17 Febbraio 2019

“Sogno le tue lettere, questi esercizi della latitanza, e pretendo da Dio che il futuro sia un cortile”

Noi non siamo Veronica Tomassini e Davide Brullo. Siamo Vera e Nathan. Due profughi all’esistenza, in esilio dal frastuono cronologico, in un 1950 d’invenzione, tra Israele ed Europa, conosciuti – e accerchiati – in una notte, perduti. Lei, Vera, annuncia la mancanza, scrive a Nathan da Tel Aviv. Parla di nomi e di sogni. Lui le risponde da Praga, poi in un esilio autoimposto, fino alla malattia, che lo obbliga a Tabriz, in Persia. Traffica in antiche mappe celesti e ha fede nel potere sciamanico della tigre di vetro. Cosa significa riconoscersi e amare senza riconoscenza, nell’incondizionato? Cosa vuol dire oltraggiare le memorie, scandire quell’unico viso – appena desunto dal caso – come un amuleto, contro tutto? “La mia idea ossessiva dell’amore, di un’assenza, o un assedio. La mia ossessione sull’impossibilità, e dunque la lettera. L’epistolario. Ecco, un epistolario sentimentale. Il coraggio di parlare d’amore, passione, desiderio”, così Veronica Tomassini giustifica questa sfida. “Una forma verbale che sconfigga tutte le altre – senza limiti. Senza gestire l’ignoto”, le ho risposto. In due momenti settimanali, Veronica Tomassini scriverà sul suo blog (qui) le lettere di Vera, io risponderò come Nathan da Pangea. Un esperimento letterario. Un feuilleton che proviene dal futuro. Senza destinazione. Di certo, non sappiamo cosa accadrà, cosa faremo, cosa scriveremo, che metri di carne saremo disposti a sacrificare – perché la letteratura è così, si misura in rinuncia e disciplina. Leggeteci. La puntata che precede questa la leggete qui. (d.b.)

***

Tabriz, 5 giugno 1950

Puoi riconoscere gli uomini dai denti – delle tue lettere non ho che presagi – una visione che si avvinghia a questo cubo di tende – tutto è una lettera che chiarifica e condanna – la mia è la N, la replica obliqua e doppia della tua, V e in quel labirinto privo di buio mi perdo, come un uomo dalle cui dita crescono betulle, per il dolore di donare a chi ama un bosco.

Sogno le tue lettere, questi esercizi della latitanza, e pretendo da Dio che il futuro sia un cortile.

I denti – dicevo. Dai denti puoi numerare il destino di un uomo, capirne il carato del carattere – come se i denti fossero uno zodiaco. Diversi anni fa a Parigi mi reclamò un collezionista gallonato di svastiche – dicevano fosse il consigliere diretto di Joseph Goebbels. Come sai, per me la Storia è un bicchiere d’acqua – gli atti umani, anche i più efferati, soprattutto gli imperdonabili, sono uno sfarfallio di mosche al cospetto del Giudizio – come posso sapere se un corpo non è che il calco di un ordine partorito in questo istante da Dio per ragioni che mi sragionano? Sai che posseggo la meschinità dei santi e la raffinatezza dei perduti – accettai l’invito dell’alto gerarca, sensibilmente alto, di icastica magrezza, cauto nel mangiare – ricordo i lampadari come cupole di medusa, il laido servilismo dei camerieri francesi, il ristorante illuminato come se dessero un pasto nel nucleo abbacinante del sole. Forse si chiamava Friedrich, ruotava le dita come se potesse portare i continenti alla deriva, citai Hölderlin e Stefan George, così, per rimpolpare le parole con parole dette da altri, già masticate, ma lui fece un cenno, tombale, e sperò che anch’io fossi convinto che l’uomo non è libero, che quando, deliberatamente, compie un atto inesorabile, inesorabilmente ne cascano altri, in sequenza quadruplicata, “come una grandinata di rasoi”, disse così – non sembrava rassegnato né eccitato, malinconico, forse, come se nel gorgo di quei gesti che riguardano la vita e la morte avesse perduto qualcuno, se stesso nella sintetica forma di un ghepardo, forse.

Ho venduto al gerarca nazista la mappa celeste disegnata su un manoscritto della Færeyinga Saga – gli islandesi pensavano alle stelle come a scudi, capanne di eroi dimenticati, suoni, richiami d’aiuto: ogni dieci anni, dal retro del cosmo, Fenrir, il lupo, si scatena e divora le stelle, il cielo è buio, fissarlo percuote gli uomini alla follia. “Soltanto lo scaltro che riuscirà a staccare i denti di Fenrir, lunghi come corni, riuscirà a ricreare il cielo, forgiando le costellazioni come si raffina una spada, a seconda del suo desiderio di gioia o di vendetta”, disse l’uomo, citando la saga, toccandosi i denti, straordinariamente lunghi e sottili. Pensai che quell’uomo era fatto per divorare i propri simili – guardava le creature saggiandone il costato, perché il corpo è l’involucro perfetto dell’anima – mi congedò, pagando caro. “La vera domanda è capire se noi siamo il lupo, venuto a pulire il mondo dal suo scintillio, o l’eroe che lavora per rubare le zanne della bestia”, disse. Mi sorrise – denti grammaticali, esagerati, l’emblema della giustizia umana – erano i denti a odorare il tempo – erano i denti a sollecitare la scelta, a esaminare il passo ambio della redenzione. Vogliono avere dominio sulla vastità stellare, pensai – con quel noi l’uomo si riferiva ai nazi, uniti, congiunti, come un buco nero che reclami ogni precipizio. Delle sue crudeltà seppi più tardi – forse, Vera, vedi, sono corresponsabile dell’orrore che ti è accaduto.

