13 Giugno 2018

“Mi piacerebbe scrivere di albe e tramonti, ma non sono ebete e nemmeno felice”: Andrea Italiano, il poeta “realista” che scrive pochissimo

La poesia è tra gli hobby dei radical chic. I buonisti, gli intellettuali, si sono radicalizzati in gauche caviar e sparano letteratura a salve. Inutile e noiosa, altisonante, pretenziosa. La poesia non significa più niente. È una scusa qualsiasi per ergersi sul piedistallo e impartire una lezioncina moralmente scontata. Da molto, in questo ambito, qualcosa non torna. Di fronte a una modernità così invadente, i nostri autori ci propongono all’infinito le stesse immagini candide, vergini, che avremmo potuto leggere secoli orsono. Troppo lontane dalla realtà. Troppo eteree per essere efficaci. Un cliché, un mito che va sfatato, perché sfiora la stupidità dei tarocchi. Ma certe idiozie sono dure a morire. Non esiste alcuno sguardo del poeta, alcuna sensibilità eccezionale o percezione ultraterrena. Lo scrittore non è un mito come spesso si pensa. Nel migliore dei casi, ha dato vita a una colossale finzione letteraria di cui non è all’altezza.

Leggendo poesia dovremmo aspettarci quello che ci aspettiamo da tutte le altre opere d’arte. Non già classici, o capolavori, ma una ricostruzione della realtà filtrata – inevitabilmente – dalla sensibilità, per quanto limitata, dell’autore. L’opera deve essere strutturata e comunicativa. Invece, più questo mondo fa schifo, più ci diamo lezioni di morale. Più si perde la bussola più la cerchiamo, ma la poesia non è lo strumento giusto per questo.

Solo l’uomo di Andrea Italiano (Giuliano Ladolfi Editore, 2016), è un testo eccezionale rispetto alla tradizione lirica e intimistica italiana. Già i primi versi segnano una rottura: “Cerco sotto la pioggia l’enigma/ ma non c’è più enigma. Continua qualche riga più sotto: “tutto il resto è chiaro ormai/ […] è finita la corsa alla luce/ la luce c’è sempre e ci basta/ contiamo i soldi nella tasca/ quelli che dobbiamo dare/ quelli che non ci daranno/ quelli che servono per un 50 pollici/ contiamo questo perché questo conta/ facciamo vita di consumo e consumiamo vite così/ alimentiamo la macchina con la vita/ e più la vita stringe più la macchina cresce/ invidio quelli che avevano trentacinque anni nel 1980/ di fronte avevano una foresta strana/ volevano crescere essere felici/ fare le rate fare i figli fare la rivoluzione/ anche sbagliando loro cercavano/ noi di fronte abbiamo fabbriche che chiuderanno/ e dopo chiuderanno la cassaintegrazione/ unico comandamento di domani sarà cercare nuovi/ lavori/ e non perderli/ (come mio nonno, prima e dopo la guerra)/ o forse non li invidio, forse li accuso.”

Si tratta di una presa di posizione netta e delineata: la volontà di smettere di inventare un mistero per poi inseguirlo. Mistificare, oggi, può solo far comodo. Guardare alla brutale realtà dei fatti è operazione più faticosa, morbosa. In effetti, la crisi e la frammentazione dei valori, la grande vacuità che viviamo, sono aspetti che i nostri poeti non registrano. Leggendoli sembra ancora tutto bellissimo, ameno, e l’altro lato della luna dei loro testi è soltanto una predica indegna. Esistono perfino i poemetti per sensibilizzare sull’integrazione. Fa sempre piacere, quindi, leggere versi come quelli di Italiano, nei quali gli argomenti di attualità sono trattati senza retorica: “è rumeno più piccolo di me /ha due figli Alessio e Sonia/ […] ogni tanto gli parlo di matrimonio/ gli dico che mi spaventano le bollette le scadenze/ i conti da saldare e poi i figli/ se vengono malati? se crescono storti?/ lui non mi capisce/ mi dice di guardare alla sua vita/ povero come me cane come me/ eppure tira avanti/ il futuro lo spaventa ma lo aspetta/ mi sembra di vedere i miei nonni/ qualche anno dopo la guerra/ nessun sogno in testa/ tanta forza nelle braccia/ Florin non lo sa/ che i suoi nipoti parleranno come me/ lui è giovane /io sono già morto/ non più decadente.

