09 Maggio 2023

“Atlante della fine del mondo” non è un romanzo, ma un bolide, un libro di prepotente bellezza

Immagino “Atlante della fine del mondo” come un bolide, e che quel bolide, abitato da Casimiro Boboski (protagonista che appare e scompare nel libro, figura fantastica e mite), viaggiando sulla superficie terrestre, a un certo punto acquista una velocità dirompente ed esce dalla sua rotta, proiettato nell’atmosfera, per proseguire sulla luna e sugli altri pianeti il suo racconto, fino a descrivere le stelle, il buio, la luce oltre il buio, il buio oltre la luce, la materia irraggiungibile del creato, lo spazio indefinito e senza tempo, lo spazio senza fine delle altre galassie.

Lo stesso Davide Morganti, autore di “Atlante della fine del mondo” (opera narrativa colossale, composta di cinque volumi: Africa, Asia, Oceania, America, Europa, contenente un racconto per ogni nazione), fa entrare a pagina 697 la parola assoluto, proprio quando ci si era rassegnati a pensare Boboski come un Bugs Bunny di un cartone animato di qualche anno fa, che corre a sorpresa attraverso i quadri di un museo, finendo in fuga nelle tele dipinte e percorrendole una a una, per sottrarsi al fatidico-buffo cacciatore che lo insegue.

Eppure, la lepre (o coniglio che sia) non viene fuori a caso, è quella che, sottraendola alla favola di Esopo, e sostituendola ad Achille, non raggiunge mai la tartaruga, come nel famoso paradosso di Zenone. Così pure in questo iperbolico, metafisico, realistico, visionario, picaresco, moderno, postmoderno, brillante, cupo, ossessivo, comico, drammatico, critico, viscerale, rigoroso, rutilante, lineare, espressivo, caustico, satirico, “Atlante della fine del mondo”, dove Boboski, pur colmando tutta la distanza che lo separa dall’arrivo, non la completa mai quella distanza, resta sempre irraggiungibile, sebbene identificata con la terra, la nostra vecchia terra, forma solida dello spazio in cui viviamo e moriamo, forma dura e friabile del nostro rapporto infinito verso la realtà, il mistero, la sua estensione, fatti di pratica e trascendenza, nascita e morte, amore e odio, dolore e gioia. Tutto questo in chiaroscuro, per dire il realismo, la plasticità che rappresenta la vita, nonché il superamento necessario che occorre a vivere ogni giorno, a dover superare la vita stessa nei suoi modelli, nei suoi assilli, nel suo verbo come nella sua immagine, afferrandolo al volo il senso, caso mai dove nessuno lo vede! Perché di questo si tratta, non vorrei annoiare ma le questioni sono evidenti. 

Interrogo Davide Morganti sulla velocità, gli chiedo quanto è stato importante il suo lavoro di giornalista per scrivere il suo incredibile “Atlante della fine del mondo”, appena uscito dall’editore Marotta e Cafiero. Lui mi dice che è stato fondamentale possedere questa esperienza e riuscire a tradurla in qualità della scrittura, confidandomi che alcuni racconti li ha scritti di getto. Infatti, la velocità consente di entrare più in profondità nella vicenda del testo, consente di allargare lo spazio dell’invenzione, del divenire creativo. I gradi di realtà si allargano, la prospettiva si approfondisce, si amplifica il mondo nello sviluppo vorticoso della parola, la parola che sostiene. Perché non puoi scrivere un lavoro così, di migliaia e migliaia di pagine, centinaia e centinaia di personaggi, situazioni, episodi, senza quel motore della velocità che ti romba dentro, che ti spinge avanti, alla conquista dello stesso mondo che vuoi raccontare. Mondo alla fine, o in verifica se sia veramente finito, o stia per finire. Oppure mondo che si pone a una svolta: il viaggio che tutti dobbiamo compiere, a rischio di disintegrarci, senza le domande fondamentali sul vivere (chi siamo, perché il male, dov’è Dio), dal momento che un qualunque uomo pensa, o uno scrittore inizia a scrivere, a tastare sul computer, o prendere una penna.

