14 Maggio 2018

Prima di ascendere bisogna mangiare il fango. Il Risorto risuona in Rimbaud e schianta le velleità del prossimo Governo (!)

La domenica parlano – con ispirazione – i preti. Il lunedì, da incosciente, metto il cranio dentro la liturgia domenicale. Screziando, da dis-graziato, i testi. La liturgia la trovate, per comodità, qui. Io uso il Nuovo Testamento interlineare, bisciando tra italiano, greco e latino. Pigliate questi come appunti sul margine sfinito, come punti d’appoggio – o di rovina – sulla roccia.

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Volgarizzando l’ascesa – questi, ad esempio, sono giorni di patetica ‘ascesa al Colle’ – scordiamo una cosa. Che l’ascesa è possibile dopo una catabasi: si arriva al cielo perché si è sfondato il fango con il grugno, perché siamo stati sfigurati dagli inferi. Paolo, come sempre, è di lisergica – non certo ‘liturgica’ – violenza:Ascese che cos’è se non che discese nelle zone inferiori della terra?” (Ef 4, 9). Chi ascende non è un dio dalle vesti regali, un supereroe hollywoodiano: i testi evangelici – di crudo, ostico realismo – insistono su “incredulità e durezza di cuore “ (Mc 16, 14) dei discepoli – da Dodici, dopo il sacrificio di Giuda, agnello di ogni tradimento, diventati “Undici”. Chi può credere nell’uomo che muore, risorge, ascende al cielo? Chi può abitare l’innaturale? Abbiamo amato Gesù come uomo – questo ci basta. Sembrano dire i discepoli. Sembrano sperare che Gesù sia solo per loro, memoria intima dell’indimenticabile. Perché Egli, l’amico, deve diventare Dio, di tutti, per tutti, irraggiungibile come tutti gli altri dèi? C’è una umana tenerezza in questa incredulità – disintegrata dalla fame di Cristo. Gli Atti degli apostoli, il romanzo dell’incredibile, devoto, che spiana gli enigmi, inizia con un incipit che confonde: Gesù risorto “per quaranta giorni era apparso loro”. Per quaranta giorni – una quarantena che sana e squalifica i quaranta giorni nel deserto, presenza che aliena l’assenza, che sana anche questa nostra quarantena – il Risorto sta con i suoi, “insieme a tavola” (At 1, 3-4). Il Risorto si presente sempre “mentre erano a tavola” (Mc 16, 14), durante il convivio, la tratta del cibo, la carnalità. Il Risorto, però, è violento: “chi non crederà sarà condannato” (Mc 16, 16). Sembra non esserci implicazione di perdono, complicanza della purezza, ora. Il Dio che ascende non ha assoluzioni ma è patrono di assoluti. L’ascesa di Gesù è speculare all’ascesi dei suoi: il cristiano devolve la sua identità a Dio, il grande divoratore dei nomi. Da allora siamo “un corpo e uno spirito” (Ef 4, 4), siamo uno, insieme, in “umiltà, dolcezza e pazienza” (Ef 4, 2) perché esiste “un Signore, una fede, un battesimo” (Ef 4, 5). L’unità dei cristiani è segno dell’unità divina: Dio non si moltiplica in dèi finché i fedeli sono uno nel suo nome, sacrificano il proprio nome per il Suo. Ascesi significa scartavetrare la propria identità, fare macello di sé, darsi. D’altronde, l’unica vita possibile dopo l’ustione di Cristo è questa: “Andate per il mondo e annunciate il vangelo a tutto il creato” (Mc 16, 15). Ascesi è micidiale intrusione nel sottosuolo, nelle interiora della terra, non è astratto tour fuori dal mondo. “I credenti”, infatti, “maneggiano i serpenti”, le creature che cuciono i sotterranei al celeste, e “se bevono il veleno, non muoiono” (Mc 16, 18). Forse c’è una sintonia tra l’ascesi e la veggenza detta da Arthur Rimbaud all’amico Paul Demeny: “il primo studio dell’uomo che vuole farsi poeta” è la catabasi negli inferi di sé, “cerca la sua anima, la scruta, la saggia, la impara”, perdendo se stesso, crepando tra “le cose inaudite e ineffabili”, “esaurisce in se stesso tutti i veleni, per conservarne la quintessenza”. Ma chi, oggi, sa “scacciare i demoni nel mio nome”, sa “parlare lingue nuove” e “risanare gli infermi imponendo loro le mani” (Mc 16, 17-18)? Nel predominio dei demoni (ci sono, li vedete?), probabilmente, è il poeta, condannato all’indifferenza, l’indifeso, ad avere parola di guarigione per gli altri. D’altronde, il cristiano muore a sé per la salvezza di chi lo odia, muore per Dio. (d.b.)

 

 

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