
I futuristi hanno vinto ancora. Sull’avanguardia più folle (e duratura) del secolo
Arte
Roberto Floreani
Sembra – a dirne l’aspetto meno spettacolare, bensì brutale – un viaggio in ciò che avrebbe potuto essere. A vincere, sappiamo, sono state le ragioni del conformismo e del consumismo – cioè, in fondo, quelle strettamente ideologiche –, del turista teleutente, dell’intellettuale onnisciente, ben impiegato nell’impegno.
La mostra Pop/Beat Italia 1960-1979, in atto alla Basilica Palladiana di Vicenza, si muove entro due confini-totem (1960: esce La dolce vita di Federico Fellini; 1979: a Castelporziano va in scena l’orgasmo lirico del “Festival internazionale di poesia” con, tra i tantissimi, Ferlinghetti, Ginsberg, Burroughs e vari guru beat) e mette in chiaro tre cose di sgargiante inattualità:
A. L’autorevolezza ‘adamitica’ della Pop italiana – Mimmo Rotella, Enrico Baj, Pino Pascali & Co. – rispetto ad analoghe esperienze, compresa quella (mondialista) americana;
B. I legami indiscussi tra la Pop italiana e il Futurismo (tanto da poter definire i suoi eroi Neo-futuristi);
C. Il genio autarchico (e anarchico) della Beat ‘all’italiana’, che si muove entro esperienze spesso volutamente (per voluttà politica) obliate, tra Gianni Milano, Andrea d’Anna e Eros Alesi, e l’Antigruppo siciliano di Nat Scammacca, siciliano nato a Brooklyn cent’anni fa, autore di un’esistenza picaresca, straordinaria.
La mostra – che, va detto per non funestare la visita, folgora di curiosità il passante anche se ne togliamo il ‘clima’ culturale, è bella di per sé – racconta, per chi ha voglia di ascoltare, una storia ‘altra’ della nostra cultura. Ad esempio, si diceva, quella dell’Antigruppo siciliano che a suon di manifesti teorici in ciclostile (in mostra) osteggiò – con anarchica genialità e coraggio – l’empito neoavanguardista (cioè, nei ranghi del tempo presente) del Gruppo 63. Erano più avanguardisti i banditi dell’Antigruppo: leggere per credere. Locale, underground, con uno sguardo sugli strati sonnambuli e sotterrati della cultura italiana, l’Antigruppo ebbe anche una sua drittura internazionale (in Scozia e negli Usa, per dire), accoglierà testi sparsi di Sciascia, Danilo Dolci, Ignazio Buttitta.
Altro documento a suo modo esemplare: il romanzo lisergico del beat milanese Andrea D’Anna, Il paradiso delle uri, uscito per Feltrinelli nel 1967, introdotto da Fernanda Pivano (potete leggerlo, per cura di Alessandro Manca, nelle edizioni Strade Bianche di Stampa Alternativa), di cui la ‘quarta’ dice ciò:
“A questo tipo di costruzione fantastica, basata sull’ambiguità e frutto dell’immaginazione alterata dalla droga D’Anna aderisce fino in fondo, sino ad aprire un filone praticamente finora inventato. Alle proprie spalle l’autore non ha un vasto curriculum letterario, ma nonostante la giovane età, ha un passato movimentato e avventuroso; allontanatosi da scuola e famiglia a diciassette anni, a diciannove era già nel cuore dell’Africa, dove ha vissuto in zone diverse per lunghi periodi, facendo esperienze di cui si trova il segno in questo romanzo, ambientato in una Africa allucinata, surreale e indimenticabile”.
Una meraviglia; da usare come scorno e antidoto alle stregonerie letterarie odierne da Premio Strega.
Ma questi sono meri spunti, quelli che al primo nostro tocco incantano.
La mostra, polimorfica – catalogo Silvana Editoriale –, è ideata da Roberto Floreani, artista di lunga e vasta esperienza (è tra i grandi concettuali in Italia), teorico dell’arte (Astrazione come Resistenza, De Piante, 2021), studioso, tra l’altro, del Futurismo (ricordiamo Futurismo antineutrale, 2010, e la biografia programmatica Umberto Boccioni. Arte-vita, 2017). Da sempre affascinato dal legame tra prassi artistica e teoria – potremmo dire: la disciplina che presiede il gesto, che ne indirizza l’esito – Floreani conferisce alla mostra l’estro della propria ricerca personale. Non è dunque, questo, il risultato musivo di un critico che studia l’arte ma di un uomo che l’arte la vive, artista che si prende cura di altri artisti.