Provo a rivisitare il libro che ho appena letto, lanciando immaginosamente sulla sua superficie spiegata ad affresco, raggi di avvistamento, in forma di meridiani e paralleli, le cui scie s’incrociano e producono scintille, lampi che per un attimo illuminano a giorno un’umanità immensa, così come immensa è la crosta terrestre. Le 730 pagine di “Europa” di Davide Morganti (per ora sono riuscito a leggere quello, il quinto volume) si spargono per tutta casa mia e oltre, vanno nell’infinito di una scena illusionistica (la parola Atlante introduce un’idea di rappresentazione), e io eseguo i miei lanci in piena libertà, per capire, per conoscere. Continuo quindi a sparare razzi di avvistamento sulle pagine di “Europa” di Davide Morganti, e riconosco per un attimo il cimitero delle isole Svalbard, e il corpo di Iselin che doveva essere sepolto. Si vede un cadavere abbandonato nella neve e lo sguardo del commissario Grondal che lo osserva, lassù, nel freddo glaciale dell’Islanda.

Si va avanti e intanto le pagine di “Europa” si spargono occupando, nella mia immaginazione, tutta casa mia e oltre, insistendo a scendere e a salire, inoltrarsi e permanere, davanti a porte o sostando sui ballatoi, senza trovare un punto finale. Boboski, il personaggio che compie l’immaginario viaggio, sembra uscito da un disegno di Escher, che entra in un mondo fantastico e paradossale in cui egli viene agito, più che agire. Il lettore stesso sperimenta da sé questa condizione. Il libro può continuare a prodursi da solo, non si sa per quale mistero o per quale energia, varcando confini e nazioni, e con essi, vicende, personaggi, quesiti, incontri, delitti, resurrezioni, enigmi, drammi, conferme. Io stesso, quando ho finito di leggere “Europa”, mi pareva d’essere inseguito da un’ombra, e di conseguenza mi giravo a cercare con la coda dell’occhio. Il libro continuava ad agire in me, continuava a crescere, raccontare, per la sua forza straripante di riversarsi ancora, in libero effetto. Del resto, come potrebbe essere altrimenti, si tratta di 730 pagine di racconti, che si inseriscono nelle 2204 di tutta l’opera. Libro-mondo, possiamo dire, chissà se qualcuno riuscirà mai a leggerlo tutto, come risulta impossibile visitare ogni parte della terra, se non in sogno, se non sognando, percorrendo a velocità supersonica la superficie terrestre, in modo da poterla abbracciare tutta.