In Solo l’uomo non ci sono sentimentalismi esagerati. L’autore ci risparmia fortunatamente anche le solite immagini impossibili, incomprensibili al lettore, di cui i poeti stessi non conoscono il significato e che non sanno nemmeno descrivere.

L’opera muove dalla realtà lavorandola fino a renderla essenziale, efficace sul piano letterario. Pur prendendo le mosse dal sociale, il testo non consiste in una sua analisi e nella proposizione di una via palingenetica. Resta unicamente la narrazione cruda e feroce della condizione umana.

Alessandro Paglialunga

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inglese libroDi recente, a un autore che presentavo, un comico nato, ho posto questa domanda “tu come ti permetti di far ridere, in questo mondo letterario in cui tutti vogliono essere presi immensamente sul serio?”. A te invece, Andrea, vorrei chiedere come ti permetti di parlare della realtà, della gente che “nel bel mezzo del cammin” della sua vita non ha concretizzato un cazzo? Perché non verseggi di albe, tramonti, di quanto è bella la natura, di melensi problemi di cuore da bella fighetta?

Ogni tanto mi guardo allo specchio e penso “quanto mi piacerebbe parlare di albe, di tramonti, di natura bella e buona, di amori romantici o di amori neomelodici”. Vorrebbe dire essere un ebete felice. E anche Leopardi scriveva che non c’è nessuno più felice “della donzelletta che vien dalla campagna”. Tuttavia, non ci riesco, perché non sono un ebete e non sono nemmeno felice. A parte questo, credo che se la poesia non parla di cose che riguardano l’uomo, per quel che concerne il suo “essere nel mondo”, sia un’occasione sprecata. Uno spreco imperdonabile, aggiungo. Perché la poesia è una cosa importante. Vedi, l’uomo, oggi come oggi, non è più un essere che vive nella natura, a contatto con albe e tramonti – e chissà se lo è mai stato –, bensì un grumo di dolore e stress che abita come gli orsi nelle caverne, laddove esistono più problematicità che felicità. Credo che la poesia che vuole essere strumento supremo di conoscenza e di consapevolezza, e non atto onanistico fine a sé stesso, debba descrivere questo uomo-orso, questi problemi che soverchiano la felicità. Certo, non voglio dire che di solo pianto deve vivere la lirica, anzi. Ben vengano i momenti lievi, le trasfigurazioni, i componimenti che parlano di attimi felici, ma a patto che questi siano delle vere proprie “rivelazioni”, barlumi di luce che squarciano il buio e danno senso. Meglio evitare certe manierate bugie, dette solo per compiacere il lettore e fargli capire che sì, in fondo viviamo nel migliore dei mondi possibili. Perché questo non è vero. Viviamo in una realtà molto ingiusta e molto feroce in cui la gran parte delle persone, nonostante i sacrifici e le lotte, si trova sempre con un pugno di mosche nelle mani o, come hai ben sintetizzato tu, “nel mezzo del cammin” (e pure oltre) e non ha ancora concretizzato un cazzo.

Posso avere l’onore di conoscere gli autori che hanno influenzato la formazione del solo poeta che, insieme a Simone Cattaneo, io sia riuscito a leggere dall’inizio alla fine, senza pause, anzi senza quasi respirare nel mentre?