Dunque, lo abbiamo interrogato.
All’ingresso della mostra troneggia un tabellone con una frase di Carmelo Bene: “Per capire un poeta, un artista, a meno che questo non sia solo un attore, ci vuole un altro poeta e ci vuole un altro artista”. Pare una frase che sottintende il senso dell’intero progetto Pop/Beat?
La frase di Carmelo Bene è una dichiarazione d’intenti in quanto artista che parla di altri artisti, riprendendo quella funzione teorica dell’artista che ha precedenti decisivi in tutta l’arte moderna e contemporanea. Le figure di Umberto Boccioni, Lucio Fontana, Piero Manzoni, Emilio Villa, Ettore Colla, Piero Dorazio e moltissimi altri sono infatti risultate decisive per l’interpretazione del cammino dell’arte: senza i quattro manifesti di Boccioni su pittura, scultura e architettura il Futurismo sarebbe restato un esercizio di rinnovamento sociale, senza i manifesti dello Spazialismo di Fontana e i due numeri della rivista Azimuth di Manzoni e Castellani non ci sarebbe stato accesso al Concettuale rispetto alla pittura. Da parte mia l’approfondimento teorico, votato spesso al Futurismo, rappresenta un’occasione di crescita individuale che si riverbera sempre positivamente sulla mia ricerca in ambito artistico. Nel caso specifico di questo progetto, ho voluto dare voce a ciò che i 35 artisti selezionati raccontavano della loro ricerca e ciò che ne è risultato è una visione diversa del fenomeno Pop italiano, o meglio del Neo-Futurismo italiano, secondo un’intuizione del critico americano Alan Jones, già nel 1963: “L’energia dell’arte italiana non aveva paragone in nessun altro paese d’Europa […] Come una co-produzione tra Cinecittà e Hollywood, l’arte Pop si stabilisce come una joint venture tra Roma e New York. Peccato che non si poteva chiamarlo, all’epoca, neo-Futurismo”, alludendo alla sua improponibilità politico/ideologica in quel periodo. Incredibile che i pur non-generosi americani si accorgessero di una statura autonoma dell’arte italiana, nell’ottusità colpevole (e complice) della critica italiana.
L’abbinamento della Pop con il Beat è già stato proposto in Italia?
L’abbinamento Pop-Beat è inedito per l’Italia. All’insegna di quella multidisciplinarietà tanto cara alle avanguardie, ho voluto analizzare quel sentire comune di artisti, poeti, cineasti, musicisti in quel periodo di grande euforia generata dal Boom economico. La data di partenza del 1960, al di là di oggettivi riferimenti storiografici rispetto alle opere, è anche l’anno di uscita del film La dolce vita di Fellini: un autentico manifesto del clima di euforia positiva che attraversava l’Italia in quel periodo. Ma all’interno del racconto sulla misconosciuta beat italiana di Gianni Milano, Aldo Piromalli e molti altri, c’è anche la scoperta definitiva dello sconosciuto Antigruppo siciliano di Nat Scammacca. Pop e Beat italiani non sono mai stati proposti insieme perché la beat italiana e l’Antigruppo in particolare, sono stati semplicemente oscurati: la prima per ignoranza ed esterofilia congenita nazionale, il secondo per motivi politici, osteggiato dalla sinistra cool e potente del Gruppo 63, criticato violentemente da una sinistra marxista-leninista di stampo populista (nella sua accezione positiva). Dalle pagine di “Trapani Nuova”, l’Antigruppo sarà consapevole di essere: La freccia contro il carro armato, ma, nonostante l’alta probabilità dell’inevitabile cancellazione, continuerà imperterrito il suo ruolo di emancipazione delle fasce più deboli della società: dai campi, dalle piazze, dalle sagre di paese, dalle scuole. Quanto alla Beat del nord di Gianni Milano, la stessa Fernanda Pivano, mentore riconosciuta della beat americana, orienterà l’attenzione in Italia presentando e pubblicando nel ’67 con Feltrinelli Il paradiso delle Urì di Andrea D’Anna, l’unico romanzo psichedelico italiano: Psichedelico sincretico cristiano islamico beat lisergico, come lo definirà Gianni Milano. Decisione tardiva perché la controcultura di quegli anni già identificava in lei la promotrice della cultura americana giudicata imperialistica, contestandola pubblicamente. Quindi abortirà sul nascere proprio quell’antologia beat italiana che pare giaccia da allora nelle segrete di Feltrinelli. Pivano nella lunga prefazione al Paradiso delle Urì annuncerà l’uscita del romanzo successivo Il danno permanente che non avrà mai luce e negl’incontri prima dell’uscita del libro, definirà D’Anna il nuovo Kerouac e Gianni Milano il nuovo Ginsberg, seguendone la via:
“Liberarsi dal condizionamento della meccanizzazione, ritrovare la perduta comunicazione tra gli uomini, sganciare la mente per sollevarla verso la Verità, sforzarsi di raggiungere la realtà interiore, realizzare l’individualità sommersa dal conformismo”.
