Non diversamente dalla maggior parte delle grandi capitali europee, Praga ha abdicato da tempo alle sue atmosfere e alla sua anima più riposta, sacrificando i suoi arcani spiriti golemici all’invadenza della globalizzazione e del mondo standardizzato.
Se i Mani di Angelo Maria Ripellino potessero aleggiare ancora fra i vicoli e le architetture sghembe e un tempo misteriose di Praga magica con quanto smagato disincanto vedrebbero slabbrarsi a vista d’ occhio l’aura che avvolgeva e proteggeva quei luoghi come un bozzolo atemporale. “Non avrà fine la fascinazione, la vita di Praga” esclamava lo scrittore siciliano nel suo libro più celebre, ammaliante e in sostanza illeggibile zibaldone sulla Città rudolfina, libro che traeva il proprio fascino barocco esattamente dalla sua ridondanza di stile e di contenuti.
La trappola del turismo ha purtroppo posto la pietra tombale anche su quella fascinazione che Ripellino e altri con lui credettero che si sarebbe preservata per sempre. Chi visitò Praga e le maggiori capitali dell’Est Europa quando ancora era in piedi il socialismo reale ha goduto della ventura di ammirare atmosfere ancora preservate, per il paradosso di molte dittature che invece di distruggere i monumenti li hanno ingabbiati in una sorta di capsula del tempo. Oggi è l’ipertrofia turistica, l’invadenza di comitive in buona parte inconsapevoli a costituire la nota dominante del centro di Praga, con felici immersioni in suggestioni più sospese nel tempo solo scantonando in luoghi più defilati come il Novy Svet, con la policromia silenziosa delle sue stradine zigzaganti, o come la collina di Vysehrad, luogo fondativo della città nella leggenda della principessa Libuse e autentico sacrario delle glorie cèche.
Per il resto l’opera di progressivo deterioramento di Praga è stata in questi decenni inarrestabile. Chi scrive visitò la città vltavina una prima volta nel 2001, rimanendone stregato, e vi è tornato in numerose occasioni sino alla vigilia della pandemia del Covid, trovando ogni volta nuovi tasselli del mosaico di Praga che venivano a perdersi e constatando con tristezza un inesorabile imbruttimento e involgarimento.
Le vecchie e affumicate pivnice tramutate in amorfi negozi di cineserie e di souvenirs stucchevoli, botteghe artigiane e librerie un tempo pittoresche e animate sventrate per far posto a negozi di grandi firme della moda o a catene di ristoranti uguali ovunque nel globo. Il già incantevole Vicolo d’ Oro residenza degli arcieri e delle guardie di Rodolfo II d’ Asburgo, che la fantasia trasfiguratrice degli scrittori ha trasformato nel cuore dei laboratori alchemici di Praga, è relegato anch’esso, compresa la casetta in cui per un certo periodo dimorò Kafka, a rivendita di souvenirs standardizzati.
E proprio Kafka è appiattito a facile icona della cultura massificata con il suo volto riprodotto ovunque e con la consacrazione alla sua opera di un moderno, troppo moderno museo affacciato sulla Moldava.
Museo che, con la scansione degli spazi obliqui vorrebbe ricreare le atmosfere oppressive delle pagine di Kafka, e che invece si rivela l’ennesima trappola per turisti, con ben poche cose direttamente richiamabili all’autore del Processo e con un’abbondanza di riproduzioni, effetti speciali, oggetti posticci (i cassetti che vorrebbero suggerire il dominio della burocrazia) e installazioni audiovisive che sfociano in una Disneyland cupa in declinazione letteraria.
L’inventore del concetto di “non luogo”, Marc Augé, ha fatto notare come il viaggio a Disneyland sia il turismo al quadrato, la quintessenza dell’ubriacatura turistica in quanto quel che visitiamo non esiste. Costruzioni finte e con un sentore immediato di artificialità come il Museo Kafka confermano solo come anche ai luoghi letterari si applichino oggi queste operazioni.
Se il viaggio è per definizione vagabondaggio, mobilità innanzitutto mentale, fatica, lenta conquista nell’acquisizione dei luoghi, dell’umanità, delle culture, il turismo ne è l’antipodo: nella sua pianificazione estrema non c’è spazio per la scoperta e per l’avventura e in esso, in realtà, non si lasciano mai veramente le pareti di casa propria.
Nel libro del recentemente scomparso Milan Kundera da poco pubblicato da Adelphi, Praga, poesia che scompare,lo scrittore boemo dedica uno struggente omaggio alla sua città (Kundera era nato a Brno ma studiò e si formò a Praga), che definisce il “centro drammatico e dolente del destino occidentale”. Praga gli appare come un’entità a parte, non appartenente all’Est Europa, incuneata tra la cultura tedesca e quella slava e la stessa lingua cèca, nella sua apparente asperità, gli pare un vetro opaco tra Praga e il resto dell’Europa.
Giustamente Kundera lamenta come per i sommi scrittori e musicisti cèchi, da Dvořák a Janáček a Kafka, viga ancora la predominanza delle fonti tedesche e come il filtro cui attingiamo per interpretarli sia per lo più di marca teutonica, spesso saltando e ignorando le fonti di lingua non tedesca. Deformazione che ha la sua spiegazione sulla lunga durata in quanto l’“ipnosi dell’arte barocca” e le vicende storiche trasformarono la Boemia da slava e protestante a tedesca e cattolica.
Risultato ne fu un’ipertrofia del fantastico, una dimensione in cui il magico e il sogno hanno più spazio del reale, dando vita a quella che André Breton designò come la “capitale magica d’Europa”.
La fusione alchemica di sogno e realtà si traduce negli incubi reali della narrativa di Kafka.
Il labirinto burocratico kafkiano (e il suo programmatico rifiuto della “psicologia”), la geniale satira dell’idiozia militarista del buon soldato Svejk di Jaroslav Hašek e la “disperazione concentrazionaria” del massimo compositore cèco, Leos Janáček, vengono contrapposte da Kundera al virtuosismo introspettivo e all’ eccesso di psicologia di Proust e di Joyce. Interessante polarizzazione, che, se non schematizzata all’eccesso, dà in qualche modo conto di due diverse concezioni dell’arte e del mondo, una tutta protesa allo scavo incessante della psiche e del linguaggio come casa in cui esso ha dimora, l’altra orientata alla soppressione e all’eradicazione della “psicologia” in un’arte, invece, “antipsicologica”.
Ancora più che un tributo, un accorato lamento questo di Kundera, lamento per un popolo che mai colonizzò e che fu invece sempre colonizzato e che dopo il colpo di Stato del 1948 vide progressivamente perdere sempre più la propria identità.
Alessio Magaddino
*In copertina: “L’alchimista” secondo Carl Spitzweg, 1837