01 Dicembre 2022

Nei meandri di “Gormenghast”, il libro di culto di Mervyn Peake

I libri di culto sono necessariamente per pochi – quando il culto diventa messa di massa, entriamo di diritto nell’ambito della moda, ancillare al disdegno. Il culto è per rari paria, affini, affratellati dalle catacombe; il culto è strettamente esoterico, sta nelle strettoie di una ardimentosa gelosia: chi svela i riti del culto, chi ostenta il libro sacro, è un traditore. Il culto pretende spazi insicuri, luoghi lividi, esercizi nottambuli, la lettura sulla soglia, lì dove l’uovo del giorno si spacca nell’albume serale.

La trilogia di “Gormenghast” – in particolare il primo tomo: Tito di Gormenghast – è uno dei rari, autentici libri di culto. Libro audace, alieno ai generi e alle deformità della critica letteraria – potrei dirlo un Alice in Wonderland riscritto dallo Cthulhu di H.P. Lovecraft ma vi direbbe qualcosa? – noto a pochi, i quali, senza alcuna ragionevolezza, lo pongono in cima ai loro sogni letterari, ben prima dell’Ulisse di Joyce (un microbo, al confronto), e del Signore degli Anelli, banale vicenda di cappa&spada in linguaggio folklorico. Secondo le regole del libro di culto, “Gormenghast” – che Adelphi ha or ora raccolto in unico tomo: la copertina, chissà perché, secondo la sagacia della serie, porta un truce disegno di Victor Hugo – è un mondo chiuso, sigillato, risolto. I suoi personaggi si muovono entro lignaggi biblici, che vanno sviscerati con perizia liturgica – Gertrude, Alfred Prunesquallor, Sepulchrave, Mr Flay, Fuchsia Groan, di fronte alla cui malinconica apparizione svaniamo, che poi sono, all’italiana, Sepulcrio, Fucsia, la contessa Gertrude, Ferraguzzo etc. Il libro, d’altronde, non permette schemini utili ai teologi della trama: va aperto a caso, come una bibbia, e saggiato nei cespi linguistici:

“Solo nella Foresta dei Rovi, ramo egli stesso, vagabondo tra gli alberi radicati nel suolo, si spostava veloce e il rumore delle sue ginocchia, col passare del tempo, divenne familiare agli uccelli e alle lepri. Si muoveva come inseguito, in un alone di sole se la foresta era più rada, nero come le ombre là dove non giungeva luce… La Natura, gli parve, era vasta quanto Gormenghast”.

Il mondo del libro coincide con quello del castello, Gormenghast, infinito, diroccato, chiuso: ricorda il castello dell’imperatore di Kafka, il castello errante di Howl, la creatura di Hayao Miyazaki, le carceri di Piranesi. Nei rituali che Tito, l’erede, deve adempiere, in uggiosa libertà, tra stuoli di lunari uggiolii, si stiracchia la nostra medesima vita. Evviva: un libro che va letto di per sé, bello in sé, senza stazza morale o necessità etica!

Avventura sconcertante, da percorrere con candela in mano, “Gormenghast” – il primo libro, Titus Groan, esce nel 1946, l’ultimo, Titus Alone, nel 1959 – non è l’opera di uno scrittore ‘di professione’ – altrimenti, non sfuggirebbe alle norme canonizzanti, non sarebbe verbo extracanonico, degno di culto – ma di un artista, Mervyn Peake, con il vezzo per la poesia e il nonsense (in calce vi ho messo qualche verso: i Collected Poems sono così raccolti da Carcanet, 2008). Uscito dalla Royal Academy School di Londra, Peake ha illustrato, con spericolato genio, i libri che piacevano a lui: l’Alice di Lewis Carroll, The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge, L’isola del tesoro di Stevenson. Naturalmente, ha disegnato anche il suo libro, dando al culto entità pittorica (un repertorio lo vedete nel tomo Adelphi). Durante la Seconda guerra, arruolato nella Royal Artillery, gli permisero, durante la convalescenza, di ritrarre i soffiatori di vetro: sembrano semidivinità che traggono calchi d’uomo da un impasto fangoso di luce.   

Essere nato in Cina, a Jiujiang, ha permesso a Peake, probabilmente, una libertà preadamitica, da vagabondo delle stelle. Il padre, Ernest Cromwell Peake, detto ‘Doc’, medico per la London Missionary Society, si era sporto in zone della Cina pressoché disabitate. Il figlio ne racconta le gesta con pragmatico affetto:

“Dopo un viaggio in nave di sei settimane dall’Inghilterra, riuscì a risalire lo Yangtze da Shangai a Yueyang. Lavorò lì per un paio di anni, insieme ad altri missionari, per imparare il cinese. Quindi si inoltrò nella provincia dello Hunan, un’area all’epoca ancora chiusa al mondo esterno. Quando avviò la sua missione, a sei settimane di viaggio sul fiume dall’ultimo avamposto inglese, era il 1902, e mio padre era l’unico europeo a Hengyang. Questi viaggi fluviali fecero una profonda impressione su Doc… Un uomo che pescava con un cormorano reagì con stupore alla vista dell’europeo: poi chiese a mio padre, Ha mangiato il suo riso?, con un sorriso sfolgorante. A Hengchow l’accoglienza fu diversa. Una folla si radunò intorno alla barca di mio padre, appena attraccata. Alla silenziosa stupefazione fece seguito un urlo: “Uccidiamo il diavolo straniero”, e un lancio di zolle di terra…”.

