
“Gli scrittori non sono professori di morale: esprimono la condizione umana”. Un saggio di Simone Weil
Filosofia
Alessandro Burrone
Emanuele Altissimo, classe ’87, si è laureato all’Università di Torino con una tesi su David Foster Wallace. Poi dice di aver letto a memoria Dostoevskij, e al termine del suo romanzo d’esordio Luce rubata al giorno (Bompiani, 2019), ha scritto una pagina di ringraziamenti intensa da Memorie dal sottosuolo. Leggerla mi ha fatto tornare indietro di qualche mese ma questa è un’altra storia, ambientata lontano. Saltando un passaggio logico posso dire che è parte della ragione per cui vedendolo tra le novità della Feltrinelli non ho esitato a portarlo in cassa. Ma torniamo al romanzo: Luce rubata al giorno è scritto con cura cristallina e un’intensa partecipazione emotiva. Mi ha ricordato il lato più introspettivo di Ammaniti e a tal proposito glielo auguro, a Emanuele, un futuro Ti prendo e ti porto via, oppure un Come Dio comanda. Dato il suo esordio sarebbe possibile. La trama di Luce rubata al giorno non avanza, saltella, rivelandosi capitolo dopo capitolo una costruzione solida e centrata, simile a un grattacielo capace di resistere all’urto di un aeroplano – e soltanto chi ha letto il romanzo può comprendere a pieno il perché di questo esempio. Mentre chi non lo ha ancora fatto avrebbe buone ragioni per scoprirlo. O di cominciare partendo da questo dialogo con l’autore.
Ho come l’impressione che Luce rubata al giorno inizialmente avrebbe dovuto chiamarsi La presa del cielo, come il romanzo nel romanzo. È un’intuizione sbagliata? Che legame senti fra il titolo attuale e la storia?
Non lo è. Il titolo di lavorazione era appunto Giganti, una variante de La presa del cielo. Sono titoli che contengono un’accezione titanica, l’idea della scalata, la sfida agli dei. Che in sostanza definivano un rapporto di forza. Ma io cercavo il perdono, la speranza che alla fine di un grosso conflitto familiare ci fosse qualcosa da salvare e proteggere. Una luce rubata al giorno, insomma.
Quali sono gli autori italiani contemporanei a cui ti senti più vicino come ideali narrativi? E quelli stranieri?
Non sono un grande lettore di narrativa italiana, i miei modelli (i Santi, come li chiamo io) parlano tutti inglese. Flannery O’Connor, Amy Hempel, Richard Brautigan, Bret Easton Ellis, David Foster Wallace, Thomas Pynchon e Richard Ford sono i primi nomi che mi vengono in mente appena penso alle folgorazioni letterarie. Dostoevskij e Ammaniti li hai già citati, aggiungo lo Stern de Il sergente nella neve, romanzo che se la gioca ad armi pari con Addio alle armi e, per stare sui contemporanei, Il grande animale di Gabriele Di Fronzo: è un romanzo che tratta il linguaggio con una sapienza e una delicatezza senza pari. Ed è un pugno in faccia al lettore, quello che cerco nella buona narrativa.
Luce rubata al giorno lascia intendere alcuni elementi autobiografici. Cosa si prova a scrivere un romanzo in prima persona, quando il narratore è un tredicenne?
In realtà la storia è narrata da un Olmo più grande, che torna ragazzino per raccontare l’estate che gli ha cambiato la vita – questo, il filtro che mi sono concesso. Non è stato facile, ho scritto e riscritto, ho scavato a lungo dentro un’esperienza dolorosa per portarla alla luce, per trasfigurarla. E quindi per liberarmene.
È stato detto che la tua è una storia di formazione incentrata sul come sopravvivere al dolore: ti senti d’accordo con questa definizione? O c’è qualcosa che vorresti aggiungere?
Come sopravvivere, come coabitarci, come impedire che ci trasformi in qualcosa che non siamo. Il dolore è come un fantasma: è sempre con te, ma si mostra quando meno te lo aspetti. Il punto è accettare queste epifanie, non lasciarsi sorprendere. C’è una frase di David Foster Wallace che mi ripeto sempre: La verità ti renderà libero, ma solo dopo che avrà finito con te. Ho scritto questo romanzo perché ero stanco di mentire a me stesso.
Quali sono state le difficoltà che hai riscontrato nella stesura di Luce rubata al giorno? Stai già pensando al prossimo romanzo?
La prima è che ho dovuto riscriverlo per intero – la versione iniziale contava quasi quattrocento pagine. Mi ero nascosto, avevo cercato di proteggermi come potevo. La riscrittura mi ha insegnato a essere onesto con me stesso, a guardare dove fa più male, senza più scuse. A quel punto il romanzo ha trovato una direzione precisa, ho sentito il click di cui parlava Wallace e spero di portare nella prossima storia queste lezioni, questa esperienza che alla fine somiglia a una cicatrice: sta lì a ricordare dove ho sbagliato, cosa posso fare per evitare di ferirmi ancora – ma sono anche testone, vado pazzo per le ricadute.
Nicolò Locatelli