Più tardi

Chi pensa che la lontananza sia un concime sbaglia, Vera – la nostra fraternità alfabetica ha come scopo l’estasi della vita – questa tenda mi sembra un igloo – i ricordi vagano come trapezi di ghiaccio e mi feriscono ovunque. A volte sento la malattia nel sangue acquattata come una tigre tra le spighe – un tempo fui devoto alla tigre di vetro, all’assalto rappreso nella perfezione formale – un tempo per te ho fatto soffiare falangi di tigri di vetro – perché ci proteggessero, soprattutto, dal passato – si può amare l’incontro e l’incorporeo nello stesso istante.

Ancora non so alzarmi – qualcuno urla preghiere da una torre, quelle parole formano una guaina intorno alle case e tutto è intoccabile. Nella strada due ragazzi si picchiano – con una ferocia folle – si spaccano naso labbra mento – per un attimo ridotti a una fanghiglia di sangue sembra che si vogliano scambiare le facce – non si menano: ma con le mani uno sta fabbricando il proprio viso nel viso dell’altro. Non più una storia di rancore e di omicidio ma una operazione mistica. Quando gli infermieri, dopo un sadico tentennamento, intervengono, è tardi per entrambi, credo – potrei chiedere di sostituirmi – di uccidermi per la loro seconda vita – se fossi morto sarei da te in un istante, sulle tue spalle, sulle palpebre e sulle labbra, continuamente.

Di notte, forse

Ore capitolano dalle palpebre – il mio corpo, malato, è nel miele, assente dalla cronologia – potrei regalarti l’eternità, Vera. “Sfasciata – morsa dalla voragine – senza un consolatore – su zaffiri erigo la tua eredità”, mi hai detto, allora – allora io ti rispondo, “L’abbandono è durato un istante – nell’eternità dell’amare ti raccolgo”. A volte la luce mi pare un secolo – ho una città sul cranio – con un chiodo intuisco costellazioni inedite, per te, lungo le gambe del letto – abbindolato dalla cecità verifico nuove quote all’abbandono – avremo il tempo di una cosmografia?

Ancora, per te

Il siberiano ha un nome ebreo, Enoch, e sulle sue braccia sono tatuate due tigri del Nord: il muso si snoda sulla mano, dal polso. Di notte Enoch muove le braccia – ha gli occhi chiusi – “combatto”, mi dice più tardi. Mi mostra le palpebre su cui sono tatuati due piccoli soli – racconta della sua patria, Novaja Zemlja, me la descrive, si snoda sul Mare di Barents “come il balzo di una bestia”, dice – dice che lì “la luce è generata dalla terra, il ghiaccio è una patria e nessuno ha paternità sulla morte, siamo pietrificati nel santo”. Dice che ogni giorno il suo spirito vola da Tabriz a Novaja Zemlja e là combatte, per esaltare quel tratto di terra dalla cattività sovietica – “noi non abitiamo, siamo lampeggianti”, mi dice, come se i fucili fossero versetti biblici.

Dovrei donarti qualcosa Vera – devo donarti una città, una terra – una collana di costellazioni. Devo dare a qualcosa il tuo nome perché tu esista, mia, sulle labbra di tutti, nei censimenti e nelle cronache, nelle case e nei fiumi, nel contrabbando e nella corsa verticale del bosco, nella matematica censurata dagli iceberg. Da bambino mi piacevano le illustrazioni dei re che combattevano sui giaguari, a petto nudo, con un mantello su cui era dipinta l’Orsa Maggiore. Avrei voglia di prendere la pace per il collo, di sradicare una terra e aggiogarla alle nuvole per dartela come pegno nuziale.

Ti chiamerò Antartide.

Ora

Scrivere un trattato sul candore – questo è il dovere. Candidarsi al candore. L’innocenza è una turba dei monaci, di chi vuole dissennare il turpe – il perdono appartiene ai re sanguinari, è il pregiudizio dei fanatici, dei devoti al vizio che adorano obbedire alla grazia. Il candore non ha altra certezza che il turbine del bianco – non chiede non teme non travalica. Tu sei il candore, Vera.

Nathan

Gruppo MAGOG