11 Aprile 2023

“Siamo tre sorelle”. Il film su Emily? Un pot-pourri di falsi miti brontëani smantellati da tempo

Dopo la serie BBC The Brontës at Haworth del 1972, e il più recente To Walk Invisible di Sally Wainwright, sempre a marchio BBC (2016), da qualche mese è uscito nelle sale britanniche Emily, scritto e diretto da Frances O’Connor. Emily è Emma Mackey, Charlotte Alexandra Dowling, Anne Amelia Gething, e Branwell Fionn Whitehead (nel 2017 già eroe di Dunkirk di Christopher Nolan).

Trovandomi a Folkestone a inizio febbraio non ho saputo resistere, ovviamente.

Su terreno sacro bisogna procedere con umiltà, a piedi scalzi: penetrare l’atmosfera di Wuthering Heights, come quella della canonica di Haworth, è respirare un clima rarefatto dove – per usare le parole di Emily – “aleggia l’Invisibile”.

Quel che sappiamo di Emily Brontë in termini di fatti, accadimenti e incontri non è molto, in una vita tutta disciolta nella letteratura, svincolata per carattere e per scelta dal mondo e da tutto ciò che esiste fuori della canonica. Sappiamo però che i piccoli Brontë formano presto un sodalizio d’affetto nell’invenzione e nella scrittura: il risultato è una meravigliata messe di libriccini con storie a volte illustrate da disegni, minuscoli volumi cuciti a mano da leggere con una lente d’ingrandimento, in un gioco di segretezza dei bambini.

È la web of sunny air, la “trama d’aria dorata” di Charlotte: mondi incantati che si sovrappongono al dolore della perdita – per la madre Maria e le due sorelle maggiori –, l’isolamento di villaggio, la routine del quotidiano. Condivisa comunque con un padre illuminato, Patrick, che fa da insegnante in casa ai figli, una zia severa che tutta la vita si prende cura dei nipoti, l’adorata domestica Tabby, che inizia i piccoli all’incanto del fiabesco e del folklore. Ma i bambini e poi ragazzi decidono d’inventare un’altra alternativa magica, segreta, taciuta agli adulti in casa: il regno ardente di Angria sotto il sole d’Africa per Charlotte e Branwell, il regno di Gondal nelle tempestose contrade del nord – paesaggio gemello delle brughiere – per Emily e Anne. E mentre con la fine della loro complicità Charlotte e Branwell chiudono anche la saga – nell’Addio ad Angria (1839) lei dichiara di lasciare “il clima ardente in cui abbiamo vissuto troppo a lungo” –, Emily e Anne terranno in vita Gondal fino all’età adulta.

La scoperta “fortuita” di Charlotte dei versi di Emily nello scrittoio della sorella, lasciato momentaneamente aperto in salotto, innesca la miccia della pubblicazione dei Poems. Ma quel che Charlotte legge, suscitando la rabbia di Emily, è un poemetto gondaliano, celeberrimo, che narra l’estasi della prigioniera Rochelle nelle segrete di Gondal e la sua liberazione da parte dell’io narrante:

“Un messaggero di Speranza viene da me ogni notte
E mi offre, per una breve vita, eterna libertà –

Viene con i venti dell’ovest, con le brezze erranti della sera,
Con quel chiaro crepuscolo del cielo che porta le stelle più fitte;
I venti prendono un tono pensoso e le stelle un più tenero fuoco
E visioni si levano e mutano che mi uccidono di desiderio –”

Ossia i viaggi fantastici dell’“anima senza catene” di Emily sotto le spoglie di Rochelle: le “visioni che uccidono di desiderio”. Un episodio di quel che lei condivide solo con Anne, per poi formare un unico mosaico in Gondal. Lo sappiamo dai Diary papers, i “fogli di diario” che le sorelle scrivono nello stesso giorno anche se separate (Anne a lavorare altrove come governante, Emily a Haworth), per leggerli quattro anni dopo.

Al Diary paper 1837 Emily aggiunge uno schizzo a inchiostro: è seduta con Anne al tavolo del soggiorno, lei di spalle, Anne di fronte, le penne in mano, le pagine di entrambe al centro. Con pochi segni, lo schizzo fissa sulla carta un momento vitale: le ragazze che scrivono insieme, allo stesso tavolo. Così nascono i Poems, impresa collettiva apparsa sotto gli pseudonimi di Currer, Ellis e Acton Bell. Così saranno scritti i romanzi, esito delle loro letture e saghe infantili e atto di complicità totale tra sorelle: ciascuna legge le proprie pagine alle altre, ne ascolta il parere (Charlotte chiede anzi a Emily di modificare i personaggi “terribili” di Wuthering Heights), e la scrittura prosegue la sera dopo. Dopo che il padre, la zia e Tabby sono andati a dormire – Branwell è spesso fuori casa – a ribadire il carattere di segretezza condivisa degli scritti.

