
“Addio bastardi maledetti vermi immondi”. Leggendo Salvatore Toma
Poesia
Giorgio Anelli
L’attualità, per così dire, di questo articolo risiede in un documento miracolosamente inattuale.
Ipotesi di partenza. Tenere insieme, con originalità di fonti e alti auspici, due ‘fenomeni’. Il primo è la ‘rivolta dei trattori’, meglio, degli agricoltori, qualsiasi connotazione essa assuma. Chiamiamola, la rivolta della terra. Il secondo riguarda le bagarre elettorali americane. Il tema si declina così: la voce dell’altra America. Quella che sfugge ai patron newyorkesi e al pantheon dell’informazione, ai surfisti dell’immaginario californiani, ai megalomani della Silicon Valley, ai mascherati Musk.
A questi due fenomeni ne assoceremo, come sorta di estrema appendice, un terzo, più avanti.
Un documento del 1930, pubblicato da Harper & Brothers, New York, riassume le istanze di partenza: la necessità della tutela della terra, del lavoro agricolo, e la ‘missione’ dell’altra America, ritenuta minoritaria, incolta, reazionaria, ‘vinta’. Il documento s’intitola I’ll Take My Stand, ed è uno dei libri creativamente miliari del cosiddetto ‘conservatorismo’ americano. A scriverlo sono dodici ‘sudisti’ – Twelve Southerners –, ciascuno dei quali fiero della propria individualità (“singolarmente, ciascun autore è responsabile delle opinioni espresse nel proprio singolare saggio”), che esprimono una analoga visione del mondo. Questi dodici apostoli del Sud sono semplificati dalla didascalia “Southern Agrarians”: l’idea ‘politica’ che esprimono “e su cui tutti concordano è riassunta nella frase ‘Agricolo contro Industriale’”.
Agrarian, tuttavia, è parola che esprime una poetica prima che una prassi economica. Esprime, soprattutto, una poetica dell’esistere, romanticamente riassunta nel mito del ‘Vecchio Sud’. Le autorità su cui si fondano gli “Agrarians” sono Thomas Jefferson e Thomas Carlyle, Joseph de Maistre e William Morris, ma ancora di più Thoreau; sono i diretti eredi della visione mitica di Thomas S. Eliot e di quella ‘regionalista’ di William Faulkner. Il discorso degli “Agrarians”, cioè, dipende certamente dalle fallite istante dei Confederati, sconfitte dall’Unione durante la guerra di secessione americana, ma è, soprattutto, improntato a una filosofia della vita, a una profonda riflessione sul senso dell’uomo nel mondo nuovo, sulla ‘necessità’ che lega il colono al suolo su cui ha edificato la propria epica personale.
Nella dichiarazione introduttiva a I’ll Take My Stand – intitolata A Statement of Principles – gli “Agrarians” annunciano la lotta senza quartiere della dignità umana contro la tracotanza della scienza, l’abominio onnivoro dell’industrializzazione selvaggia, il genio di ‘farsi da sé’. Alcuni passaggi hanno nitore profetico:
“La parola scienza ha ormai acquisito una sacralità intoccabile. La capitalizzazione delle scienze applicate è ormai diventata esuberante e acritica; ha schiavizzato ogni energia umana… Il contributo della scienza dovrebbe essere quello di rendere il lavoro più facile, assicurando, tramite semplici processi, la perfetta sicurezza economica di chi è impiegato. Invece, il lavoratore moderno, sotto il giogo del regime industriale, non ha ottenuto tali benefici. Il suo lavoro è duro, il ritmo feroce, l’impiego incerto”.
Il lavoro orientato unicamente da processi ‘d’azienda’ è alienante, è coercitivo:
“Dobbiamo dirci, contro ogni reticenza, che i veri sovietici o comunisti sono gli industriali. Anche gli apologeti dell’industrialismo sono costretti ad ammettere i mali che provengono dall’opera delle macchine. Questi includono: sovraproduzione, disoccupazione crescente, crescente diseguaglianza nella distribuzione delle ricchezze. Gli industriali credono che i mali passeranno una volta create macchine più efficienti. Si affidano alla benevolenza del capitale per una più equa divisione dei guadagni: sono socialisti. Sperano in organi di controllo sempre più coercitivi per regolare i prezzi contro le fluttuazioni di mercato: sono sovietici. Vorrebbero che una super-organizzazione economica diventasse più forte di un governo. Sono in linea con lo stesso sviluppo industriale imposto con violenza nella Russia del 1917”.
In particolare, gli “Agrarians” insistono sull’idea del lavoro come ambito specifico di realizzazione dell’uomo. Il lavoro non è altro dalla vita, è la vita stessa. Il lavoro – non lo stipendio – è il solo reddito di chi è all’opera.
