06 Dicembre 2017

“Quello lascialo sempre entrare”: Pasternak il poeta fondamentale del ’900. Intervista alla traduttrice del “Dottor Živago”

Boris Pasternak è l’artista centrale del Novecento. Lo è per l’opera, ovviamente. Pasternak è tra i poeti più grandi del secolo – basti leggere il poemetto Le onde – e uno dei prosatori più delicati. Il salvacondotto e soprattutto Il dottor Živago si sono impresse come opere indelebili, per quanto imperfette, perché ci sembra che, dal cuore della narrazione, ci sia svelato il segreto ultimo del vivere. Pubblicato, attraverso un escamotage da ‘spionaggio’ editoriale, da Feltrinelli nel novembre del 1957 – la vicenda è ricostruita dettagliatamente da Paolo Mancosu in Živago nella tempesta, Feltrinelli, 2015 – “Živago” va ben al di là del romanzo, come ha ricordato proprio Feltrinelli a Pasternak in una lettera rivelativa: “Živago ha impartito una lezione indimenticabile. Ora so che ogni volta che non saprò come andare avanti potrò tornare a Živago e imparare da lui la più grande lezione di vita. Živago sarà sempre accanto a me quando queste cose mi sembreranno perse per sempre, per aiutarmi a ritrovare i valori semplici e profondi della vita” (5 settembre 1958). Boris Pasternak non è il poeta più grande del Novecento – non c’è gerarchia nell’assoluto, ma più vasti di lui sono Saint-John Perse, Thomas S. Eliot, Rainer Maria Rilke – e non è il più grande romanziere – sono insormontabili James Joyce, Marcel Proust, Franz Kafka, Thomas Mann, William Faulkner. Eppure, è l’artista decisivo del Novecento, il più emblematico. Pasternak, che è stato nel cuore della Storia fino a udirne l’ossessivo rimbombo, incarna il poeta che evade dalla Storia, che è ben al di là delle cronologie e delle grammatiche del tempo. Come scrive Angelo Maria Ripellino – che riteneva, con una certa giustizia, che le poesie fossero la quintessenza di Pasternak e lo ‘Živago’ un’opera ‘minore’ – il massimo interprete di Pasternak in Italia, “Pasternak si ritrasse sin dagli inizi in una sua gelosa solitudine… e negli anni tumultuosi della rivoluzione si tenne ancora in disparte, diffidando dei temi politici e di quella poesia tribunizia in cui s’era invece tuffato Majakovskij con tutta l’anima. […] Egli passava nel folto delle battaglie, che avrebbero mutato la Russia, come un sonnambulo, destandosi a tratti per annotare con voce assonnata, non le gesta del popolo, ma i prodigi del cosmo”. Falciato dalla Storia, ma invitto – nel 1958, dopo aver ricevuto il Nobel per la letteratura, che rifiuterà, accusato di “tradimento nei confronti del popolo sovietico”, scrive, con candida fermezza, all’Unione degli scrittori, “mi potete fucilare o deportare, potete fare quello che volete, vi perdono in anticipo” – Pasternak attraversa tradizioni e uomini – allievo di Aleksandr Skrjabin, amico di Rilke, passò la Seconda guerra a difendere l’Occidente traducendo Shakespeare e Goethe – con la pazienza di un geniale testimone, costellato da versi memorabili (“frequentando il futuro nella vita di ogni giorno/ non si può non incorrere, infine, come in un’eresia/ in un’incredibile semplicità”), consapevole che il tempo e le oscurità passano, falangi di falene impazzite, ma la poesia resta, “sempre eguale a se stessa, più alta di ogni Alpe d’altezza celebrata”, come disse, sonnambulo, a Parigi, nel 1935, “essa giace nell’erba, sotto i nostri piedi, e bisogna soltanto chinarsi per scorgerla e raccoglierla da terra; essa sarà sempre troppo semplice perché se ne possa discutere nelle assemblee; essa rimarrà sempre la funzione organica dell’uomo”. Ora, 60 anni dopo, abbiamo, finalmente, una nuova traduzione, definitiva, del Dottor Živago (Feltrinelli 2017, pp.632, euro 19,00), quella compiuta da Serena Prina – già uscita in una ‘edizione speciale’ del cinquantesimo, nel 2007 – straordinaria traduttrice di Dostoevskij, di Lev Tolstoj, di Michail Bulgakov, di Nikolaj Gogol’, insomma, tra le grandi interpreti dei classici russi in Italia. Per me, da par mio, è ‘la neve di Pasternak’, vezzeggiativo che le ho affibbiato quando l’ho invitata al dialogo.

Parto in quarta. Angelo Maria Ripellino ritiene ‘Živago’ l’opera meno riuscita di Pasternak. Il vero Pasternak è nelle poesie (alcune delle quali, come si sa, per altro, stanno in appendice al romanzo). Lei concorda con questa opinione? Come si colloca ‘Živago’ nella grande tradizione del romanzo russo, quali i modelli principali?

“Parto dall’ultima di queste sue domande, per ricordare come l’inizio di Živago sia una diretta citazione dell’incipit della Guardia Bianca: il figlio (in Bulgakov i figli) al funerale della madre, con tutte le implicazione che quest’immagine potente poteva avere nella Russia di fine secolo (per Pasternak) e di una Russia al cospetto della rivoluzione (per Bulgakov). Živago si inserisce dunque prepotentemente, e consapevolmente, in quella tradizione di romanzi che si interrogano su ‘Dove va la Russia?’, tra i quali non posso non citare Le anime morte di Gogol’. E questa domanda a proposito di ‘dove va la Russia?’ per Pasternak, grande poeta, si fonde con il suo interrogarsi su ‘dove va la lingua russa?’. A parer mio Živago rappresenta il contributo, in prosa, a un ragionamento sul destino della poesia nel ’900”.