Proviamo ad approfondire vita & virtù dell’Antigruppo
Fino ad oggi collocata territorialmente soprattutto al nord, la Beat italiana avrà invece uno sviluppo significativo anche in Sicilia, grazie all’attività dell’Antigruppo di Nat Scammacca, realtà collettivista che si doterà fin dagli esordi di un corposo Manifesto fondativo in 21 punti. La valorizzazione dell’Antigruppo rappresenta un tassello fondamentale per dotare la tendenza beat italiana di un respiro nazionale fino ad oggi mai considerato, di riconoscere ad un nutrito gruppo dell’estremo sud uno spessore teorico pressochè sconosciuto al nord e colpevolmente mai incluso compiutamente nel racconto di quegli anni. Nat Scammacca redige i 21 punti di polemica aperta dove: Chi non è del nostro gruppo è falso, ovvero schiavo di quelle case editrici che si sono allontanate dal popolo, autocelebrandosi nei salotti dorati del capitalismo. L’Antigruppo di nome e di fatto si oppone al monopolio del Gruppo ’63 di Eco, Pagliarani, Sanguineti, di cui vale ricordare l’atto fondativo proprio a Palermo, egemonico e distante dalla realtà di quella base che avrebbe dovuto invece rappresentare: La loro verità è bugia, quindi. Non casualmente, animato da componenti palermitani, nascerà immediatamente dopo anche l’Antigruppo Palermo, per ribadire le distanze tra due modi opposti di porsi nei confronti del proletariato. Due saranno i principali obiettivi della polemica: Edoardo Sanguineti, il coordinatore e Umberto Eco, l’affabulatore. Il documento successivo: Antigruppo 1971. Esistenza, integra il primo con l’estensione della posizione ideologica del gruppo, riportando l’azione poetica al centro con i tre testi seminali: Esistenza Antigruppo, Capogruppo d’Avanguardia e Anno Uno, dove emerge con forza il tenore sociale di ribellione, che si conclude con un significativo: Guai a chi vuol essere padrone! Attività che sarà corroborata dall’uscita lo stesso anno anche della rivista Anti, indispensabile per alimentare il dibattito. Quella dell’Antigruppo sarà una feroce contestazione marxista alla sinistra imborghesita, nonché un’opposizione assoluta al fascismo, ma con evidenti reminiscenze verbali e strutturali riconducibili alla comunicazione dei gruppi futuristi, pur molto attenti all’emancipazione delle estreme periferie nazionali.
