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Musica
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Come gli orologiai ormai scomparsi, o gli edicolanti che stanno chiudendo uno dopo l’altro. Quando hai a che fare con Riccardo Sinigallia ti vengono in mente le professioni che stanno scomparendo, per esempio quella degli scrittori, degli insegnanti o dei cantautori. L’intelligenza artificiale sostituirà quasi certamente – chi scrive si ostina a credere che non ci riuscirà del tutto, ma può darsi che si tratti della stessa speranza di sopravvivere dei dinosauri – il talento col metodo, il genio con l’applicazione, la fantasia con l’imbroglio, ma non riuscirà ad avere lo “scalpo” di scrittori inafferrabili come Sergio Nelli e Domenico Rea (per citarne due che dai pozzi dell’irregolarità estraevano incanto) o di cantautori come Riccardo Sinigallia, appunto.
Di solito di fronte a esegesi come queste reagisce col suo signorile disincanto, ma proveremo lo stesso a spiegare perché alla creazione surrogata sopravviveranno soltanto gli artigiani come lui. Gli artigiani della musica, della parola, dell’arte e della scienza (ne sono molti, non credete). E Sinigallia è un artigiano puro, uno che mette le mani su ciò che è rotto e lo ripara, su ciò che è imperfetto e lo migliora, su ciò che è indegno e lo riscatta. Lo spiega lui stesso nei suoi testi che ricordano David Foster Wallace («Suonando / Mi sono accorto che cambiavo / Che d’altronde pretendevo che ogni mia canzone / Fosse esattamente uguale a come me la immaginavo / Che i musicisti intorno a me / Questo sistema non lo avrebbero mai concepito / E ci guardavamo tutti con sospetto / Nel dubbio di chi fosse veramente a non aver capito / Che passavo le ore / Sulle stesse 16 misure») e nelle rare interviste che rilascia («…perché parlo poco? Perché sono un bottegaio, uno che sta lì e prova a fare cose autentiche in mezzo a un plotone di repliche» da un’intervista in occasione dell’uscita del suo ultimo album Ciao Core), ma soprattutto lo testimoniano dischi, composizioni, curatele e produzioni musicali, rinunce e scelte compiute nell’arco di una carriera avara per scelta, autentica per vocazione. Del resto, sono proprio questa intransigenza e questa severità a costringere, chiunque parli di Riccardo Sinigallia, ad alzare le mani, a cambiare tono, ad assumere un’altra postura, come si fa quando si parla di cose serie, di quegli argomenti in cui le parole pesano un po’ di più.
Il cantautore romano ha costruito (con ogni probabilità anche questo verbo lo manderà in collera) la sua carriera sul coraggio, sul segno aritmetico della sottrazione. Come quei meccanici ai quali non si rivolge nessuno per l’eccessiva precisione e per l’esosità dei loro conti, ma appena lasci l’officina vicina da cui ti sei rivolto comprendi a pieno il senso del detto «mangi come spendi». È lui stesso a confessarlo, a scuotere l’ipocrisia su cui erge il mondo della discografia italiana che l’ha sempre vissuto come un “diamante pazzo” («A me sembra che in genere, il mondo dell’arte e non solo quello della musica, abbia rinunciato all’etica del metodo e del messaggio, che il modello verso cui tutti guardiamo è piuttosto livellato verso il basso, talvolta bassissimo, rinunciando così alla missione principale della musica che è quella della condivisione della bellezza, della trasmissione di un’emozione…» sempre dalla stessa intervista). Sull’analisi dei suoi testi si redigono tesi di laurea (sempre troppo poche), romanzi e saggi di varia natura, ma la personalità e la straordinaria scomodità di Sinigallia dovrebbero normalmente rappresentare un modello per le nuove generazioni di scrittori e musicisti («A volte un partigiano sa / Il