Ma ecco che la grandezza di questo libro ha una svolta imprevista, e sta nel suo farsi minuscolo, entrando nel particolare, per dire la particolarità del mondo, e si fa piccolo per raccontare quanto è grande la terra, con i suoi confini, i suoi non-confini. Senso di un’opera così grande è di concepire il minuscolo, il particolare che è il seme, la bellezza che sta nel dettaglio. Chiamiamolo dettaglio, ma, fateci caso, una grande impresa letteraria ha bisogno di un punto particolare per esprimere tutta la sua forza, perché è in quel punto che assistiamo a una rivelazione, da cui si diffonde il senso totale dell’opera, che è il senso della totalità dell’essere. Occorre velocità per dirlo, che è in quel punto fatto di infiniti punti, mai raggiunto pienamente, mai coperto in realtà, che resta sempre ignoto. Inseguiamo, diamo vantaggio, ci pare di farcela, ma è ciò che non riusciremo mai a dire che si sposta con noi. In effetti la scrittura supera da tutti i lati il pensiero, supera!, assistiamo a questa rincorsa prima ancora che l’autore possa scriverla, registrarla in un barlume. Che velocità è?, come arriva a farsi scrittura?, forma? Anche la sua stessa concezione è dovuta a un lampo, un bagliore improvviso che in un attimo rivela l’intero mondo che si vuol dire, che sta dentro le centinaia e centinaia di pagine del libro, chiuso lì dentro e fatto per essere aperto e letto, conosciuto. Ma parte da lì, dalla fulminante intuizione di un attimo, di pensiero, tipica del pensiero. Perché un libro così, o lo scrivi in velocità (coprendo grandi archi di tempo in un solo arco; vastissimi archi in estensione, inarrivabili, archi fatti di tempo e di spazio), o non l’afferrerai più quel senso umano, che è grazia, grazia che si offre in fantasia e immaginazione, e tecnica, aggiungerei, capacità, inoltre, ambizione, per ultima, e umiltà nascosta, per ultima ancora, ma che agisce, produce. Visione letteraria che si realizza in significato. Una fecondità e una generosità straordinarie! Occorrono infinite e nuove parole per dirle. Da dove scaturiscono l’abbiamo detto, ma vengono in superficie, diventano fiume, viaggio che torna a sé, che ha in sé la sua origine, perché deve tornare nel luogo da cui è scaturito, ricomporsi, dopo essersi variegato in frammenti di vita, nell’io che ha generato e che contempla. Chi lo legge pensa che la letteratura è ancora viva.

“Il tutto nel frammento”, scriveva il grande teologo von Balthasar, ma non ci sarebbe verità in questo se non vibrasse al centro la parola, se la parola non s’incarnasse in un’idea che non è soltanto ideale, ma, appunto, esperienza, disincanto, sogno, suo sperdimento. In quel particolare risiede il tutto. Viene di pensare al racconto di Pirandello intitolato “Canta l’Epistola”, in cui un giovane ama un filo d’erba e per quello si sacrifica, per quello finisce e consacra la propria vita. La sua bellezza fa risplendere tutta la raccolta de “Le novelle per un anno”, è un lume che rischiara l’immensità. Avviene sempre: in un racconto solo, parte di una sterminata opera, o più di un racconto, risiede la chiave di lettura del libro, insomma rappresenta la pietra d’angolo dell’intero edificio. Ed è come se solo allora si togliessero i sigilli alla scrittura, o la si disancorasse dal suo fondale, sbloccandola, mettendola in moto, liberandola. Essa incomincia a correre lungo la discesa del mondo, a una velocità impensabile, che è la velocità del pensiero, dell’immaginazione, capace di reinventare il mondo e ricrearlo con sue ragioni inedite, in atto di vedere, di descrivere paesaggi, città, case, balconi, atmosfere, e, in quanto immaginazione, traversare tutto, entrare dalle finestre, conoscere gli uomini che abitano quegli appartamenti, ascoltare le loro vite. In questo senso fa come Dio, oppure diciamo che si comporta un po’ come Lui, per la disinvoltura che ha di trattare da fratelli gli altri, sì, perché i personaggi di “Atlante della fine del mondo”, sono un po’ nostri fratelli, nonostante siano lontani, ma ne avvertiamo comunque la vicinanza, sono la speranza e la stortura che abitano in noi, insieme a quanta speranza e delusione si alternano in loro e perciò in noi, a quanto assopimento morale attanaglia loro e noi, e non da adesso. I loro cuori, i cuori di questi personaggi, ci assomigliano, ma senza mai essere pienamente nostri, bensì come nello sguardo riflesso da uno specchio, o nelle cronache che ci raggiungono dagli schermi di un televisore, o di un computer.

Di certo non si può dire che sia un libro provinciale “Atlante della fine del mondo”, o intimista. Davide Morganti ha scritto il libro più antiprovinciale di oggi. Un libro che corre per il mondo, per cercarne la sua natura, che è la natura del potere, natura di ciò che, pur essendo dominato dall’uomo, domina allo stesso tempo l’uomo, lo condiziona, lo annienta, oppure, potrebbe annientarlo, senza riuscirci. Il suo stesso potere si sbriciola davanti alla potenza del creato, che è il dominio dell’altro. Varie volte, infatti, appaiono descritte le nostre paure, la paura del male.

