20 Marzo 2020

“Mentre tutte cade”. Andrea Caterini e Andrea Di Consoli raccontano una poesia italiana contemporanea. Valerio Magrelli, il pudore e la nevrosi dell’orologiaio svizzero

Io abito il mio cervello
Come un tranquillo possidente le sue terre.
Per tutto il giorno il mio lavoro
È nel farle fruttare,
Il mio frutto nel farle lavorare.
E prima di dormire
Mi affaccio a guardarle
Con il pudore dell’uomo
Per la sua immagine.
Il mio cervello abita in me
Come un tranquillo possidente le sue terre.

Valerio Magrelli

da Ora serrata retinae, Feltrinelli, 1980

*

Difficile immaginare un poeta oggi in Italia più celebrato di Valerio Magrelli. Forse suo unico pari è – pure con una poetica agli antipodi – Milo De Angelis. La fortuna di Magrelli è cominciata già dall’esordio di Ora serrata retinae, nel 1980. Fin da subito Magrelli ha costruito una sua specifica immagine poetica, che recuperava una lingua chiara ma per nulla aulica e musicale. Piuttosto si affermava per il suo dettato freddo, quasi distaccato, con un vocabolario tra l’uso comune e quello scientifico. Una poesia potremmo dire fintamente saggistica, apparentemente filosofica, che con gli anni diventerà spesso una poesia a tesi. Ma in cosa si caratterizza esattamente? Io credo che Magrelli metta ogni volta in campo due forme espressive, che sono poi due atteggiamenti. Da una parte la fiducia incondizionata nella ragione, che si muove quasi esclusivamente per nessi logici. Da questo punto di vista diremmo che Magrelli è un poeta cerebrale; un poeta che fa della stessa poesia il tema principale del suo ragionamento. Dall’altra parte è l’uso dell’ironia. Ecco, l’ironia rivela molto anche di quella fiducia nella ragione. Voglio provare a fare un ragionamento. E se quell’ironia non fosse che l’altra faccia della ragione? Cosa intendo? Che ciò che la mente ha creato è un sorta di impalcatura, o di grande geometria, come dire qualcosa che si costruisce come strumento di protezione, prima che di conoscenza e percezione del reale. L’ironia, all’inverso, quella costruzione la deride nel suo stesso farsi, nel suo stesso autoalimentarsi. Sono convinto di una cosa, che Magrelli sfrutti la ragione e l’ironia per nascondersi, per mascherare una paura; una paura che potrebbe aprire una voragine, un baratro. Magrelli ha paura della sua stessa interiorità, o di quello che la sua interiorità potrebbe mettere in luce. Il suo è un meccanismo difensivo: esteriorizza con il ragionamento e l’ironia uno stato che, se interiorizzato, creerebbe sgomento, e infatti parla di “affacciarsi” anche se sta “guardando il suo cervello” – cioè, potremmo suggerire con un’immagine grammaticale, rende un’azione intransitiva transitiva. E lo capiamo da questa poesia, tanto rappresentativa da sembrare iconica, in quei due versi che sono la chiave, il cuore di tutto il componimento: «Con il pudore dell’uomo/ per la sua immagine». L’atto di guardare ha messo fuori ciò che è dentro. Ma quello che si osserva non è propriamente la cosa – il «cervello» – ma la sua immagine, ovvero qualcosa che si è prodotto proprio per mezzo dell’osservazione. Ma perché a guardare quell’immagine si prova «pudore»? Il pudore è qualcosa che rimanda a un timore, di nuovo a una paura. Ma non solo. Ha a che fare anche con la vergogna. Ciò che più si teme è anche ciò di cui si prova vergogna. Allora, forse, il tentativo segreto di Magrelli è quello di oggettivare (portandolo fuori da sé, e nella distanza congelarlo) qualcosa che, visto dall’interno, sarebbe insostenibile allo sguardo – perché non lascerebbe alcuno scampo.

Andrea Caterini

*

Su tutta l’opera di Magrelli è evidente l’influenza della letteratura francese, specialmente della sua ala più controllata, distanziante, cerebrale, autoptica – penso, per esempio, all’”école du regard”. Quando nel 1980 uscì la sua prima raccolta, Ora serrata retinae, introdotta magnificamente da Enzo Siciliano – che aveva questa dote straordinariamente generosa di scoprire nuovi scrittori – Magrelli aveva appena 23 anni. Un dato sorprendente, a pensarci bene: a soli 23 anni un poeta entrava di prepotenza nel canone poetico italiano. Nel 1980 la poesia italiana era ancora nel pieno dei tumulti leggendari e un po’ sudamericani di Castelporziano; tutte le coordinate erano saltate e, a prevalere, era il caos, la “deriva”, il policentrismo stilistico. L’opera di Magrelli gettò acqua sul fuoco. E fu un ritorno non tanto all’ordine, quanto alla logica, alla geometria, alla lucidità – a una sorta di distacco emotivo, per non dire ideologico. Il poeta Magrelli non era più “impegnato” in niente se non a far fare una bella fisioterapia riabilitativa a una poesia che si era rotta le ossa a furia di urla, lamenti e sovversioni. Il miope Magrelli si rivelò immediatamente come il poeta con la vista migliore. Improvvisamente erano scomparsi gli affastellamenti, le bruciature, gli estremismi, gli esibizionismi, gli istrionismi, le fratture della poesia che circolava in quegli anni. Mentre tutti si agitavano molto, il giovane Magrelli, alla maniera di un quieto “possidente” di terre, osservava senza romanticismi i meccanismi del pensare, dello scrivere, del vivere – proprio come un silenzioso, ancorché nevrotico, orologiaio svizzero. Questa poesia è semplicemente stupenda, perché tratta il cervello come una terra da far fruttare. In assenza di moti romantici, di impeti sentimentali – della famigerata triade “febbre, furore e fiele” che aveva segnato gli anni ’70 – Magrelli riduce ai minimi termini gli obiettivi della poesia, sostanzialmente all’analisi, anche ironica, delle dinamiche “meccaniche” del cervello. Fu, appunto, un azzeramento emotivo, ma anche una rifondazione, una riuscita e clamorosa pulizia dello sguardo. Tuttavia in questa poesia emerge anche una dissociazione non di poco conto. Magrelli dice di abitare il suo cervello, e conclude che il cervello abita in lui. Insomma, tratta il cervello come un corpo estraneo, come un universo a sé, sganciato dal resto del corpo. È, chiaramente, l’ammissione di una dissociazione, ma anche di un iper-cerebralismo, di un’elefantiasi della cerebralità rispetto alla “corporalità”, che è, probabilmente, la parola-chiave della poesia degli anni ’70. Fu un raffreddamento clamoroso, che fu accolto con entusiasmo per lo stile sorvegliato, per la felice geometria dei versi, per le immagini nitide, ma anche per il pudore con cui tutto questo si esprimeva. Non sfuggiranno al lettore i versi sul pudore di chi guarda i frutti della propria terra – del proprio cervello – facendoli coincidere tout-court con la propria immagine. Dopo tanto cuore e tanta pancia, con Magrelli tornò il cervello. E fu una vera e propria riabilitazione del pensiero della poesia, della sua meccanica segreta.

Andrea Di Consoli

*In copertina: Valerio Magrelli in un ritratto di Dino Ignani

 

Gruppo MAGOG