Londra, 1974. William Seward Burroughs non è una persona loquace. Una volta, durante una cena, si è messo a fissare due microfoni pronti a cogliere il più piccolo rumore delle sue mandibole e ha detto: «Non mi va di parlare, e non mi vanno i chiacchieroni. Come Ma Barker. Avete presente, Ma Barker? Be’, è quella che diceva sempre: “A Ma Barker non va di parlare, e non le vanno i chiacchieroni”. E se ne stava seduta lì, con la sua pistola». Pensavo a questo, e alla misteriosa personalità di David Bowie, mentre un tassista irlandese portava Burroughs e me a casa di Bowie, a Londra, il 17 novembre 1974. Avevo trascorso le ultime settimane a organizzare questa doppia intervista. Avevo comprato e fatto avere a Bowie tutti i romanzi di Burroughs: Pasto nudo, Nova Express, Il biglietto che esplose e gli altri. Lui aveva avuto il tempo di leggere solo Nova Express. Dal canto suo, Burroughs aveva ascoltato appena due canzoni di Bowie, Five Years e Starman, sebbene avesse letto tutti i suoi testi. Ed entrambi si erano detti interessati a incontrarsi. La casa di Bowie è arredata in maniera fantascientifica: un gigantesco dipinto, opera di un artista a metà tra Salvador Dalí e Norman Rockwell, sta appeso sopra un divano di plastica. Davvero in contrasto con il semplice appartamento di Burroughs, due stanze a Piccadilly adorne delle fotografie di Brion Gysin: un alloggio modesto per uno scrittore così famoso, più vicino al Beat Hotel di Parigi che a qualsiasi altro posto. Bowie ci ha accolto subito con indosso dei pantaloni alla cavallerizza della Nasa di tre tonalità di colore. Si è gettato a capofitto a descriverci il dipinto e i suoi tratti surrealisti. Burroughs annuiva, e l’intervista-conversazione è cominciata. Siamo rimasti in quella stanza per due ore, parlando e pranzando: un piatto giamaicano di pesce, preparato da un giamaicano dell’entourage di Bowie, con avocado ripieni di gamberetti e un Beaujolais novello, servito da due Bowieani interstellari. Tra i due sono scattati immediatamente simpatia e rispetto. E in effetti, pochi giorni dopo questa conversazione, Bowie ha chiesto un favore a Burroughs: a Londra, una messa in scena delle Serve a opera di Lindsay Kemp, il vecchio insegnante di mimo di Bowie, era stata fatta chiudere dall’editore inglese del commediografo Jean Genet. Bowie voleva portare la cosa direttamente all’attenzione di Genet. Burroughs è rimasto colpito dalla descrizione che Bowie ha fatto dell’allestimento, e gli ha promesso il suo aiuto. Poche settimane dopo, Bowie era a Parigi a cercare Genet, seguendo le indicazioni fornitegli da Burroughs. Chissà? Forse è iniziata una collaborazione; forse, come dice Bowie, i due potrebbero diventare i Rodgers e Hammerstein degli anni settanta. [Craig Copetas]
William Burroughs: Segui interamente tu i tuoi progetti?
David Bowie: Sì, sono io ad avere il controllo di tutto. Non posso permettere che nessun altro se ne occupi, perché ho visto che posso fare meglio io. Non voglio che altri si mettano a pasticciare con quel che credono io stia cercando di fare. Non mi piace leggere le cose che si scrivono sul mio conto, perché quello non è il loro mestiere. La gente guarda me per capire quale sia lo spirito degli anni settanta, almeno il cinquanta per cento della gente. I critici non li capisco. Diventano troppo intellettualistici. Non sono granché portati per il linguaggio di strada; devono ricorrere al vocabolario, perciò la fanno molto più lunga. Io ho frequentato scuole borghesi, ma il mio retroterra è operaio. Ho preso il meglio da entrambi gli ambienti, ho sperimentato le due classi, perciò credo di sapere abbastanza bene come vive la gente e per quali ragioni. Tu come reagisci di fronte all’immagine che gli altri dipingono di te?
Burroughs: La gente cerca di incasellarti. Vogliono ritrovare l’immagine che hanno di te, e se non succede si arrabbiano parecchio. Scrivere è capire quanto puoi avvicinarti a farlo accadere, è questo lo scopo di ogni arte. Che altro pensano si possa davvero volere, un sacerdote che alza il gomito mentre è impegnato in una missione in cui non crede? La cosa più importante al mondo, secondo me, è che gli artisti dovrebbero impadronirsi del pianeta, perché sono i soli in grado di far accadere qualcosa. Perché dovremmo permettere che siano questi fottuti politici da tabloid a togliercelo?
Bowie: Io cambio molto spesso idea. Di solito non sono così d’accordo con quel che dico. Sono un tremendo bugiardo.
Burroughs: Io anche.
Bowie: Non sono sicuro se sono io che cambio idea, oppure se davvero dico un sacco di bugie. Dev’essere una via di mezzo. Non è che io menta in modo deliberato, è che cambio sempre idea. La gente mi rinfaccia continuamente qualcosa che ho detto, e io dico che non intendevo niente del genere. Non si può rimanere fermi nello stesso punto per tutta la vita.
Burroughs: Solo i politici stabiliscono quello che pensano, e va così. Prendi uno come Hitler, mai cambiato idea una volta.
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Craig Copetas: E l’amore?
Burroughs: Ah…
Bowie: Non sono a mio agio con la parola «amore».
