Vengo dalle montagne. Nel mio DNA ci sono le cime dell’Altopiano di Asiago. Nei miei tratti trovano continuità i colori del popolo dei Cimbri, di ascendenza germanica e forse danese. Alle mie altitudini d’origine ho dedicato un libro, il mio canto d’amore alle resine e al silenzio del verde.
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Se i “dii” (plurale alla veneta) sono l’autoctono Mario Rigoni Stern e il collinare sardo Emilio Lussu, il profeta è il marittimo triestino Paolo Rumiz e il discepolo è montanaro Mauro Corona.
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Guardo poco la televisione: preferisco i libri. So che Mauro Corona è stato cacciato a pedate nel sedere dalla Rai perché ha detto qualcosa che non doveva dire. Ma so anche, per esperienza diretta, che Mauro Corona ha scritto tre libri bellissimi e uno brutto e cattivo, nonostante il titolo meraviglioso: Storia di Neve.
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A differenza del colto e liceale Paolo Rumiz (Liceo classico, con ogni probabilità), del “naturista” Mario Rigoni Stern e dello “storico” Emilio Lussu, la scrittura del ruvido intagliatore Mauro Corona è lineare e ramificata: i rimandi di libro in libro saltellano come i sassi lisci lanciati di taglio sul pelo del fiume. Non un gioco di matrioske ma un collegamento di aneddoti che vengono anticipati in un volume e poi sviluppati in un altro. Alle volte funziona, altre invece sembra di fare il “brodo con gli ossi”.
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È appena terminata la Prima Guerra Mondiale: siamo nel 1919 ad Erto, il Paese di Corona. Neve Corona Menin è l’unica bambina ad essere nata in quell’inverno gelido. La bambina non risenta assolutamente del freddo e preferisce rimanere scoperta piuttosto che avvolta nelle coperte. Data la sua sopportazione al freddo e il fatto che abbia una pelle candida come la neve, i neogenitori decidono di chiamarla Neve. Neve sembra abbia poteri magici: un giorno le portano un bimbo con la febbre. Lei gli passa una mano sul corpo e lui guarisce. Il papà intuisce il business e con l’aiuto di alcuni compaesani inscena falsi malanni da far guarire alla piccola, attirando così una schiera di ammalati speranzosi, a cui chiede ingenti somme per miracoli che, nella maggior parte dei casi, non avvengono. Neve però ha un cuore e si innamora di un ragazzo, Valentino, che però non potrà mai amare: quando lui le si avvicina, lei si scioglie come neve al sole. Storia di Neve è stato l’ultima Corona che ho messo in testa. Poi ho smesso. Non per la lunghezza – comunque molto corposa – ma per una forma di voltastomaco: tanta, troppa cattiveria, horror, sadismo, bestialità e avidità. Morti ammazzati, morti agonizzanti, morti morti e morti che vivono. In mezzo anche una strega, tanto alcol e tanto maschilismo, rude e violento, incapace di provare un sentimento.
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I fantasmi di pietra invece è bellissimo: una “Spoon river” in chiave furlana che si è fermata il 9 ottobre del 1963 quando una parte del monte Toc è finita dentro al Vajont. Mauro Corona cammina tra le ombre del passato, e immagina, ricorda e scrive le persone che lo abitavano. “La storia di Vittorio Corona, che aveva scalato il campanile di Erto solo con mani, piedi e coraggio, ci entrò nella testa e non si mosse più. Tutti i giorni provavamo a salire un po’ più in su ma, dopo qualche metro, la paura ci faceva tremare le gambe, gli avambracci s’indurivano, dovevamo tornare a terra” scrive Mauro.
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Anche L’ombra del bastone è una perla, nel suo italiano sciancato, senza doppie, come si usa in dialetto. C’è il vino, naturalmente: “Tacai a tremare in tutto il corpo e sudare acqua fredda perché avevo visto sul muro la mia morte. A quel punto l’oste si n’accorse e mi chiese cosa avevo che stavo così male. Gli risposi borbottando che forse era stato un colpo di caldo e che mi portasse il vino che tutto sarebbe tornato a posto. Bevei in due colpi tutto il mezzo litro e ordinai un altro mezzo”. La genesi è di memoria manzoniana: all’autore capita tra le mani un quadernetto di color nero. La data è quella del 1920 e l’ha scritto Severino Corona detto “Zino”. La storia è quella di due orfanelli, Zino e il fratello Bastianin. Il primo decide di fare il boscaiolo, il secondo il fabbro. Zino si trova un amico, Raggio, che però ha una moglie di “larghe vedute” che seduce il ragazzo. Ma Zino, dopo aver pasteggiato, è coperto dai sensi di colpa. Raggio scopre la tresca e promette di “coparlo col bastone”. Il duello avviene in montagna, nei paraggi di una foiba. E finisce con Raggio che ci casca dentro. Zino discende in pianura, decide di andare a bere in un’osteria quando si trova davanti il bastone di Raggio. Lì capisce che l’ombra lo insegue, e decide di farla finita.
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Ne L’ombra del bastone vengono citati i nomi di alcuni abitanti di Erto, tra cui Neve Corona, il vecchio boscaiolo maestro di Zino, Santo Corona della Val Martin, il più grande dei boscaioli, colui che è capace di recidersi di netto una striscia di peli dal polpaccio senza intaccare la carne. E che è il protagonista de Il canto delle manére.
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“Maggio è mese di malinconie per chi sta lontano da casa. Maggio e aprile è mesi che ti mostra i tempi di quando si era bambini e si correva per prati e boschi” racconta Mauro Corona.
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Santo è l’ascia, il cecchino, il chirurgo. E si sente il migliore. Così decide di sfidare il suo maestro, Augusto, che lo lascia vincere. Augusto però viene ammazzato da un gruppo di balordi e Santo vuole vendicarsi. Alla fine, solo alla fine, riesce nel suo intento ma perde la vita nella sfida con il vecchio faggio della val da Diach che nessun boscaiolo ha mai osato sfidare. Dopo la sua morte gli entrano in casa per dare una sistemata. Da sotto le tavole del pavimento si scorge una botola. “Era quel che restava del tesoro di Santo Corona della Val Martin, delle sue fatiche, della sua rabbia, del suo dolore, della sua vita sbagliata”.
Alessandro Carli