Guidati da Nat Scammacca, gli affiliati Crescenzio Cane, Gianni Diecidue, Ignazio Apolloni, Antonio Cremona, Santo Calì, Pietro Terminelli, Emanuele Mandarà, Ugo Minichini, Giuseppe Addamo e molti altri saranno ricevuti nell’aprile del ’73 da Lawrence Ferlinghetti nella libreria City Lights a San Francisco, dove verrà loro attribuito un importante tributo culturale: POPULIST MANIFESTO – for poets with love […] they are a fantastica production! Nonché riconosciuto Scammacca come il più rilevante poeta beat italiano. Rispetto alla Beat conosciuta fino ad oggi, l’Antigruppo si doterà, negli anni, di testi teorico-popolari d’importante rilevanza sociale, primo fra tutti Estetica Filosofica Populista dell’Antigruppo siciliano, che supportato dai ciclostilati Antigruppo 1971 – Esistenza e Antigruppo – 21 punti di polemica aperta, rappresentano la testimonianza più concreta dell’autonomia espressiva, sociale e movimentista della poetica beat italiana, rispetto a quella americana. Nat Scammacca e i suoi sodali s’identificano in un movimento che vuole intervenire nel sociale per una sua evoluzione/rivoluzione espressiva e culturale, guardando (consapevolmente o meno) in modo significativo al Futurismo, unica avanguardia autenticamente rivoluzionaria italiana.
Rispetto alla tua attività artistica, quali sono le priorità che ti sei dato per realizzare questo progetto?
Ho voluto fortemente che fosse una mostra spettacolare, che privilegiasse i grandi formati e che includesse il numero massimo di artisti possibile negli oltre 1000 metri quadri dell’incredibile spazio della Basilica Palladiana. Priorità assoluta è stata data alle dichiarazioni degli artisti, al “non detto” dai libri di testo e mai raccontato dalle molte altre mostre sulla Pop italiana realizzate in Italia. Da questo “non detto” emergono risvolti chiarificatori che la critica non ha affrontato, come la dichiarazione che Schifano farà a Moravia, che lo punzecchiava sul contrasto tra la militanza dichiarata e la sua ricchezza personale: “Ma io non sono comunista! Non sono mica Guttuso”. Dichiarazione che non sminuisce certo la sua condivisione col Movimento, le sue opere farcite di bandiere rosse, le falci e i martelli, riproposte anche nel suo film Umano non Umano, con la performance di Franco Angeli che ne tratteggia con la calce una enorme sul versante di una collina: non sono che tributi all’immagine e non al suo significato. Così le opere che replicano la Esso sono segnali di energia e non tributi ad un’americanità vissuta solo come interesse culturale, senza alcuno spirito di emulazione. Conformi a quel provocatorio Neo-Futurismo evocato da un americano testimonia la serie infinita di Schifano dedicati al Futurismo rivisitato, al dinamismo di Balla, alla figura di Boccioni; c’è Fabio Mauri, che, pur di religione ebraica, riproporrà una spettacolare Serata Futurista nel 1980: Deciso a sfidare un certo oblio storico che non cessava di stupirmi; Renato Mambor citerà più volte lo spirito futurista: “Voglio fare tutto, ballare, cantare, scrivere, recitare, fare il teatro, il cinema, la poesia […] ma voglio farlo da pittore, perché dipingere non è un modo di fare, ma un modo di essere”; c’è l’omaggio di Aldo Mondino al suo maestro futurista Gino Severini, la dichiarazione inequivocabile di Titina Maselli: Voglio dipingere energia; la costruzione dell’immagine di Giosetta Fioroni e molto altro. Neo-futurismo di fatto, quindi, anche se ci si trova per forza d’accordo sul fatto che il neologismo, oltre a evidenti problemi di natura ideologica, sarebbe stato una diminutio inaccettabile rispetto ad un gruppo tanto esteso quanto spettacolare, sicuramente non accettabile ma sicuramente migliore dello scialbo Neo-Oggettivi, coniato dalla critica illo tempore e infatti evaporato, sostituito dalla sudditanza Beat cui gli artisti si dovranno rassegnare, pur rifiutandola espressamente. Oggi non è certo compito mio coniare un termine comune che, ad ogni modo, risulterebbe pietoso e fuori tempo massimo. Ma rilevare oggi l’enorme occasione perduta (o concordata…) dalla critica è cosa buona e giusta.