Incontriamo in due racconti Hitler, nel primo è un grottesco pupazzo da spaventapasseri, nel secondo si presenta in sogno, a dirci il suo delirante inganno di essere buono, una sorta di Berlicche al contrario (per ricordare il noto romanzo “Le lettere di Berlicche” di C.S. Lewis), non privo di stridenti ambiguità. Da un monologo di un certo Niquer, riportato nel racconto “Hitler il buono”, mi sono divertito a inventare una sorta di decalogo. Sentite un po’: 1) Se dici mi sento giovane dentro diranno che sei patetico. Se invece dici che sei donna dentro, diranno che ha diritto a esserlo. 2) Il relativismo serve a imporre un pensiero mica due! 3) Essere Adolf oggi è da sfigati. 4) Che brutto questo fottuto Duemila che vuole condannare destini già avvenuti! 5) Sono convinti che un trucco chirurgico metta tutto a posto, esalta la profondità per ammettere, infine, solo la superficie! 6) La memoria della Shoah ha fatto dimenticare gli altri popoli! 7) Hanno il fiatone per correre sempre appresso alla cosa giusta del momento. 8) Vanno di qua e di là, annusano il puzzo del consenso. 9) L’Islam vuole arrivare a distruggere l’Occidente là dove ha fallito il comunismo! 10) Essere Hitler, specie oggi, non è per niente facile.

E con volo pirotecnico arriviamo al racconto che chiude “Atlante della fine del mondo”, quello ambientato in Italia, a Napoli. Forse è l’ultimo perché a Napoli ogni attimo è donato. Non è una metafora, è la verità. Tutto può scomparire davvero da un momento all’altro, in questo consiste la ferita di Napoli, la ferita mortale, di vivere questo, di vivere ogni giorno questo, di stare su questa vertigine, che è la vertigine dello sterminator Vesevo. Dunque, ogni attimo è fatale, può esserlo, e può essere fermato dall’ineluttabilità della fine, paradossale per una città che ha nel suo nome un significato contrario: Neapolis, nuova città. Come sarà la città nuova? Ce lo chiediamo, forse perché nell’attimo che passa e siamo stati risparmiati dall’ineluttabilità del destino, ebbene ogni attimo successivo dice che siamo salvi, o il fatto che la morte è rimandata dice che non c’è fine alla vita, dice che ogni attimo si spalanca all’infinito che saremo, pur essendo feriti a morte dalla vita, che è il nostro male, il male che vedremo spalancato davanti a noi, che scopriremo veramente di che cosa è fatto, che ferita è, che male è. La ferita a morte (penso anche, inevitabilmente, al famoso romanzo di La Capria!) non rimanda alla fine, ma all’essere segnati dal limite del nostro male, che è la nostra indifferenza, il nostro bisogno di evadere, proprio a ragione del male che ci segna e segna il mondo: la realtà segnata di bisogno di cui è fatta la storia di Napoli, o la città che sarà sempre alla fine della fine, ecco perché è umana, ecco perché è difficile. Il primo bacio potrebbe essere l’ultimo, il primo sorriso, l’ultimo sorriso, il primo grido, l’ultimo grido, il primo amore, l’ultimo amore, il primo no, l’ultimo no, il primo sì, l’ultimo sì, il primo sogno, l’ultimo sogno, la prima speranza, l’ultima speranza, la prima legge, l’ultima legge, il primo rimpianto, l’ultimo rimpianto, la prima consolazione, l’ultima consolazione, la prima luce, l’ultima luce, il primo giorno, l’ultimo giorno, la prima parola, l’ultima parola, e la prima ferita, l’ultima ferita, quella mortale, che apre alla conoscenza della morte, che noi facciamo della morte, sorella morte, sorella, cioè carnale, fatta della nostra stessa carne, del nostro stesso sangue, della nostra stessa parola, noi che siamo feriti a morte dall’amore, ma anche dal male che ci assilla e chiede speranza, certezza, speranza che il male non sia l’ultima parola.