“La filosofia delle scienze applicate è convinta che il risparmio del lavoro sia il vero guadagno, presupponendo, dunque, che il lavoro in sé sia il male e che soltanto la produzione sia un bene. In questo senso, il lavoro diventa mercenario, servile… Del lavoro, una delle funzioni che rendono felice la vita umana, si è fatto mero mercato: si lavora esclusivamente per il compenso e non per la gioia di creare”.
La “società agraria” proposta dai “dodici sudisti” è quella legata al potere della tradizione, alla tutela delle usanze, alla garanzia di autogestione dei piccoli territori. Riconquistare la terra – si intende: non afferrando il duro vomere, ma mettendo a servizio la scienza, senza manomettere la gerarchia delle ragioni di natura – vuol dire riconquistare l’uomo, nella sua autentica sovranità. L’industrializzazione – un processo infinito: dacché il denaro vince per moltiplicazione incessante – ha come esito – anzi: come ragione originaria, come falla atavica – l’infelicità:
“Conseguenza inevitabile del progresso industriale è che la produzione superi di gran lunga il consumo naturale. Per ovviare tale disparità, i produttori, mascherati da geniali idealisti del progresso, devono costringere il pubblico a diventare un consumatore fedele e costante, al fine di mantenere le macchine in funzione. Da qui, l’ascesa della pubblicità, lo sviluppo più significativo dell’industria moderna. Pubblicità: persuadere i consumatori a desiderare ciò che le scienze applicate sono in grado di fornire loro. La felicità del consumatore è ininfluente, tanto quanto quella del lavoratore… Questo modo di pensare fissa degli obbiettivi ‘sociali’, di massa, che non hanno alcuna relazione con l’individuo e i propri bisogni peculiari. Gli uomini sacrificano così la loro dignità privata e la loro felicità per un ideale sociale astratto. Ma questo è assurdo. Responsabilità dell’uomo è raggiungere il proprio benessere e quello del prossimo, non l’ipotetico benessere di una qualche fantomatica creatura chiamata ‘società’”.
L’individualismo degli “Agrarians” è centrato su una visione “religiosa” dell’uomo e del suo compito su questa terra. “La religione è la nostra sottomissione a un progetto imperscrutabile; la religione edifica il senso del nostro compito come creature poste all’interno del creato”. L’imperio dell’industria leva all’uomo, divenuto ‘massa’, il suo valore ‘universale’ – “il prezzo di tale insaziabile fame è pagato con la perdita di uno scopo autentico” – e il suo rapporto autentico con il creato: “La natura industrializzata non è più natura, ma un insieme di fabbriche, di abitazioni artificiali. L’illusione di dominare la natura ci ha fatto perdere il senso della natura come qualcosa di misterioso e contingente. In queste condizioni, Dio è semplicemente un amabile concetto, per lo più superficiale, una favola filosofica di cui non possiamo più fare ‘esperienza’”.
Il Sud degli “Agrarians” non è più quello “confederato”: è uno stato dell’anima, una istituzione del cuore. Si diceva: richiama a una ‘poetica’. I “Southern Agrarians” – ecco il terzo aspetto della questione –, infatti, sono la diretta discendenza dei “Fugitive Poets”, gruppo di giovani poeti cresciuti presso la Vanderbilt University di Nashville, radunatisi intorno alla rivista “The Fugitive” dal 1922. Alfieri dell’antica ‘gloria’ americana, costoro, genericamente, anteponevano le ragioni del simbolo a quelle della moda, una poesia impersonale e severa rispetto a quella confessionale, l’epica rispetto all’ombelico, Dio in vece dell’io, le piccole cose in vece delle grandi intenzioni, la natura in contrapposizione alla metropoli. Di questi poeti, pressoché intradotti in Italia per evidenti ragioni ‘politiche’ – conservatorismo, reazione e inattualità hanno raro spazio nella nostra azienda editoriale – la guida era John Crowe Ransom, i più talentuosi alfieri – il Pietro&Paolo del gruppo – Allen Tate e Robert Penn Warren. Del primo – “Poet Lureate” per gli Usa nel 1943 –, molti anni fa, Feltrinelli ha tradotto l’unico romanzo, il libro-totem degli scrittori ‘sudisti’, I nostri padri: era il 1964, Tate era considerato – così il segnalibro che fungeva da ‘quarta’ – “uno dei massimi esponenti delle lettere contemporanee”. Di Robert Penn Warren – Pulitzer per il romanzo nel 1947, Pulitzer per la poesia nel ’58 e nel ’79, poeta “laureato” nel ’44 e nel 1986 – in Italia, per ipocrisia culturale, è possibile leggere soltanto Tutti gli uomini del re (stampa Feltrinelli), da cui sono stati tratti un paio di film (l’ultimo, anno 2006, è con Sean Penn, Jude Law e Anthony Hopkins). Di entrambi, sono ormai irreperibili in libreria le poesie.