La mia formazione in fatto di poesia è abbastanza tortuosa. Nasce da un capo e approda – negli attuali esiti – all’altro. La prima raccolta di liriche che lessi è di un poeta locale, Felice Conti, che tra gli anni ’50 e gli anni ’90 scrisse bei versi sulla scia di Quasimodo e di tutta la poesia lirica italiana a cavallo del Novecento. Da lì, passare al poeta di Vento a Tindari (e delle traduzioni dei Lirici Greci, soprattutto) fu un attimo. E, in effetti, le mie prime poesie sono tutte incentrate sui temi e sulla prosopopea degli ermetici e dei quasimodiani. Poi mi invaghii di Neruda e, non so per quale strana associazione di idee, dei poeti neogreci come Kavafis, Ritsos, Serefis, Elitis. E devo dire che in questa fase scrissi un sacco di componimenti lunghissimi, pipponi immani pieni di punteggiatura, di termini desueti, di immagini colorate e vivide – ma non ho mai usato la rima, grazie a Dio – che mi fecero vincere perfino qualche premio. Attorno ai venticinque anni, però, avvenne la svolta. Ebbi la fortuna di conoscere, grazie alle “amorevoli” pressioni di un professore mio amico, Gino Trapani, la poesia del mio grande concittadino Bartolo Cattafi che mi aprì a due strade: da un lato la poesia dell’essenziale, dall’altro la poesia del tragico. Abbandonai i lirici e mi innamorai dei poeti americani che scrivono senza punti e senza virgole e con tante parolacce; di Leopardi – che al Liceo avevo odiato – e di Montale; dei poeti cosiddetti della linea lombarda; di Sereni e Caproni e, per venire ai più vicini, di De Angelis, Pusterla, Pier Luigi Bacchini e qualche altro. In questa seconda fase non vinsi più nulla, anzi, non partecipai più a nessun concorso. Di Simone Cattaneo ho letto Nome e soprannome. Folgorante! Me lo ha fatto conoscere il mio amico Giuliano Ladolfi, poeta ed editore al quale devo il mio debutto editoriale nel 2011 con Guerra alla Tonnara.

C’è qualcuno dei tuoi “colleghi”, dico tra i poeti viventi – e qui, chi ancora lo è, dovrebbe toccarsi le palle – e, soprattutto, italiani che ti piaccia? Parliamo magari di gente al di sotto dei cinquanta, evitando i vari De Angelis che sono ormai assurti al ruolo di classici in vita. Penso ai tanti pubblicati da Ladolfi, a quelli che partecipano a ‘Parco Poesia’ e via dicendo. Non trovi che manchi qualcosa alla maggior parte di loro? Certo tu, con la tua poesia, chiamiamola per comodità “sociale”, costituisci un unicum, un caso isolato.

La domanda che mi poni è intrigante e difficile al tempo stesso. Non ho letto tutti i libri degli under cinquanta e, per questo, non posso – e non voglio – certo fare una classifica dei migliori. Poi, ho paura di dimenticare qualcuno e questo mi dispiacerebbe, anche perché sono già abbastanza isolato di mio e queste gaffe non me le posso proprio permettere. Ti dirò che nel corso degli anni ho letto buoni poeti, giovani ora cresciuti, e di qualcuno di questi sono pure diventato amico. Ricordo al volo qualche nome: lo svizzero Pierre Lepori, il fiorentino Paolo Maccari, i poeti della scuderia di Ladolfi, Marchesini, Davide Castiglione e, più recentemente, i miei conterranei con i quali stiamo cercando di fare squadra (D’Andrea, Conticello, Lanza, Galvagno, Carotenuto e la calabrese Daniela Pericone). Ricordo anche i nomi di Febbraro, Rondoni e il poeta albanese edito da Manni, Gezim Hajdari, che qualche anno fa mi aveva molto impressionato. Per venire alla seconda parte della domanda, io non so cosa manchi a loro, ma so cosa vorrei non mancasse alla mia poesia. Spero non venga mai meno la leggibilità, la comprensione a tutti i livelli delle mie parole, il che fa della lirica, almeno della mia, qualcosa di utile. E, se una cosa non è utile, si deve buttare, questo è indubbio. Credo che leggibilità e comprensione immediata, da non confondere con quelle di una canzone di De Andrè o Bob Dylan, siano le doti maggiori della poesia degli inizi di Milo De Angelis – o di Mario Santagostini – che però non è più la stessa attualmente.

