26 Maggio 2020

“L’uomo, in qualunque punto del mondo vada, reca con sé un vicolo cieco”. Iosif Brodskij, il poeta fondamentale

Il 24 maggio del 2020 Iosif Brodskij avrebbe compiuto ottant’anni, ma è come se ogni anno, per lui, valesse dieci: per autorevolezza pare coetaneo di Puskin e compagno di bevute di Shakespeare. Per distorsione ottica, Brodskij pare un pioniere, un iniziatore, ma anche l’esecutore della tradizione che lo ha preceduto, è quello incaricato di mozzarle il capo e impagliarla. Così, allo stesso tempo, Brodskij sembra antichissimo – era lì quando Gilgamesh partì alla ricerca dell’immortalità – e prossimo: è sdraiato sulla scrivania, mentre scrivo.

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Per onorare il poeta, Farrar Straus & Giroux pubblica in edizione speciale quattro libro di Brodskij – che oltreoceano è americanizzato come Joseph Brodsky. Due raccolte di saggi – Less Than One, On Grief and Reason –, un testo teatrale – Watermark – e una antologia di Selected Poems, 1968-1996, a cura di Ann Kjellberg, di cui ho tradotto parte di un pensiero, più avanti. Niente di nuovo sotto il sole editoriale. Una conferma, piuttosto: Brodskij, di qui e di là dall’oceano – proprio perché è un poeta russo pubblicato e cresciuto in terra americana, sovietico e yankee allo stesso tempo –, è il poeta fondamentale.

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A differenza di Thomas S. Eliot, che con pervicacia si è costruito un ‘canone’ di riferimento e una poetica di platino, Brodskij accenna a una costellazione di maestri – quelli che cita al principio del suo discorso al Nobel, “Osip Mandel’stam, Marina Cvetaeva, Robert Frost, Anna Achmatova, Wystan H. Auden”, come se egli fosse lì per loro, in risarcimento, come se la poesia fosse la consegna del fuoco, e altri di cui ha scritto come Kavafis, Eugenio Montale, Derek Walcott, ad esempio – ma preferisce essere elusivo, inafferrabile. Se si inginocchia davanti ai maestri è perché, come un bambino spericolato, è passato sotto le loro gambe, è avanti, altrove, chissà dove.

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Il talento umano di Brodskij – la poesia va semplicemente assunta e sussurrata a voce piatta, finché i verbi non si ampliano in navate e cattedrali – è nell’accennare una cosa per il gusto di contraddirla. “Per uno che ha sempre preferito la sua dimensione privata a qualsiasi ruolo pubblico…”, attacca Brodskij il discorso al Nobel. Eppure, preda di un egotismo tipico, ‘da romanzo russo’, ha reso pubblico il proprio privato, in saggi memorabili. “Io ricordo piuttosto poco della mia vita, e ciò che ricordo non ha questo gran valore”, scrive in Meno di uno, e va avanti per una quarantina di pagine a raccontarci di sé; idem in Fuga da Bisanzio (con auguri espliciti: “Oggi compio quarantacinque anni. Mi trovo ad Atene, seduto al Lykabettos Hotel, a torso nudo, immerso in un bagno di sudore, intento a ingurgitare potenti dosi di Coca-Cola”); idem in In una stanza e mezzo. Entrambi i saggi superano abbondantemente le cinquanta pagine. In effetti, Brodskij ha sempre raccontato di sé: se si ha una intelligenza piena di tigri e di betulle non bisogna aver vissuto, è sufficiente aver visto.

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D’altronde, dicendo di esiliarsi dalla dimensione politica, Brodskij è stato uno dei poeti che più di tutti ha fatto politica. A differenza di Pound, che si è esposto nel corpo sanguinoso della Storia, e di Eliot, che ha teorizzato la conservazione, Brodskij ha subito il regime per abbatterlo, proprio come Davide contro Golia. Alcuni saggi – Per citare un versetto, Sulla tirannia – sono potentemente politici. La visione di Brodskij, però, non risparmia nessuno: per lui l’azione politica è sempre coercitiva, la democrazia un modo, velato di algido buonsenso e di buone intenzioni, per sopraffare il prossimo. “Ormai ogni nuovo assetto sociopolitico, si tratti di una democrazia o di un regime autoritario, è un passo in più nella marcia di allontanamento dallo spirito dell’individualismo e di avvicinamento al caotico sfrenarsi delle masse. All’idea dell’unicità esistenziale di una persona si va sostituendo quello della sua anonimità”. Nel 1980 Brodskij insiste sul pericolo della tirannia burocratica, dello Stato dentato – si, avete letto bene: si tratti di una democrazia o di un regime autoritario. “Ogni ostentazione di individualismo in mezzo a una folla può essere dannosa: prima di tutto per la persona che la ostenta… per questo c’è lo Stato gestito dal partito, con i suoi servizi di sicurezza, gli istituti psichiatrici, la polizia e la fedeltà dei cittadini”. Poiché è poeta, Brodskij è terrorizzato dalla norma, da ciò che è normale, dal normalismo, che si impone tramite ghigliottine o codici di legge.