Ne parla la prima biografa di Charlotte, Elizabeth Gaskell, nella sua Vita di Charlotte Brontë (1857) che, sebbene piena di distorsioni, ha pure il merito di accendere il mito dei Brontë nel mondo: le sorelle hanno l’abitudine di scrivere la sera e camminare insieme intorno al tavolo del soggiorno mentre parlano dei loro lavori – abitudine appresa da Charlotte alla scuola di Roe Head dov’è stata prima allieva e poi insegnante. Lo riportano tutti i biografi brontëani: il quartetto più celebre della letteratura mondiale si scioglie, in definitiva, solo quando Branwell si stacca dalle sorelle, ma loro tre continuano a lavorare insieme fino alla morte di Emily. E i romanzi nascono come iniziativa comune delle ragazze che, dalla domesticità della canonica nello Yorkshire e il paesaggio mitico delle brughiere dietro, le proietta alla fama della Londra letteraria fino in America.

Inizialmente dovevano uscire insieme, nei tre volumi previsti dal canone della pubblicazione romanzesca. Poi, rifiutato The Professor di Charlotte, Emily e Anne continuano da sole: Wuthering Heights va a occupare i primi due volumi, Agnes Grey di Anne il terzo. Solo quando il successo strepitoso di Jane Eyre con un altro editore confonde le idee ai critici Charlotte e Anne decidono di andare a Londra per dimostrare le loro identità separate. Emily è categorica: si rifiuta di seguirle. “Siamo tre sorelle” è il noto vertice dell’agnizione-rivelazione agli editori di Charlotte – e altra causa di litigio con Emily, che non voleva svelare la sua identità di donna. Ma Charlotte non sa trattenersi e le parole “Siamo tre sorelle” le “sfuggono di bocca”. È lei stessa a raccontarlo.

Le Brontë sono un trio femminile: sorelle, amiche, nucleo letterario.

Tre – numero simbolo e talismano – come le streghe di Macbeth, altre sorelle fatali. Come le Parche del destino. Come le Grazie o le “tre donne intorno al cor” di Dante. Come i “tre pareli” visti un giorno sulle brughiere da Ellen Dean, compagna di scuola di Charlotte, in cui lei ravvisa le tre sorelle che stanno per esaudire il loro “sogno di diventare autrici”.

Un aspetto di collaborazione lavica, questo sussurro lirico che è sorgente vitale, ma che nel film della O’Connor è solo accennato, e Charlotte, Emily e Anne le vediamo scrivere insieme una volta soltanto.

Film per altri versi intenso e poetico – la fotografia è bellissima –, Emily snoda come un nastro lo sviluppo fantastico di Emily, ma senza mostrarne il volto autentico entro l’eccezionale ‘patto’ di affetto e poesia stretto dai bambini Brontë, origine e fuoco della loro scrittura, il legame da gemelle con Anne e, prima, il diverso ma altrettanto forte rapporto con Charlotte. Posti ai margini Charlotte, Anne e Branwell, in piena luce sullo schermo vediamo solo Emily, custode della canonica e personalità più luminosa dei quattro, ma dimenticando che le sue radici affondano, come l’erica sulla brughiera, nella casa e nel legame con i fratelli. Separarla intimamente da loro ripete il desueto calco della Gaskell (che detestava lei e Patrick): Emily Brontë genio isolato, la donna Titano che scrive tagliata fuori dal mondo e dalla casa, arsa solo dall’incandescenza della propria scrittura.

Niente di più falso e falsificante, poi, dell’insinuare che Emily e Charlotte siano rivali in un antagonismo inesistente, da cui l’assurda ipotesi che Charlotte abbia distrutto opere e lettere di Emily per gelosia o, entrando nel blasfemo, si sia spinta fino ad avvelenare le sorelle. Le lettere di Charlotte durante la malattia finale di Emily e dopo la sua scomparsa sono pura Scolastica del dolore: se non approva la veemenza di Heathcliff, sa bene che quella veemenza è discendente diretta delle incursioni libere e voraci nella biblioteca paterna, delle loro saghe infantili, delle camminate per le brughiere. Non aderisce al ‘fuoco’ dei versi di Emily, ma riconosce da sempre che la punta più acuminata della stella in casa è lei, Emily, il poeta più profondo, l’anima più vasta. E quando Emily si ammala le è sempre accanto, tacita il proprio dolore pur non comprendendo la decisione della sorella di non curarsi, e ne rispetta le conseguenze.

Nel film della O’ Connor, Charlotte, Branwell e Anne invece spariscono e in totale incoerenza con la sua natura e l’essenza poetica, Emily va incontro alla pubblicazione da sola, senza le sorelle, senza pseudonimo, con l’approvazione entusiasta della famiglia.