Quel che infine ne scaturisce presenta dunque caratteristiche diverse rispetto ai progetti sulla Pop realizzati finora…
Come si diceva, per decenni si è preferito collocare la Pop italiana in una zona di sudditanza artistica rispetto alla Pop americana, seccamente rifiutata dai protagonisti, quando gli stessi americani avevano riconosciuto dignità paritaria ai cinque artisti italiani presenti alla Galleria Sidney Janis di New York nel 1962 (Baj, Rotella, Schifano, Festa, Baruchello) quando i futuri pop americani si chiamavano ancora Nuovi Realisti. La presenza italiana rappresenterà quasi il 50% degli artisti invitati: gli altri sei saranno i celeberrimi: Warhol, Lichtenstein, Oldenburg, Dine e Rosenquist. Dopo la campagna museale massiccia sulla nascente Pop americana del ’63 negli Stati Uniti, la Biennale del ’64 si presentava come un’occasione irripetibile per la critica nazionale di accreditare la formidabile ricerca italiana nella sua legittima autonomia. Gli americani approdavano nell’Europa delle Avanguardie storiche, di Matisse, Cézanne, Fontana, ancora con la valigia di cartone: serviva loro un riconoscimento culturale europeo, al resto ci avrebbero pensato da soli. Puntualmente, disciplinatamente, la Biennale di Venezia conferirà il Leone d’oro a Robert Rauschenberg, inserito fuori concorso e le cui opere approderanno in laguna con una nave militare, ignorando del tutto i nostri artisti e relegandoli, lo stesso anno, in una insulsa rassegna alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna etichettata come Neo-oggettività. Il resto è storia, con l’italiano sempre pronto a omaggiare e a servire lo straniero di turno.
Quali sono gli aspetti distintivi in questo racconto?
La priorità della mostra è quella reclamata da pressoché tutti gli artisti esposti che dichiarano i loro intenti in modo inequivocabile. La Pop italiana declinerà l’immagine riferendosi anche ai nuovi media, al cinema, alla televisione, alla pubblicità, al prodotto, ma con una forte attenzione alla tradizione rinascimentale, declinando le intuizioni del Futurismo, citando le bellezze architettoniche e paesaggistiche nazionali e approdando al movimentismo del Sessantotto in modo esplicito, distantissimo dalla mercificazione della Pop americana. Del resto lo stesso Roy Lichtenstein, star della Pop Art americana, già nel 1963, dichiarerà: La Pop Art non è americana, è l’arte della Rivoluzione Industriale.
Quanti artisti, quante opere e che provenienza hanno?
Disponendo di tempi ristretti e quindi temendo ritardi non rimediabili, ho privilegiato le collezioni museali che includono già le mie opere: provengono dalle collezioni di Intesa/Gallerie d’Italia, dal Mart di Rovereto, dal Mambo di Bologna, nonché da fondazioni, gallerie, privati e pressoché da tutti gli archivi dei rispettivi artisti, che hanno aderito con entusiasmo al progetto avendovi ritrovato un’apertura diversa rispetto alle singole ricerche.
Dopo il Futurismo la Pop e il Beat, cos’altro ti piacerebbe proporre? Rispetto alla tua ricerca, invece, cosa stai preparando?
Considero i progetti riguardanti altri artisti incursioni periodiche che vivo come un processo di crescita culturale e personale. Per questo motivo la mia ricerca individuale d’artista rimane la priorità assoluta. Da oltre un anno sto lavorando ad un nuovo sviluppo del mio lavoro che considero basilare nella mia ricerca ormai ultra-quarantennale. Le nuove opere rappresentano una sorta di sintesi artistica che proviene da lontano, dalle origini dell’Astrattismo, ma riformulata con suggestioni filosofiche e teologiche, sempre attento all’assunto che ogni opera possa veicolare un messaggio di natura spirituale, organico ai presupposti fondativi dell’Astrazione e al suo orientamento originario di natura spirituale. Ogni svolta significativa della mia ricerca è sempre stata presentata con una mostra museale: al Museo Revoltella di Trieste nel 2003 per la nascita del Concentrico, tutt’oggi mia “sigla” distintiva; così per l’introduzione delle grandi installazioni al Centro Internazionale di Palazzo Te a Mantova; per Alchemica al Museo MaGa di Gallarate; per l’inserimento del Klein Blu alla Gran Guardia di Verona. Le nuove opere hanno un retroterra teorico altrettanto importante che sottende il progetto pittorico: lo sto delineando nei dettagli per poterlo proporre a qualche istituzione museale.
*In copertina, per concessione della mostra Pop/Beat: Tino Stefanoni, Imbuto, 1971, Archivio Tino Stefanoni