Napoli che porta impressa nel suo nome la città nuova che sarà, che si realizza in continuazione, nell’attimo scampato che non ci rende dei sopravvissuti, bensì degli uomini inquieti, bisognosi fino all’ultimo (o il primo) desiderio: di essere simili a una città, di portarla dentro e impressa sulla carne, di uomo in uomo, tatuata in comunità vivente, ognuno simile e diverso dagli altri, uniti in un pugno di storia che ci fa amare finalmente oltre ogni nostro destino, o per destino, che è oltre, liberato, svelato, e in quanto esseri amati, sottratti al nostro tempo, sconfinanti nel nostro amore, l’amore che sconfina, spinge fuori quello che siamo, chiudendosi un attimo dopo… Fino a poter dire: dunque io sono questo?, sono questo?, ognuno è una città viva?, anche se nessuno lo dice?, anche se sono nella disperazione?, o nell’effetto della disperazione. Napoli è la somma di tutte le Napoli che si sono succedute nel tempo, di tutte le dominazioni che l’hanno conquistata, senza occuparsene, bensì comandandola. Sono i re che si vedono sulla facciata del Palazzo Reale, sono ancora lì.

Intanto, un uomo è caduto come una città che è caduta e che bisogna rialzare. Il racconto “Atto di abbandono alla meccanica di Newton”, nasce da questo contesto che ho appena descritto, da questo che possiamo definire contesto. Viene da chiedersi: in un contesto come quello come ci si salva? Vivendo, è la risposta. Ma Napoli è un organismo molto complesso, in cui sembra impossibile vivere. “Se volete fare qualcosa per Napoli dovete andarvene”, disse Eduardo De Filippo, negli anni Sessanta. Sta di fatto che il protagonista dell’ultimo racconto di “Europa” è un insegnante, un insegnante di sostegno, che nella mia fantasia io paragono alla figura di Colapesce, il personaggio della leggenda antica che sostiene una colonna sottomarina solcata da crepe, pericolante, ed egli decide di sorreggerla per evitare che la città di sopra sprofondi. Ma invece di sorreggere Messina, come nella leggenda, a me piace immaginare che stavolta sostiene Napoli. Sostiene dalla caduta del peccato originale, che è la caduta nostra, dell’umanità. Lo dice bene lo scrittore Fabrizio Coscia in un suo libro che parla d’altro, parla dell’agonia dell’uomo, quindi siamo in tema, perciò lo lascio dire a lui:

“…è la sovrastruttura che rende l’uomo inesorabilmente colpevole, perché condannato alla consapevolezza non tanto della morte, ma di sé stesso, del suo essere su un palcoscenico, del suo ego”.

Partiamo dall’inizio, perché è un inizio sconcertante quello di “Atto di abbandono alla meccanica di Newton”:

“Quando mi affaccio alla finestra spero sempre di vedere qualcuno che cada”.

Si ha la sensazione di trovarsi davanti a un cinico, come minimo, o, comunque, un disperato, uno psicopatico. Invece si tratta di un uomo che cerca il peggio per salvarlo, ed è la sua pietà che lo salva. Leggiamo:

“Sono arrivato in questo palazzo dopo aver girato a lungo per Napoli e provincia, ho impiegato mesi, l’ho scelto perché ci sono due depressi al quinto piano, una che da anni litiga col marito disoccupato al terzo, un malato mentale al sesto, una coppia di anziani che non paga da nove mesi la pigione”.