Burroughs: Io neppure.
Bowie: Mi avevano detto che innamorarsi era fantastico, ma quel periodo non è stato niente del genere, per me. Ho dato troppo del mio tempo e delle mie energie a un’altra persona, e lei ha fatto lo stesso con me, e abbiamo iniziato a consumarci a vicenda. Ed è quello che chiamano amore… la decisione di investire tutte le nostre risorse su un’altra persona. È come avere due piedistalli, e ognuno vuol essere il piedistallo dell’altro.
Burroughs: Non credo che la parola «amore» sia utile. Dipende dalla separazione di una cosa chiamata sesso da una cosa chiamata sesso. È la primitiva espressione del vecchio Sud, dove la donna è messa su un piedistallo, e gli uomini veneravano le loro mogli, poi uscivano a scopare con le puttane. È in prima istanza una concezione occidentale, che poi si è estesa a tutta la storia dei figli dei fiori di amarsi tutti quanti. Be’, non puoi farlo, perché gli interessi non coincidono.
Bowie: La parola è sbagliata, ne sono certo. Sta tutto nel modo in cui si intende l’amore. L’amore tra persone che dicono: «Ci amiamo» è una cosa carina da vedere, ma spesso non è l’amore che attraversa le vite di quelle persone, quanto la volontà di non essere soli, la volontà di avere al fianco qualcuno su cui contare per un po’ di tempo. C’è un’altra parola. Non sono sicuro se sia una parola. Amore è qualsiasi tipo di rapporto a cui tu possa pensare. Sono certo che significa un rapporto, qualsiasi tipo di rapporto ti venga in mente.
Copetas: E la sessualità: dove sta andando?
Bowie: Dove vada la sessualità è una domanda straordinaria, perché per me non va da nessuna parte. È un lato di me, e questo è quanto. Non è che esca fuori all’improvviso, come una nuova campagna pubblicitaria per la prossima stagione. È sempre lì. Qualsiasi cosa tu possa pensare della sessualità, è sempre lì. Forse ci sono generi diversi di sessualità, forse altri ancora se ne aggiungeranno. Una volta era impossibile essere omosessuali, per quanto riguardava l’opinione pubblica. Ora è una cosa accettata. La sessualità non cambierà mai per chi ha sempre scopato in un certo modo e continuerà così. E verranno alla luce sempre più modi di farlo. Potrebbe accadere persino in uno stato puritano.
Burroughs: Ci sono segnali che potrebbe andare così, in futuro, un autentico contraccolpo.
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Burroughs: Hai mai conosciuto Warhol?
Bowie: Sì, un paio di anni fa sono stato invitato alla Factory. Siamo entrati nell’ascensore, siamo saliti su, e quando si sono aperte le porte c’era un muro di mattoni, davanti a noi. Abbiamo battuto qualche colpo sul muro, ma non credevano che fossimo noi. Così siamo scesi e risaliti finché non hanno aperto un passaggio nel muro, e tutti erano intenti a scrutarsi l’un l’altro. Era dopo che gli avevano sparato. Ho incontrato quest’uomo, che era un morto vivente. Colorito giallo, una parrucca del colore sbagliato, occhialini. Gli ho teso la mano, lui ha ritratto la sua, e ho pensato: «Questo tipo non ama la carne, è ovviamente un rettile». Ha tirato fuori una macchina fotografica e mi ha scattato una foto. E ho provato a farci due chiacchiere, ma la conversazione non decollava. Poi però ha visto le mie scarpe. Avevo un paio di scarpe giallodorate, e lui fa: «Adoro quelle scarpe, dimmi dove hai trovato quelle scarpe». Così ha cominciato tutta una tirata sul disegnare scarpe, e il ghiaccio si è rotto. Le mie scarpe gialle hanno rotto il ghiaccio con Andy Warhol. Adoro quello che faceva una volta. Credo sia stato veramente importantissimo, oggi bisogna sforzarsi parecchio per apprezzarlo. Ma Warhol voleva diventare un cliché, voleva farsi trovare da Woolworth, che si parlasse di lui in quella maniera superficiale. Sento che ora vuol girare dei veri film, una cosa molto triste perché i suoi di prima erano proprio quel che ci voleva. Quando me ne sono andato, sapevo di lui come persona quel poco che sapevo prima di entrare.
Burroughs: Non credo ci sia nessuna persona. È davvero una cosa aliena, completamente, totalmente priva di emozioni. È un personaggio fantascientifico. Di uno strano colore verde.
Bowie: È quello che mi ha colpito. Ha il colore sbagliato, per un essere umano. Specie sotto quella luce al neon così cruda che c’è nella Factory. Sembra che vederlo alla luce del giorno sia un’autentica esperienza.
Burroughs: Io l’ho visto sotto ogni tipo di illuminazione, eppure non ho idea di che cosa combini, sebbene sia senz’altro qualcosa di significativo. Non è energico, ma piuttosto insidioso, completamente asessuato. I suoi film saranno i film di mezzanotte del futuro.
*L’intervista di Craig Copetas, con il titolo originale “William Burroughs/Bowie: Beat Godfather” [Il padrino Beat: Bowie incontra Burrough] è stata pubblicata su “Rolling Stone” il 28 febbraio 1974. Qui si pubblica per gentile concessione dell’editore il Saggiatore, che l’ha raccolta nel volume: William Burroughs, “Interviste” (Milano, 2018)