Ad ogni modo. I’ll Take My Stand fu, nonostante gli intenti – “se una comunità, una razza, un’epoca, geme sotto l’industrialismo, consapevole che si tratta di un sistema sbagliato, deve riuscire a liberarsene” – un libro di sconfitti. Testimonianza del pensiero americano profondo, I’ll Take My Stand è stato ristampato con costanza (l’ultima edizione critica, per la Louisiana State University Press, è del 2006) e costituisce un termine di confronto necessario per capire l’America e la sua ‘missione’. Un manuale anti-progressista, dalla crepitante utopia reazionaria, scritto da poeti.
Negli anni, quasi tutti i “dodici” scrittori del Sud ritrattarono o raffinarono le antiche utopie (un ottimo resoconto degli ‘esiti’ di quel libro è in un saggio di Lucinda H. Mackethan edito sulla “Virginia Quarterly Review” nel 1980, I’ll Take My Stand: The Relevance of the Agrarian Vision). L’unico a restare ‘fedele alla linea’ fu Donald Grady Davidson (1893-1968), poeta, saggista, prof alla Vanderbilt, naturalmente alieno dal consesso editoriale italico (in appendice traduciamo alcune sue poesie), l’autentico promotore di I’ll Take My Stand. La sua visione del Sud, specie di Eden americano, coincideva con un’estetica:
“Soltanto in una società agricola c’è speranza per una vita armonica, dove le arti non sono un lusso da acquistare ma appartengono alla routine della vita quotidiana”.
Si intende, qui, l’arte-artigianato che ha forgiato le caratteristiche abitazioni del Sud; i canti che risuonano nel sangue; l’idea del poeta come conciatore di miti, ideale custode delle ‘radici’ e dell’identità di un territorio (demandata, oggi, a laute ambizioni enogastronomiche). A dire di Donaldson, soltanto in una società regolata dai favori della terra, legata alla natura delle cose, alla loro concretezza e al loro mistero, un artista può trovare il suo scopo, al di là del fatuo mercato, della fatalità del ‘successo’. Del Sud fece un’Arcadia. Alcuni continuano a sognarla.
**
Vecchio Mondo, insegnami la passione per la lentezza,
la quiete delle stelle che fissano il moto terreno
la pazienza dell’uomo privo di torbidi pensieri
il folle schianto rosso della nascita di un nuovo sistema.
Insegnami queste cose, vecchio Mondo, perché voglio
conoscere la via della tua bellezza, che attende e muta
come muta il sole: nessuna alba è tanto perfetta come quella
che promette un nuovo giorno all’uomo vittorioso su se stesso.
Insegnami, vecchio Mondo, un insegnamento diverso
da quello degli uomini vani – il canto senza dedizione,
verbo dal bronzo cavo – e allontana da me lo sgomento
di chi crede che il mondo debba passare.
Norma umana nulla insegna:
sii tu, vecchio Mondo, il mio insegnante
rischierò di non diventare stupido.
*
La Donna-Tigre
La Donna-Tigre è giunta da me
quando il crepuscolo era prossimo
e gli uomini sonnambuli. Tracciò una via
nella giungla: la seguii, stordito dal sogno.
Pallido è il volto della Donna-Tigre
ma i suoi occhi parlano e sono oscuri.
Nessuna bestia è agile quanto lei
lungo le rive del labirintico fiume.
La giungla è un luogo spaventoso
per l’uomo che caccia e per l’uomo che uccide
ma io non avevo paura di andare
lungo i sentieri aperti dalla Donna-Tigre.
Le labbra della Donna-Tigre sono sottili;
i suoi denti sono quelli di una fiera:
eppure ha morbide mani da ragazza
e il suo sangue batte, caldo.
Mi ha condotto in una radura –
luna involuta come edera –
due grandi bestie si sono issate
adulando il suo petto in amore.
La voce della Donna-Tigre è dolce:
la ascolto e non ho timore.
Ha accarezzato le fauci delle tigri:
ho posato le mani sul loro muso.
Tutte le cose della giungla sono mie
e le foglie creano una musica
insieme agli spiriti che gridano
lungo i colonnati di bambù.
Troppo dolce per umane arpe
mi ha torto il sangue e infiammato il cuore:
la Donna-Tigre cantava insieme
a me, dedita alla sua arte.
Baciò la bocca violenta della tigre
mi meravigliai che potesse baciarla…
ma ora le sue calde labbra sono sulle mie
e non mi importa se sono madide di sangue.
Viaggiatore, non curarti della mia tana
mondo, dimenticati della mia esistenza.
Voglio avere il cuore di una Tigre
perché so che la Donna-Tigre mi ama!
Donald Davidson
*In copertina: Andrew Wyeth, Winter 1946, 1946, North Carolina Museum of Art