Scrivere poesie, si sa, è stato l’esercizio di molti scrittori – una specie di addestramento al verbo. Hanno scritto poesie – diversamente brutte – James Joyce e Ernest Hemingway, Vladimir Nabokov, William Golding. Di solito, la pratica si interrompe quasi subito; esempi di ‘ambidestri’, in letteratura, sono rarissimi (ad esempio: Boris Pasternak resta grande poeta e romanziere ambiguo; Hermann Broch romanziere folle e poeta involuto). William Faulkner, il più lirico tra i romanzieri americani, rispetta lo schema: The Marble Faun – che imita il titolo di un romanzo di Nathaniel Hawthorne – è pubblico nel 1924 presso la Four Seas Company di Boston; è il suo esordio alla letteratura. Nel 1933 con A Green Bough – per Harrison Smith & Robert Haas – si chiude l’epopea poetica di Faulkner. All’epoca lo scrittore ha già pubblicato i suoi capolavori – L’urlo e il furore, Mentre morivo, Santuario, da cui è tratto un film – dunque, perché attardarsi negli antichi sfoggi lirici? Perché Faulkner, in fondo, alla sua poesia tiene, la poesia è il suo sogno meridiano. In fondo, “in principio ogni scrittore vuole essere un poeta”: l’ha detto lui. D’altronde, ventenne, nel 1920, si era costruito un libro in proprio, il primo, The Lilacs, costituito da 98 versi vergati a mano, “su carta intestata della scuderia paterna… Sul frontespizio dipinto ad acquerello, un personaggio femminile vestito secondo la moda di fine-secolo vorrebbe esprimere una fondamentale paura dell’autore: che le donne siano inaccessibili, infedeli, distruttive” (Fernanda Pivano).
Sperimentale, labirintico, biblico e dostoevskjiano nel romanzo, Faulkner è poeta per lo più liberty, discepolo di Swinburne, ispirato dagli spazi aperti, di solito triste. La poesia – che pure costituisce il suo carisma più vertiginoso – non è memorabile (una selezione, come Poesie del Mississippi, è stata pubblicata da Transeuropa nel 2012): Faulkner saprà inselvatichire l’estasi lirica, panica, nei romanzi, raggiungendo l’eccellenza formale. Qualche anno fa Random House ha raccolto l’opera poetica di Faulkner, riproponendo alcune pagine di Phil Stone, mentore di WF. “Queste sono le poesie della giovinezza e hanno il cuore semplice. Sono le poesie di una mente che reagisce alla luce del sole, agli alberi, al cielo e alle colline blu… Sono poesie intrise di luminosità, e hanno il colore della terra su cui sono state scritte. L’autore ha radici in questo suolo, a tal punto che lo si può dire un albero…”. In una lettera del 1949, inviata da Oxford a Malcolm Cowley, piuttosto, Faulkner rimarca la sua poetica profonda: “La mia sola ambizione, come individuo privato, è essere abolito, cancellato dalla storia, vivere senza lasciare segno, ma soltanto libri. Vorrei avere avuto il buon senso di molti elisabettiani: pubblicare senza firmare le proprie opere. Il mio solo scopo, la somma e la storia della mia vita, il mio necrologio, non sarà che questo: ha fatto libri, ed è morto”. Amava ideare genealogie fittizie e si era lievemente cambiato il cognome – Falkner, in origine – per agevolare lo smarrimento. Quell’anno, Faulkner ottiene il Nobel per la letteratura.
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I pioppi dondolano avanti e indietro:
che attraversino il vecchio giardino
come ragazze slanciate che annuiscono
sussurrando sopra i letti
degli enormi cespugli di malva
degli astri purpurei di flox;
presi dall’oro onirico delle margherite
ricchezza inenarrabile e dispersa
con i piedi lievi e aggraziati
simili a ballerini sul precipizio.
Le rose sembrano fiamme incandescenti
lastre dorate nell’aria immobile
e le nuvole scivolano a occidente
per guardare la morgana assolata
mentre le creste lucenti dei pioppi
accarezzano i loro fianchi d’argento:
non prevedono le nevi invernali
che presto li scuoteranno.
Sognano giorni bianchi
e luce che fiotta limpida dalla fontana
che si solleva nel vento elegante come un albero;
poi scuote i capelli sullo specchio
della piscina immobile – bella – dal viso scavato.
Perché allora sono triste? Io?
Perché evito la felicità? Il cielo
mi scalda eppure non so spezzare
i miei nodi di marmo. Quel serpente
dall’intelligenza rapida è libero di andare
ma io sono prigioniero del sogno – e sospiro
di cose che so e non posso sapere
sopra i cieli e sotto terra.
La terra dilaga e pretende i miei piedi
un incendio di frutteti da divorare
colline e fiumi ovunque; voglio dormire
sui campi sbiancati dalla luna:
il mondo intero respira e mi chiama
imprigionato da un nodo di marmo.
Se fossi libero me ne andrei
dove soffiano i primi gelidi venti di primavera
che bendano la fronte delle rocce
con lingue stridule e violente – e ardono
saltando tra le pietre verticali – penetrano
le profondità – fecondano il silenzio. Lì
volo mentre l’anno scroscia
tra le selvagge cime dei monti
su cui il cielo plana e si blocca
mentre la vecchia luna mi fissa
e salto e grido di gioia
accovacciato dentro ogni abisso
dove le acque sibilano sobillando echi
per scatenare dal bosco la bestia…
Qui gli zoccoli affilati di Pan hanno inciso
un messaggio lungo le gelide creste:
Segui la mia via
perché tutto il mondo danza al suono
intrecciato della mia canna
scuoto cielo e terra con il caldo
e il gelo impossibile
faccio scoppiare ogni muffa
disincastro i freni e rompo le attese
vieni, vivi, danza, svegliati!
William Faulkner