Poi. Che tipo di cambiamenti sostanziali ha operato rispetto alla ‘canonica’ traduzione di Zveteremich? Che linguaggio è quello del Pasternak prosatore?

“Quando Zveteremich, con grande coraggio e intuizione, insistette con l’editore Feltrinelli e contribuì in modo sostanziale alla decisione di pubblicare Živago, si trovò ad affrontare la traduzione di un’opera estrememente complessa con pochissimo tempo a disposizione. Le vicende che seguirono sono note. La primissima traduzione venne revisionata dalla Olsufieva e da Socrate, al quale si deve la traduzione delle poesie di Živago, e solo successivamente, negli anni ’90, Zveteremich poté ritornare sul testo in occasione della pubblicazione del romanzo nei ‘Meridiani’ Mondadori. Ciascuna di queste fasi fu naturalmente accompagnata da un ‘passaggio’ redazionale, e tra il testo originario e il lettore si sono progressivamente interposte varie voci: il risultato è un testo ‘perfetto’, levigato e scorrevole ma, almeno in qualche punto, non del tutto coincidente con lo spezzettarsi della frase pasternakiana (soprattutto nella seconda parte del romanzo), dove il testimone della rivoluzione quasi non trova più parole. Per quel che mi riguarda, ho avuto dalla mia il tempo (e quindi la possibilità di affrontare anche la traduzione dell’ultimo capitolo del romanzo, dove sono raccolte le poesie di Živago) e una redattrice di grande sensibilità, Annalisa Agrati. Tra il testo russo e il lettore c’è dunque una sola voce e la possibilità di cogliere il variare delle sue intonazioni senza subire interventi esterni. E di intonazioni, in Živago, ce ne sono davvero tante”.

Tra la prosa del Salvacondotto e quella di ‘Živago’ pare esserci, davvero, in mezzo, un mondo, una rivoluzione. Come influisce, a suo avviso, la storia nella scrittura di Pasternak?

“In Živago c’è la grande Storia, che si intreccia alla storia dei suoi personaggi, all’incrociarsi e allo smarrirsi dei destini in un’epoca inquieta. Ma, come ho accennato, c’è anche la storia di una lingua, soprattutto letteraria.

Pasternak
Leonid Pasternak, ‘Boris Pasternak mentre scrive’, 1919

Si parte dalla lingua anticorussa del canto funebre che apre il romanzo, si passa attraverso pagine gogoliane, a citazioni dirette di Puškin, Tolstoj, Tjutčev, Blok, si approda all’impatto con la nuova lingua sovietica, fatta di acronimi e apparente dinamismo, si sprofonda nell’afasia di un poeta che sembra non trovare più parole. Il tutto si intreccia alla lingua della natura e dell’amore tra Jurij e Lara, nella quale si manifestano le immagini caratteristiche della poesia pasternakiana. L’ipotesi finale proposta da Pasternak è quella di un ritorno a una lingua primigenia, conservatasi nel profondo della Russia e della quale nel romanzo è portatrice la figlia abbandonata di Lara e Živago. Il poeta non poteva certo immaginare cosa sarebbe invece successo alla lingua russa nel giro di pochi decenni”.

Nella Nota lei definisce Živago uno “jurodivyj che in silenzio attraversa mezza Russia, e che poi in silenzio siede in disparte nei salotti”. Lo jurodivyj è una figura canonizzata dalla letteratura russa: ce la spieghi.

“Il protagonista si chiama Jurij Andreevič e il romanzo ha inizio alla vigilia della festa del Pokrov, dell’Intercessione della Vergine, che si celebrava il primo (14) ottobre per festeggiare la comparsa della Madre di Dio al beato Andrej Jurodivyj. È Pasternak stesso, quindi, a sottolineare con forza il collegamento profondo tra il suo protagonista e, appunto lo jurodivyj, il cosiddetto ‘folle in Cristo’, colui che rinunciava a un ruolo sociale integrato in cambio della possibilità di denunciare gli abusi e le ipocrisie della società”.

Divago. Qual è il russo che le ha dato più gioia tradurre? Perché? E poi: perché la letteratura russa?

“Quando si parla di gioia nel tradurre si esclude Dostoevskij (il più amato), perchè lì c’è solo passione e tormento e fatica. Quindi direi Gogol’, con il suo genio assoluto, l’umorismo travolgente, il suo riso tra le lacrime. Perché il russo? Forse perchè un mio vicino di casa, un pianista russo emigrato, Il’ja Grinshtein, veniva a sentir musica con mio padre, e per ricambiare si offrì di insegnare il russo ‘alla bambina’. Così mi insegnò l’alfabeto, ogni pomeriggio salivo al piano di sopra, leggevo La signora col cagnolino e non capivo una parola, ma lui si beava della mia lettura, mentre la vecchia zia preparava il tè col samovar e la Russia mi entrava nel sangue. O forse perché una volta i ragazzini avevano il tempo di leggere, e quando si comincia a leggere i russi, non si può più smettere”.

Ultima. Che valore ha, oggi, la testimonianza poetica di un autore come Pasternak?

“Le risponderò raccontando un episodio forse poco noto su Pasternak e Bulgakov. Quando quest’ultimo, malatissimo e quasi morente, accettò di incontrare il poeta, i due rimasero a lungo a conversare, da soli. Poi Pasternak se ne andò, e la moglie di Bulgakov ricorda che Michail Afanasevič le disse: ‘A quello, lascialo sempre entrare’. Non ci fu un secondo incontro, pochi giorni dopo Bulgakov morì. Ma Pasternak è rimasto davvero un autore che bisogna sempre ‘lasciar entrare’”.

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