26 Gennaio 2022

“Fin là dov’era l’innocenza della lebbra”. Rilke tra i lebbrosi

Flaubert pubblica La leggenda di San Giuliano l’Ospitaliere sulla rivista “Le Bien public”, a puntate, nell’aprile del 1877. Nello stesso anno, accorpato a Un cuore semplice e ad Erodiade, il testo è raccolto nei Tre racconti stampati a Parigi da Charpentier. Il libro vende poco, Flaubert, che morirà tre anni dopo, ne è sconcertato fino all’ira. Alla Leggenda lavorava da trent’anni: lo scrittore, ragazzo, restò folgorato alla vista di “una piccola statua di san Giuliano, conservata in una cappella laterale” nella chiesa della cittadina di Caudebec-en-Caux, in Normandia. Dirà, anni dopo, di essersi ispirato alle vetrate della cattedrale di Rouen. La storia di San Giuliano lavora in Flaubert fino al 1875, quando lo scrittore la riprende, per raffinarla e concluderla. Il testo – cito l’edizione a cura di Bruno Irti, pubblicata da Salerno nel 1994 – è limpido, lucido, bello: Flaubert, con sguardo moderno, riprende il tono delle narrazioni agiografiche.

Secondo la tradizione, Giuliano, cavaliere fiammingo di nobile famiglia vissuto nell’alto medioevo, è caratterizzato da forza energumena, arcana, inquieta. Giuliano domina il bosco, ne schiavizza le bestie, ama uccidere; egli stesso si fa belva: “Rientrava nel cuore della notte, coperto di sangue e di fango, con spine nei capelli ed emanando l’odore delle bestie feroci. Divenne come loro. Quando sua madre l’abbracciava, accettava freddamente la sua stretta, sembrando vagheggiare cose profonde”. La nascita di Giuliano accade all’ombra dello straordinario e della profezia; al modo agiografico Flaubert alterna quello della favolistica ‘romantica’. La forza demoniaca di Giuliano, che riesce in ogni impresa d’arme, gli consente di sposare la figlia dell’imperatore d’Occitania, di vivere in palazzi sontuosi, in una quiete apparente; su di lui, comunque, grava la maledizione di un “grande cervo”, “prodigioso animale” dagli “occhi fiammeggianti”, autentico dio dei boschi, che ha ammazzato per il gusto: “Un giorno, cuore feroce, assassinerai tuo padre e tua madre!”.

La parte della conversione – l’uomo scardinato dall’ira, impila quella potenza distruttiva nell’espiare – occupa poche pagine nel racconto di Flaubert. La santità di Giuliano si rivela quando il cavaliere, ormai mendicante, offre cibo a un lebbroso, si sdraia sul corpo putrefatto del malato – “Avvicinati, riscaldami! Non con le mani! No! Con tutto il tuo corpo” –, ad assorbirne il male, a voltare l’osceno in benedizione. Il gesto di Giuliano gli permette di “salire verso gli spazi celesti, faccia a faccia con Nostro Signore Gesù”. Gesù è nell’abbracciare il lebbroso, nell’ascesa presso il lebbrosario del mondo.

La lebbra, d’altronde, è l’estasi della punizione divina: marchio visibile della colpa in cancrena, carne che imputridisce, latteo ghigno del demonio, infinita deformità, che contagia. Il Levitico dedica specifiche norme per marginalizzare la lebbra, stigma dell’impuro (“Se la macchia si allarga sulla pelle, il sacerdote lo dichiarerà impuro: è una piaga di lebbra”); il Manusmṛti, arcaico codice induista, sancisce che esclusi dal sacrificio, dunque dal rapporto con il sacro, sono “un epilettico, un lebbroso, un calunniatore, un pazzo, un uomo che oltraggia il Veda”. Il lebbroso è oltraggio incarnato, bestemmia, calunnia purulenta, follia. Così, il riscatto compiuto dai maestri passa, inesorabilmente, per il lebbroso, escluso tra gli esclusi, di cui bisogna dissigillare il male: nel Kuṭṭhi Sutta il Buddha riconosce la fiamma dell’illuminazione in un uomo falciato dalla lebbra (“Come un panno pulito, privo di macchie, assorbe il colore, così in Suppabuddha il lebbroso si spalancò l’occhio limpido, netto del Dhamma: ‘Tutto ciò che ha origine, cessa’”); nel Vangelo, Gesù converte l’antica legge purificando il lebbroso, benedicendosi nel lebbroso (“Ed ecco, si avvicinò un lebbroso, si prostrò davanti a lui e disse: ‘Signore, se vuoi, puoi purificarmi’. Tese la mano e lo toccò dicendo: ‘Lo voglio: sii purificato!’. E subito la sua lebbra fu guarita”, Mt 8, 2-3). Il passaggio per il lebbroso è viatico prediletto, lavacro battesimale per chiunque si avvia sulla via dello spirito: “devono essere lieti quando vivono tra persone di poco conto e disprezzate, tra poveri e deboli, tra infermi e lebbrosi e tra i mendicanti lungo la strada”, ricorda San Francesco ai frati nella sua prima regola.