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Poi, certo, c’è la poesia, di cui, alieno al russo, posso dire per difetto di vetro, come chi scambia la rivelazione per la ripetizione, l’occhio del falco per una moneta, il bicchiere per un millesimo di Volga. Tra le poesie, tante, che amo, c’è il poema In Inghilterra, questo è un brano da York, “In memoriam W.H. Auden”, a me pare scritto per sconfiggere i Quattro quartetti. Non occorre capire ‘cosa significa’, ma lasciarsi nel magma verbale, senza richiesta – Nicea non lo giudichi, lo accetti.  

L’uomo, in qualunque punto del mondo vada, reca
con sé un vicolo cieco; col suo angolo ottuso un ginocchio
ripiegato moltiplica una prospettiva di prigione, che
è come un cuneo di cicogne, quando
drizzano il corso a sud. Come tutto ciò che va avanti.

Il vuoto, inghiottendo la luce del sole alla
stregua d’un biancospino, si gonfia – quasi lo palpi –
in direzione di una mano tesa, e il mondo si fonde in una
lunga strada nella quale vivono
gli altri. In questo senso è Inghilterra. L’Inghilterra
in questo senso è ancora Impero e in grado – a credere
alla musica, come acqua gorgogliante –
di dominare i mari. Quindi, ogni elemento…

Lo stelo verticale dell’epilobio è lungo
più di questa antica strada romana
che va al Nord, da tutti a Roma dimenticata.
Sottraendo maggiore da minore, Tempo
da uomo, avrai parole come resto
che spiccano su sfondo bianco più nettamente di
quanto riesca il corpo a fare in vita, anche dicendo: “prendimi!”.

E la fonte d’amore si trasforma in oggetto d’amore.

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Poiché non esiste una poetica che non sia consustanziale a un destino, Brodskij per dire di sé scrive di Leningrado che fu ed è la città di Pietro – l’atto di tirannia è nello scombinare i nomi, o dire che va tutto bene quando va male. “La Grecia, Roma, l’Egitto – era tutto lì, e tutto era scheggiato dai colpi sparati dall’artiglieria… E dal fiume grigio, carico di riflessi, che scendeva verso il Baltico, magari con un rimorchiatore lì in mezzo a lottare contro la corrente, ho imparato più cose sull’infinito e sullo stoicismo che dalla matematica e da Zenone”. La poesia di Brodskij, eccola: Grecia che si fonde ai soviet, macerie che evocano galassie future, Pantheon e Parlamento, il transitorio – “un rimorchiatore” – nell’assoluto – “infinito” – e poi il fiume/poesia che onnisciente, cauto, corrode tutto. Brodskij non credeva nelle rivoluzioni, era certo della caduta – e la puntellava, con spilli d’oro. (d.b.)

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Quando Iosif Brodskij scese dall’aereo ad Ann Arbor, Michigan, nel 1972, in esilio dall’Unione Sovietica, a 32 anni, accompagnato da un amico, il professore russo ed editore di scrittori censurati in patria Carl Proffer, aveva la testa piena di poesie inglesi, di film americani, di jazz, di pittura e architettura italiana, di mitologia greca e romana. Una dieta costante di conformità sovietica e ideologia in scatola aveva allontanato Brodskij dalla scuola, a Leningrado, quando era ancora adolescente, e un’avversione verso l’acquiescenza lo aveva obbligato a diversi lavori piuttosto umili per uno stipendio. Questa traiettoria lo portò in modo quasi inesorabile al confino obbligatorio in un remoto villaggio agricolo nel distretto subartico di Arkhangelsk. Per tutto quel tempo, si ingigantì la sua vocazione alla lettura. Suo padre aveva conservato una ziggurat di libri con i quali il giovane Brodskij si staccava dal resto della komunalka (gli appartamenti comuni) della famiglia per leggere e scrivere di notte, condividendo la sua scrittura con uno stretto nugolo di amici. Con la revoca della censura sovietica, dagli anni Novanta, l’opera di Brodskij è custodita in diversi archivi, si può leggere.

