sull’isola di Jura: “Cominciato a scavare in giardino, quindi spezzato la torba. Roba da spezzare anche la schiena. Suolo non solo secco come le ossa, ma proprio roccioso. Nondimeno ha piovuto un poco la scorsa notte. Appena riesco a rattoppare per bene le varie buche vi pianterò dell’insalata”.

Gennaio del ‘47, mentre la storia ambientata di 1984 era alla prima stesura: “Piantato una dozzina di alberi da frutto insieme a ribes, uva spina, rabarbaro e rose”.

Agosto: “Il più del pomeriggio a riparare la macchina da scrivere”.

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Sull’isola di Jura, si legge nel reportage di Longreads, tra altri animali selvatici si possono trovare dei magnifici esemplari di cervi rossici, i red deers. Certamente Orwell non li disturbò. Chi lo frequentò in quegli anni sapeva però che teneva una Luger carica a portata di mano, in casa. Non era per i cervi, ma per altri “rossi”. C’era ad esempio questo fidanzato della bambinaia, un comunista che comprensibilmente aveva studiato a Cambridge e (più onorevolmente) era stato capo carrista in guerra. In un’intervista del 1984 questi raccontò una situazione che trovava divertente ma che in fondo continuava a non capire. La storia è semplice: Orwell prendeva il tè in cucina con la sorella e il laird (scozzese per “proprietario”) – lui, il comunista di turno, era confinato in cucina con la fidanzata.

Non voleva essere spiato, sapeva che in UK questa pratica era corrente.

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La letteratura inglese, benché chiusa nel suo impero, ha sguardi profondi, da spioni. Pensate solo, prima di leggere il misterioso diario di Orwell, che anche Dickens tra uno scherzo e l’altro dei suoi caratteri teatrali trova il pretesto di scrivere con precisione e da conoscitore su come lavora un agente privato. Oggi lo chiameremmo giallo, quel capitolo 37 del Martin Chuzzlewitt intitolato Servizio segreto dove compare un soggetto che “lo sorvegliava negli uffici della Società di assicurazioni; ne seguiva ostinato i passi per le strade; stava a origliare quando lui conversava; si metteva a sedere nei caffè e segnava ripetutamente il suo nome negli appunti che riempivano il gonfio portafoglio; scriveva senza posa a se stesso lettere su di lui; e quando se le trovava in tasca, le bruciava, con tanta diffidenza e cautela da chinarsi a guardar salire nella corrente d’aria del tiraggio le ceneri del foglietto appallottolato, quasi temendo che il mistero in esso contenuto potesse saltar fuori del comignolo”.

Come? Dickens che cantava il Natale? Esatto. L’intelligenza è essere Altrove. Per questo, e scusatelo se sembrava misantropo, Orwell si era ritirato nel profondo Nord a gettare reti profetiche che tengono bene anche ora: ingegneria sociale, spersonalizzazione, spionaggio moneta corrente e via così.

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Orwell non registrava nulla del suo romanzo nei Diaries, dice il nostro diarista su Longreads. Ma guardiamo meglio, c’è un punto dove la vita si trasfonde nella pagina. La vicenda è quella che segue: durante la guerra Orwell lavorava per la BBC indiana e aveva visto poi dimenticato e di nuovo ricostruito dettagli scabrosi che mandano in frantumi l’immagine idilliaca delle democrazie in guerra. D’altronde, il Regno Unito teneva ancora l’Impero: e tra marzo e aprile 1942 l’Italia in guerra era come la Birmania (oggi Myanmar se usate le mappe). Identiche le situazioni: in ritirata gli Alleati sia da Birmania che dall’Italia, gli USA nemmeno ci volevano mettere piede. Troppe beghe giapponesi in Birmania, e in Europa meglio puntare al cuore del nemico, a Berlino.