C’è una domanda che amo fare a tutti quelli che ritengo dei veri artisti, quello che secondo me è il quesito capitale in relazione alla loro attività: tu fai ciò che fai, nella tua fattispecie la poesia, perché è un modo per esprimere la gioia di essere al mondo, oppure perché la vita non ti basta e la lirica è il solo modo per affrontare il male di vivere? Ovviamente, nel tuo caso, almeno stando a quanto ho letto, dubito che tu voglia esprimere con i versi una qualche gioia. Ma sentiamo cosa hai da dire in merito.

Forse ho un po’ esagerato, Matteo. Ricapitoliamo. Non è che mi senta perennemente triste e nemmeno vorrei scimmiottare la figura del poeta esistenzialista perennemente incazzato. Anche perché faccio così tante cose che difficilmente posso sostare per più di un’ora a pensare al “male di vivere”. Se scrivo poesia triste o pseudo-tragica – e ne scrivo davvero poca, invero, non penso di andare oltre le cinque poesie all’anno –, lo faccio perché sono un realista per condizione di nascita. Perciò, quando mi guardo attorno, non riesco a non vedere ciò che mi circonda. Ci provo a guardare oltre/altro ma, alla fine, vedo le cose per come sono. E siccome, per sfortuna mia, ciò che mi sta intorno (pensiamo all’attuale condizione italiana), non è certo il massimo, nelle mie poesie, ma in generale nei miei scritti e nella mia prassi, ne parlo in maniera – a volte troppo lo so – consequenziale.

Tu sei uno di quei poeti che non scrive massicce quantità di poesie. Hai dato alle stampe, fino a oggi, due volumi e decisamente brevi. Secondo te si scrive troppo di questi tempi?

Rispetto al passato le pubblicazioni, e non solo di poesie, sono aumentate a livelli esponenziali. Questo è un giusto frutto della democrazia, della scolarizzazione pressoché totale e di quella possibilità di coltivare dei sogni che prima era riservata solo a pochissimi. E ben vengano allora tutti i titoli che giornalmente arrivano in libreria. Poi sarà lavoro del lettore selezionare quello che interessa, o vale. Per quanto mi riguarda, non scrivo molto per mio modus operandi. La scrittura è solo l’approdo finale di una specie di laboratorio mentale, laddove i pensieri vengono a lungo elaborati e, se degni di essere espressi, solo dopo molto tempo possono trovare collocazione su carta. Non scrivo molte liriche anche perché, ripeto, della poesia ho un religioso rispetto e credo che solo cose importanti, decisive, che possono davvero far iniziare un discorso tra me e il lettore, debbano diventare poesia. Ecco perché le mie raccolte non superano mai i quindici componimenti, diluiti di solito in quattro, cinque anni di “officina”. Forse per gli altri non vale il mio ragionamento, forse per gli altri tutto quello che passa per la mente può diventare poesia… Ma siamo in democrazia!

Se dovessi descrivere in breve la tua poetica, la cifra distintiva della tua poesia, cosa diresti?

Non posso auto-definirmi, sarebbe un atto onanistico. Spero che di me si dica che sono stato un poeta che mirava all’essenziale, all’osso e all’anima per dirla con il mio amatissimo Bartolo. Ecco, lui come autore e come un uomo non ha mai barato e ha amato la verità – per quanto questa parola capitale debba essere intesa in un’ottica personalistica ed emozionale, etica, più che nei termini umanamente insostenibili di “verità assoluta”.

Matteo Fais

 

Gruppo MAGOG