Peake visse in Cina per i primi dieci anni di vita. Era nato nel 1911. Gli ultimi dieci li passò nella fornace di una malattia letale, sfiancato dal Parkinson e da una lenta, inesorabile demenza.

Anthony Burgess, in uno scritto riprodotto nell’edizione Adelphi, parla di “Gormenghast” come di un libro inesorabile:

“In tutta la nostra letteratura in prosa non si può trovargli l’eguale: è splendidamente unico ed è giusto che lo si definisca un classico moderno”.

Lo preferiva ai capolavori del dopoguerra – dai Quattro quartetti di Eliot a 1984 di Orwell e Ritorno a Brideshead di Evelyn Waugh – perché, scrive,

“è un libro che resiste tuttora a ogni sforzo di enuclearne una lezione o un avvertimento… A differenza degli osannati colleghi del dopoguerra, egli non usa le sue storie per investigare temi alla moda – razzismo, conflitti di classe, omosessualità – o per allargare le frontiere di ciò che si ama chiamare coscienza contemporanea; la sua tecnica narrativa, poi, sembra guardare indietro piuttosto che avanti. I suoi romanzi sono alimento per fantasie private, non tappe di un’evoluzione artistica”.

Burgess adorava tale anacronismo, il talento anarcoide, la vittoria sui principi e i princìpi di questo mondo. Aspetti, questi, che fanno di un libro comune un libro ‘di culto’, appunto. A suo avviso, Peake “ha un solo pari nella sua padronanza del mezzo letterario e di quello pittorico: Wyndham Lewis”. Non è un caso che, editorialmente, in Italia, Lewis sia un paria. Al culto, preferiamo i cultuali qualunquisti, i catechisti del buon gusto letterario, i leccaculo, ecco.

Perché sia di culto, il libro deve restare inafferrabile, infinito, forse illeggibile, un tombino; gli altri, sono semplici tombe.

***

Le cose più vaste sono quelle che non possiamo imparare

Le cose più vaste sono quelle che non possiamo imparare.
Non ci viene insegnato a morire, tanto meno a nascere.
Né ad ardere
d’amore.
Pietoso è il ritorno forzato
alle piccole cose in cui siamo maestri.

Alice secondo Mervyn Peake

*

Coccodrilli

Lo fissò con tutta la forza di cui
era in possesso, ma nessun rossore
sferzò il suo viso come l’alba sul mare
o rose in un cespuglio –

I coccodrilli sono lenti
ad accettare consigli: la loro pelle
è così dura che non si avverte mai
morbida come quella di una sposa.

*

Zia Flo

Quando zia Flo
divenne un corvo
aveva un letto sull’albero;
stava lì: leggeva
tutto il giorno
trattati di ornitologia.

*

Fuggiasco dal caos dei miei dubbi
dal caos della mia arte
torno inevitabilmente a te
come un ago al polo
ruoto… come il gelido cervello dell’anima
ruota intorno alla sua incertezza.

Così giro, giro e ti desidero;
ti desidero e giro,
ruoto verso l’amore che tramite
il mio caos arde
una verità, sfavilla il mio cammino.

Coleridge secondo Mervyn Peake

*

Van Gogh

È morto l’Icaro olandese che ha depredato la Francia
lasciando i suoi campi più ricchi ai nostri occhi.
Dove si contorce il cipresso sotto cieli in fiamme,
dove superbi campi di grano si spezzano al passaggio,
ora arde una bellezza più feroce della danza
sangue primordiale che batte tra la gola e le cosce.
Pirata della luce solare! Premio imbandito
di terra colorata e frutta nella mania estiva
dov’è la tua febbre adesso?, e il tuo desiderio?
Sconfitto dalla beffa di un girasole
dormi nel suicidio, del tutto dimenticato.
Eppure, la tua voce ha più che parole per me
e piangerò quando sarò defunto e derelitto
tra tele inestinguibili, spirali tortili di fuoco.

*

Vivere è sufficiente

Vivere è già un miracolo.
Il destino delle nazioni è altro.
Qui, nel mio martellante battito è la prova.

Che ogni pittore dipinga, che il poeta incanti
e tutti i figli della musica esercitino il loro ruolo;
le macchine sono più deboli dell’ala di uno scarabeo.

Penzola lungo la luce solare, nell’ombra cosmica,
il cuore dell’immaginazione: qualunque cosa accada,
è sacca di stelle troppo alta, non puoi pesarla.

Avidità e terrore non ledono la nostra fede
ogni martellante battito del cuore è la prova
che la vita è di per sé un miracolo.

Mervyn Peake

Gruppo MAGOG