Infatti, gli inquilini del condominio sono diffidenti verso di lui, soprattutto perché è un insegnante di sostegno, e per giunta supplente. Un giorno egli conosce la vicina e suo marito e, entrando in una macelleria, la donna dice che ci dovrebbero essere persone come l’insegnante per capire cosa vogliono tutti. Intanto un cliente che guarda la carne esposta esclama: “Secondo lei Gesù è morto anche per loro?”, ed è il vicino a rispondere, afferrando un pollo e soppesandolo: “A morire, si può morire per chiunque, è a risorgere che non trovi qualcuno vivo”. Ecco quel senso dell’assoluto che ritorna, che è desiderio di salvezza, ma raccontato in quel modo, che è originale, ironico. Le sorprese non sono finite, subito entra in scena un altro personaggio del quartiere, il quale si vanta di aver guarito padre Pio dalle stimmate, e la gente ci crede. Ritroviamo il personaggio in questione, che, in seguito, si butta dal terzo piano, convinto che gli angeli lo avrebbero sorretto.

Il verbo sostenere c’è sempre nel racconto, perché tutti meriterebbero di essere aiutati. Due gemelle, ad esempio, sono state arrestate perché fittavano a pochi euro sedie e poltrone del loro appartamento a extracomunitari. Insomma, emerge quell’arte di arrangiarsi di Napoli che non ha mai fine, così come emerge la vera personalità del personaggio principale, il quale afferma:

“…ma io ero uno sensibile, altrimenti non avrei potuto fare l’insegnante di sostegno, che gli insegnanti di sostegno hanno il cuore d’oro, sono altruisti, sempre pronti ad aiutare il prossimo…”.

È da questo punto in poi che la vicenda cambia, la confessione del protagonista ha aperto nuove vie, nuove strade, che procedono espandendosi nello spazio e oltre, in funzione universale. Da Napoli si può vedere il mondo, il passato, la storia. È una cosa strana che accade, impensabile, ma si vedono cadere, anche se lentamente, quasi scivolando lungo la parete, l’anarchico Pinelli, e Fortuna Loffredo, una bambina violentata a Caivano, e via via altri che precipitano, come per un’epidemia diffusa, tant’è vero che un’inquilina del palazzo confida all’insegnante di volersi buttare ‘a coppa abbascio, perché esasperata dalla sua vita coniugale, e l’insegnante le dice di scegliere un posto più adatto a farlo. Al che la donna sorride, e gli risponde convinta: “Meno male che ci sei tu!”. Le torna la voglia di vivere, dice lo scrittore. Intanto i suicidi per schianto si succedono, come se fossimo davanti alle torri gemelle, di quell’undici settembre duemilaeuno. Cade il narratore ceco Hrabal, il povero Alfredino Rampi, l’aereo di Ustica, il calciatore Sandor Kocsis, Primo Levi, la cantante Gabriella Ferri… e l’elenco continua, muoiono buttandosi giù Mario Monicelli, Carlo Lizzani, Memè Perlini, Amelia Rosselli. “È quasi un rosario che scende dal cielo – dice lo scrittore – quello che vedo quasi ogni sera”. E cadono Elise Cowen, Lucio Mastronardi, manca solo Icaro, forse perché appartiene al mito, ma per il resto sono rappresentati tutti, tutte le categorie di umani, perché di umanità si tratta, e il personaggio principale si svela sempre di più, vede un bambino cinese e gli dice di tornarsene a casa, dai suoi genitori, eppure tutto sembra inevitabile.

Io non voglio raccontare la fine, che è splendida per partecipazione e pietà, cito soltanto la pagina 329 del libro “Europa”. È l’ultima parola che voglio citare, la più significativa fra le tante, viene da un racconto ambientato in Belgio, precisamente a Leuven, anche lì si domandano che fine fa la vita?, che cosa faremo di là?, perché soffriamo?, perché vivere?: “Allora?”.

Vincenzo Gambardella

Gruppo MAGOG