Vediamo il diario alla data 18 aprile 1948: “Come la memoria lavora, o meno. La scorsa notte, mentre mi coricavo dopo aver spento le luci, improvvisamente, senza ragione apparente ricordavo un fatto occorso durante la guerra. Era al tempo di – quando, non lo so, ma evidentemente un bel pezzo fa – mi veniva mostrato un documento così segreto che il Ministro coinvolto, o il suo segretario (penso fosse questi) sembrava avesse l’ordine di non farlo finire in altre mani. Perciò dovetti andare dal suo lato del tavolo e leggerlo da sopra le sue spalle. Era un breve pamphlet o memorandum stampato su carta di buona qualità e rilegato in seta verdina. Ma il punto è che sebbene ricordassi la scena vividamente – soprattutto il modo segreto in cui teneva il foglio sì che lo leggessi, nonostante ci fosse il rischio che altre persone non autorizzate vi gettassero uno sguardo – non avevo memoria di quel che il documento concerneva.  Ci ho ripensato su questa mattina e sono stato in grado di fare qualche inferenza. L’unico Ministro col quale fui in contatto durante la guerra era Cripps, nel 1942 e 1943, in seguito alla sua missione indiana. Il documento doveva essere legato all’India o alla Birmania perché era in questo frangente (allorché lavoravo alla sezione indiana BBC) che vedevo occasionalmente Cripps. La persona che mi mostrava il documento deve esser stata David Owen, suo segretario. Mi ricordai poi che dopo averlo letto feci qualche commento come ‘Dovrei pensare che vorresti tenere segreta una cosa simile’ e questo rende verosimile che fosse legato all’India. Di pomeriggio menzionai la cosa a Richard Rees e più tardi mi ricordai un’altra cosa, ma sempre in via dubitativa. Penso – ma questo lo ricordo meno bene rispetto all’immagine del documento rilegato – che quel testo fosse un memorandum sul nostro trattamento della Birmania una volta finita la guerra, allora era occupata dai Giapponesi, e diceva cose del genere che quel paese doveva essere riportato al ‘direct rule’ (a dire legge marziale) per diversi anni prima che vi fosse restaurato un governo civile. Questo certo era un racconto molto diverso rispetto a quel che andavamo dicendo nella nostra propaganda. E penso (ma qui ogni ricordo è vago) che sulla base di questa determinazione avrei potuto fare una soffiata a qualche Birmano di mia conoscenza a Londra, allertandolo di non dare credito fino in fondo al governo Britannico.

Se poi questa soffiata non la feci, è perché sarebbe stato come rompere la parola data in fede e forse è per questo che ho preferito dimenticare tutto l’incidente. Ma poi perché mi sono ricordato tutto improvvisamente? Quel che mi impressiona ancora di più che aver ricordato la scena senza recuperare quel che diceva il documento è, per così dire, quasi un nuovo ricordo. Nel momento in cui mi si ripresentò ero consapevole che per anni e anni non mi aveva attraversato la mente. Era spuntato in superficie – pop! dopo aver giaciuto dimenticato per qualcosa come cinque anni”.

A questo punto il curatore inglese rimanda alla nota del 12 agosto 1942 dove Orwell segna una postilla. Un documento sulla Birmania: “Please God no document of this kind gets into enemy hands” Come sembra di capire, per un diarista che si tiene d’occhio anche il proprio passato è nemico. Esattamente come il personaggio di Dickens che spia, prende note e se le indirizza e le distrugge.

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Diaries di Orwell sono editi da Penguin 2009. In Italia sono stati tradotti quasi integralmente da Mondadori, ma coprono solo gli anni di guerra mentre il testo che avete letto è successivo, in coincidenza (18 aprile 1948) con una delle  elezioni del manomesso dopoguerra italiano. Per questo andava tradotta, quella pagina di aprile, perché sempre in quel mese il doppio di Orwell prende a scrivere un altro diario: 1984. Nel libro pubblico di Orwell, tutto comincia il 4 aprile 1984. Nel libro privato, nel diario, sempre in quell’aprile.

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Orwell finì la prima stesura di 1984 a novembre del ’47. Andò a Glasgow a farsi curare, inutilmente. Nell’estate del ’48 tornò sull’isola, batté a macchina e corresse da solo la seconda versione perché nessun dattilografo era in grado di raggiungerlo a Barnhill.  Preparò un puzzle per il figlio che era caduto malato e registrò sul diario che l’opera venne poco elaborata, aveva usato un seghetto sgangherato. A settembre piantò delle peonie e potò il rovo di lamponi. Di lì a due mesi fu ricoverato in ospedale a Londra dove morì il 21 gennaio 1950. Di lui restano le note finali del diario su questo spartito: “Giornata magnifica, senza vento, mare come vetro. Nebbia fitta. Terraferma invisibile”.

Andrea Bianchi

Gruppo MAGOG