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I predecessori immediati di Brodskij – Boris Pasternak, Osip Mandel’stam, Anna Achmatova, Marina Cvetaeva – lottavano contro la violenza omicida del regime bolscevico ritenendo le risorse della prosodia russa un deposito di valori universali e civili. Comporre in misura classica era espressione di solidarietà ma anche di solidità individuale e artistica, era una sfida contro il pragmatismo forzato dell’ideologia sovietica. “La poesia russa ha fornito un esempio di purezza e di fermezza morale, che in minima parte si riflette nella mera conservazione delle forme classiche”, ha scritto Brodskij.

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Autodidatta, impulsivo, irremovibile, disarmato, Brodskij è emerso nello scenario artistico come un virtuoso; ha fatto con i versi russi cose che nessuno riteneva possibili. La sua mentore, Anna Achmatova, venerata per aver affermato la propria autonomia poetica pur sotto minaccia di prigionia e di morte, lo ha riconosciuto immediatamente come portatore del fuoco dell’autentica poesia russa. Brodskij ha recepito la poesia formale – capace di alto lirismo, levigato nello scettico splendore di Puskin – dandogli una sensibilità moderna. Il suo linguaggio abbraccia la compostezza classica, la serietà biblica, il disincanto filosofico, il gergo da strada. Tra i confini della sua tana cinta di libri, ha cercato modelli e coetanei in tutto il mondo, leggendo l’inglese come contrappeso necessario, trovando un tono quotidiano, anticonfessionale, una tradizione possente in un paesaggio generoso.

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Ha scritto le prime poesie elogiando T.S. Eliot e John Donne, ma nella scabra fattoria ad Arkhangelsk, in esilio, dove un amico gli invia la New Pocket Anthology of American Verse curata da Oscar Williams, scopre, durante lunghe notti di lettura, i suoi amori più duraturi: W.H. Auden e Robert Frost. Ha assimilato la loro pratica, usando la poesia per smorzare gli effetti drammatici e grandiosi, per accedere a una umanità minima, con lo sguardo spalancato.

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Quando Brodskij lasciò la Russia, in esilio involontario, all’inizio ebbe paura che, scisso dalla sua patria, non avrebbe scritto altro. La sua vita poetica era stata inevitabilmente internazionale – aveva sempre desiderato l’Italia, le sue proporzioni classiche, la sua eredità in frantumi – ma la storia, ora, gli imponeva un viaggio a senso unico. Abbracciò il demotico americano, come professore improvvisato alla University of Michigan, offrendo una risposta all’anti-intellettualismo militante degli anni Settanta e alla reazione dell’arte elitaria. Il Brodskij che atterrò ad Ann Arbor nel 1972, semplicemente, non apparteneva ad alcun establishment. Piuttosto, affrontò l’esilio come una amplificazione della carica esistenziale che animava la sua sensibilità. Era un poeta dagli occhi aperti, che non sopportava la commiserazione. Essere solo, perdere famiglia, amici, l’amore, la lingua, la topografia di riferimento, dovevano rappresentare la solitudine propria di ognuno, universale. Il passato è un luogo in cui non puoi tornare, il futuro è infinito vuoto. L’amore per l’Italia, dove il passato è ovunque, fu una specie di rifugio.

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Brodskij scrisse quattro libri di poesie in russo mentre era negli Stati Uniti oltre a pubblicare due libri di poesie scritte in precedenza. Il primo libro in inglese che fu in grado di supervisionare come autore fu A Part of Speech (1977), grazie a una elaborata sinfonia di collaboratori. Il libro fu pubblicato da Farrar, Straus & Giroux e l’editore, per convalidare certi passaggi, inviò i testi ad alcuni poeti con cui Brodskij aveva affinità – Derek Walcott, Richard Wilbur, Anthony Hecht, Howard Moss – che li voltarono in inglese, sotto la guida di Brodskij.

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Ora viviamo in un’epoca in cui molti scrittori lavorano oltre confine, al di là della lingua madre, testimoniando violenze e disagi; Brodskij è stato un pioniere. Ai suoi tempi c’era un gruppo di poeti, alcuni ai margini dell’impero, altri che avevano reciso le loro radici – Derek Walcott, Seamus Heaney, Octavio Paz, Czeslaw Milosz, per dirne alcuni – che portavano con sé l’emblema di tradizioni falciate dalla storia. Faremmo bene a occuparci della loro opere, stando in piedi, come hanno fatto loro, davanti alla nostra porta, tra un passato ferito e la feritoia della lingua da cui sgorga il futuro.

Ann Kjellberg

Gruppo MAGOG