Il lebbroso attraversa come un monito la storia della letteratura – da La città del re lebbroso di Salgari a Koolau il lebbroso di Jack London e Il re dalla maschera d’oro di Marcel Schwob –: per Rainer Maria Rilke diventa un simbolo ineluttabile, la condanna al bene. “Credi che Flaubert abbia scritto per un caso il suo Saint-Julien-l’Hospitalier? Mi pare che ciò che conta sia questo: riuscire a giacere accanto al lebbroso e riscaldarlo con l’ardore del cuore delle notti d’amore”, scrive nei Quaderni di Malte Laurids Brigge. Il “Malte” esce nel 1910, sulla cruna di una ispirazione che paralizza: “Possedevo il fervore della sensibilità per essere anche dentro il brutto. Non mi era lecito coricarmi col lebbroso, me ne mancava l’amore, la lebbra non si sarebbe, sotto di me, rovesciata nel suo felice contrario. Ma dovevo andare dentro, fin là dov’era l’innocenza della lebbra, dove la lebbra viveva ancora la sua infanzia. Là dovevo raccogliere tutta la mia forza, ed essere forte e insistente, e togliere alla lebbra la coscienza di essere brutta; finché non mi avesse creduto; perché quella era la sua bellezza, il fatto di non sapere nulla di sé, semplicemente di essere. E in quella bellezza la conquistavo, la lebbra diventava cosa, entrava nel mondo della mia arte”, scrive a Magda von Hattingberg, è il 1907. Lo scopo dell’arte, di quel vagabondaggio altrimenti vano, è qui: trovare l’infanzia, l’innocenza, la bellezza della lebbra, redimere il pallore in candore.

In Neue Gedichte, edito da Insel Verlag nel 1908, Rilke accoglie una poesia che s’intitola Il re lebbroso:

Ecco, la lebbra gli crebbe in fronte
a un tratto fu sotto la corona
come se egli fosse re dell’orrore
che era in altri. Quelli, sbalorditi,

sbarravano gli occhi al terrore
e lui, piccolo, stretto tra lacci,
pensava che lo torturassero;
ma nessuno ne aveva il coraggio
ed era come se una nuova dignità
immensa, lo rendesse intoccabile.

L’infamia della lebbra rende lecito il prodigio: fa regali, degni, intoccabili. Eppure, il “Malte” resta il libro del tremendo, il romanzo scorsoio, anamnesi dell’errore e dell’orrore: “L’esistenza del terribile in ogni particella dell’aria. Lo respiri con la trasparenza; ma in te si deposita, diviene duro, acquista tra le viscere forme puntute, geometriche; poiché tutto il tormento e l’orrore che è stato nelle piazze dei patiboli, nelle camere di tortura, nei manicomi, nelle sale operatorie, sotto gli archi dei ponti nel tardo autunno: tutto ciò ha una tenace esistenza imperitura, tutto ciò insiste su di sé e, geloso di tutto ciò che è, s’attacca alla propria terribile realtà. Gli uomini vorrebbero poterne dimenticare molto; il loro sonno lima dolcemente quei solchi nel cervello, ma i sogni lo ricacciano e calcano di nuovo i disegni…”.

Rilke è ossessionato dal lebbroso, dall’atto arreso di abbracciare il lebbroso: così ne scrive, “A una fanciulla”, nel 1921, già nella reclusione di Muzot.

“Le esperienze di Malte m’impegnano di quando in quando a rispondere a questi scritti di sconosciuti. Egli l’avrebbe fatto, egli, se una voce mai l’avesse raggiunto… Del resto, è lui che mi obbliga a continuare questo sacrificio, esige da me ch’io ami tutte le cose, che voglio raffigurare, con tutte le capacità del mio amore. È questa l’irresistibile potestà, di cui egli m’ha lasciato l’usufrutto. Immaginatevi un Malte, che in quella Parigi per lui così paurosa, avesse avuto un’amata o anche un amico. Sarebbe egli allora penetrato mai così a fondo nella confidenza delle cose? Ché quelle cose (egli me l’ha spesso ripetuto nelle poche nostre conversazioni intime), la cui vita essenziale voi volete rendere, anzitutto vi chiedono: Sei tu libero? Sei disposto a dedicarmi tutto il tuo amore? Ad adagiarti con me in un giaciglio, come s’adagiò san Giuliano l’ospitaliere col lebbroso, in quell’estremo abbraccio, che non si può mai saziare in un comune e fuggevole amore del prossimo, ma che ha per impulso l’amore, l’intero amore, tutto l’amore che si trovi sulla terra?”.

Le Elegie duinesi e I sonetti a Orfeo sono la risposta alla ricerca dell’“intero amore”, dell’“estremo abbraccio” – che quella ricerca sfumi in una morte già sfatata è pauroso chiarore. Si fa poesia solo andando tra i lebbrosi, si scrive da piagati, nell’inchino di chi s’incunea tra oscuro e oblio. Che poi nell’ospitaliere sia disposta l’apostasia del male è un fatto: chi è il malato, d’altronde, quale corpo è ospite, ospitato e quale il ricovero? Il lebbroso esiste, radioso come il Tabor, perché noi ci salviamo, specchio delle nostre defezioni e deformità; egli è la cura, l’accesso, la porta, carisma sancito in piaghe.

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