rischio della vita / Di perdere gli affetti / Le cose del mondo / Il suo amore / Per almeno un grammo / Un altro bar / Per dj set, per pubblicitari / Per ironia e per infelicità»), poiché dentro questo orologiaio venuto al mondo per aggiustare musica – la sua e quella degli altri – convivono tutte le lampade che nessuna intelligenza artificiale potrà mai accendere, peggio ancora sostituire. E da cosa ci si accorge che il suo senso naturale per la musica (che poi «è matematica più o meno consapevole», diceva John Nash) e la sua poesia così rarefatta, così lontana dalle tentazioni della semplicità, sono doti artigianali e non ingranaggi meccanici oleati dalla retorica? Da come vive, da come parla, da come si nasconde e riemerge (di rado), e dalle canzoni d’amore. Sì, d’amore. Che Sinigallia scrive con una “consapevolezza ulteriore”, che forse in Italia hanno saputo raggiungere solo Fossati e De Gregori. «Ho cercato tanto la felicità / Al limite dei sogni per un’eternità / Ho visto così bene da non poterne più / Niente mi fa quanto mi fai tu / Niente tocca dove mi tocchi tu / E so che può sembrarti stupido / Dirtelo suonando per anni a testa in giù / Ma niente mi fa come mi fai tu». I sentimenti di Sinigallia non sono trasparenti, nel senso più abusato e popolare del termine, sono piuttosto un nido di vespe in cui è pericoloso infilare le mani (la complessità di alcune sensibilità risente di quella del primo De Gregori), ma una volta penetrati si capisce meglio la gioia che l’autore prova nel mettersi al servizio della normalità. «Sarei stato forse meno soggetto / Agli attacchi / Della mia mezza età / Sarà così / Che ci si muove sulla sabbia gli affetti / Le spiagge libere, gli stabilimenti / Mentre aumentano / Le difficoltà».
Per capire meglio chi è Riccardo Sinigallia, e perché lo celebriamo su un magazine di pensiero e non prettamente musicale, potrebbe essere utile un aneddoto accorso con Vincenzo Mollica (in Tg1 del settembre 2018). Quando durante l’intervista per l’uscita di Ciao core, il cronista dei sentimenti e dei complimenti facili rivolgendosi al pubblico disse «…amici qui siamo di fronte a un musicista vero, a uno col quale bisogna stare attenti a cosa si dice». Un artigiano, che come tutti gli artigiani – quei pochi in circolazione – misura accuratamente l’inflazione delle sue produzioni, come fossero pozioni e non proposte, anche quando fa cover (emblematici i casi in cui ha “resuscitato” Figli delle stelle di Alan Sorrenti e Malamore di Enzo Carella e Pasquale Panella), quando si lega a progetti coltissimi (come quello dei Deproducers, che nel 2016 raccontavano la vita segreta delle piante con Stefano Mancuso e nel 2019 il DNA con Telmo Pievani, arrivando anni prima di giornali e televisione su temi poi divenuti planetari) o quando si dedica alle musiche da film (che per caratteristiche intrinseche gli consentono di manifestare il suo vasto repertorio).
Dieci anni fa cantava
«Non siamo dei non siamo macchine
Non siamo soli adesso qui
Ma tu mi parli in una lingua che non so capire
Ed è difficile anche solo dirsi sì
Un lampo un inciampare un battito
È tutto chiaro avanti a noi
Ma poi per la paura di conoscerci
Ti dico cosa voglio
Dimmi cosa vuoi».
Allora sembrava un alieno. Oggi è riconosciuto come uno degli artisti più complessi, completi e competenti che le scuole autoriali italiane abbiano mai prodotto. Finalmente, anche se tutta questa luce, tutto questo ripensare a lui come a uno che ha certamente “più dato che preso”, tutta questa generosità retroattiva, non fanno per un artigiano. Per uno che apre bottega solo se gli va. Una libertà che si paga carissimo, ma che torna sotto forma di luce quando ci si guarda allo specchio.
Davide Grittani