Spenta la luce dell’affinità brontëana, il senso complice della fatica comune, la felicità di scrivere insieme e insieme lavorare ai Poems, ai romanzi e scegliere gli pseudonimi, “noi tre contro il mondo”, il genio di Emily retrocede a effigie superata (dalla pubblicazione dell’epistolario di Charlotte e dagli studi degli ultimi decenni): un prodigio sradicato dalle sorelle, amante-vittima dell’isolamento e della malinconia, apparentato più a certa iconografia leopardiana, che ignora la giovane donna reale, figlia di Byron, di Scott, delle ballate del Border e le leggende dello Yorkshire, la ragazza innamorata degli animali, delle brughiere, della sua casa.

Certo, la figura di Emily si presta a riduzioni o stereotipi: Emily parla poco, e le sue parole colpiscono dritte come frecce. Emily ama star da sola, ma d’altronde tutti i Brontë sono pianeti di un universo concluso entro i confini della canonica di Haworth e i limiti selvaggi della brughiera oltre la canonica. Emily è la più forte, “più forte di un uomo, più semplice di un bambino” la definisce Charlotte nella prefazione del 1850. Eppure, per tutta la vita Emily sarà sempre, contraddittoriamente e penosamente, dipendente dall’affetto di chi ama, i fratelli e il padre, Tabby e i suoi animali, tanti, selvaggi e silenziosi come lei. Tanto da ammalarsi quand’è mandata a scuola per completare la sua istruzione e doverne essere ritirata. O lasciare il lavoro d’insegnante, il primo e unico, per eccesso di nostalgia che sembra consumarla.

Gli interventi di Charlotte sui versi di Emily dopo la sua morte, le varie Prefazioni tese a ‘riabilitarne’ il genio misconosciuto e frainteso presso il pubblico medio vittoriano che, tranne poche eccezioni, ha condannato in Wuthering Heights un romanzo volgare, odioso, sacrilego e nei suoi personaggi demoni in vesti umane hanno avviato non pochi equivoci e falsità. Ne avvertiamo la ricaduta ancora oggi in un film che deforma in incongruità la decisione di Charlotte di lasciare Angria, per lei svuotata dopo la rottura con Branwell, amplificandola in un rifiuto della scrittura in sé, di Emily e dell’affetto tra loro. Immagina una Charlotte astiosa inveire contro la sorella. E distorce la vita di Emily presentando addirittura una love story con il curato del padre William Weightman (interpretato da Oliver Jackson-Cohen), giovane di cui s’invaghisce invece silenziosamente Anne.

Persino la “mite”, gentle Anne, nel film smette di collaborare a Gondal con Emily. Allontanata dalle sorelle, Emily si allea allora con Branwell: con lui vaga per la brughiera e prende l’oppio, a lui e Weightman confida quanto sta scrivendo. Salvo abbandonare il curato e la poesia per seguire Charlotte a Bruxelles, e scrivere il suo romanzo solo dopo la morte di Branwell. Mentre dopo la morte di Weightman riceve una sua lettera in cui lui la rassicura sul suo talento.

Insomma, un pot-pourri di falsi miti brontëani smantellati da tempo. Forse l’apice del cattivo gusto arriva alla scena finale in cui, rivelando di Weightman a Charlotte, Emily le ispira Jane Eyre, mentre Charlotte chiede a Emily morente: “Perché hai scritto un libro così brutto?”. Interventi odiosi se non fossero surreali.  

Limitandoci a quel che Emily ci ha lasciato, un romanzo unico e vertiginoso, non è forse inutile ripetere che Wuthering Heights non è un frutto autobiografico, né un fiore distorto cresciuto all’ombra di figure maschili (che non siano Byron o gli eroi di Scott), o concepito in segregazione assoluta. Imprescindibile per la genesi e la comprensione del romanzo – ché la felicità dell’adesione a una scrittura è già altro – resta la vitalità dei piccoli Brontë, i racconti fantastici ascoltati la sera nella cucina di Tabby. L’adesione incenerisce ogni differenza e travalica, senza più volerli forzare, i molti misteri della vita di Emily e della casa che lei ha chiamato Wuthering Heights. Dobbiamo usare umiltà e restituirglieli.

Il vincolo d’affetto stringerà sempre tutti i Brontë, malgrado tutto, fino alla fine. Nel soggiorno della canonica, se ci concentriamo, riusciamo a vedere ancora quattro teste di bambini, due e due, chine sul tavolo con le loro fiammeggianti fantasticherie, riusciamo a sentire i pennini che grattano la carta e poi, le figure diventate tre, a sentire i passi di Charlotte, di Emily e di Anne risuonare in cerchio intorno a quel tavolo, i piccoli piedi che battono piano sul pavimento di pietra.

Sono “tre sorelle”: forte e strana e particolare, Emily non sarà mai sola.

Paola Tonussi

Gruppo MAGOG