30 Settembre 2020

“Pangea” compie tre anni. Ci festeggiamo con una lettera inquieta di Joseph Conrad. “Sono solo con il mostro in un abisso dalle mura di basalto nero, vertiginose…”

Un lettore fedele mi riprende: Pangea compie tre anni, auguri! Come sempre, abito una sonnambula Pantalassa, non tocco mai terra, ramingo tra sogni obliqui, ubiquo alle inquietudini. Torno in me: è così! Per la precisione, Pangea comincia a tracciare il suo regno – non più vasto di una zattera, l’ombra di un celeste impero – l’11 settembre del 2017. Piangevo la morte di John Ashbery, ricordavo il genio di Marcel Schwob – autore affine: raffinava vite in una rovinosa morgana –, apparvero, spettri telematici, Martin Amis, Georges Perec, Milan Kundera. Articoli di prova e di circostanza. È vero. Il 30 settembre del 2017 abbiamo firmato l’editoriale che funge da poetica: s’intitola “Non abbiamo paura di essere innocenti”. Il 30 settembre i Turchi entrano in Friuli – Pasolini vi ha scritto sopra una ballata –, la regina Elisabetta nomina Sir il corsaro Francis Drake, al Theater auf der Wieden di Vienna va in scena “Il flauto magico”, è la festa di San Girolamo, di cui amo l’icona che fonde il libro al leone, la traduzione al deserto, l’eremo al vocabolo, la Bibbia alla latitanza, e fu colto e anacoreta. Pangea vive nella gratuità, grazie a molti collaboratori: è cresciuta molto, in modo insperato. Un dato tra i molti: nel mese di aprile 2018 sono state 50.114 le visualizzazioni, nel settembre del 2020 sono state, ad ora, 239.549. Insomma, siamo pronti a costruire una città sulle acque o a pretendere un regno su una zolla antartica. Tre anni promulgano una avventura, nuova, una ventata: ci sarà, sarà vasta, ne scriverò avanti. Non sono buono a celebrare, preferisco lottare. All’epoca mi auguravo che fossimo “Inquieti come Lord Jim, avventati come Mowgli, spavaldi come Amundsen”. Mi ponevo sulle ginocchia di Joseph Conrad. Ecco. Per festeggiarci, ci facciamo un regalo. Traduco una lettera di Conrad a Edward Garnett, l’amico, il confidente, il mecenate. È il febbraio del 1899. Un momento epico. All’epoca, Conrad ha pubblicato un paio di romanzi (“Almayer’s Folly”, “The Nigger of the ‘Narcissus’”), sta lavorando alla rifinitura della sua storia più inquieta, “Heart of Darkness”, resoconto per allucinazioni del suo viaggio in Congo. Il racconto sarà pubblicato sul numero 100 del “Blackwood’s Magazine”, dal febbraio del 1899, in tre parti, fino ad aprile. Conrad descrive l’agnizione, l’atto della scrittura come un confronto con il mostro. Come qualcosa che non concede salvezza. Il grande maestro Józef Korzeniowski aveva 41 anni, il primo figlio, Borys, era nato l’anno prima. Mi piace far festa così: con il mostro addosso. Sono tutti tanto seri, colti, capaci, scaltri, bravi e giusti a questo mondo, tutti lupi, squali o volpi. O pecore. Lasciateci sognare, a testa sotto, nell’azzurro di cristallo, che lacera: le nuvole formano velieri & imperi. Sappiamo usare la fionda, e rotearla in cetra. (d.b.) 

***

Febbraio 1899

Carissimo Garnett,

cosa pensi di me? Io so di volerti bene, anche se sono un cane cretino, anzi, neppure un cane piagnucoloso. Neanche una scintilla è rimasta in me. Sono sopraffatto e privo di energie. Hueffer [Ford Madox Ford, amico di Conrad: insieme, su insistenza di Garnett, scrissero una manciata di romanzi, tra cui The Inheritors, nel 1901, e Romance, nel 1903, ndr]. Sto tentando di rifinire un racconto per l’“Atlantic Monthly”, ma non mi viene. Porgo il mio affetto alla tua famiglia restaurata. Hueffer mi dice che lo hai rimproverato per il suo fugace soggiorno qui da me. Non è giusto: i nostri più intimi amici non possono salvarci dalla follia.

Sei arrabbiato con me? Se è così ricorda che sono indurito dalle avversità e che la rabbia scivola via da me come una freccia solletica la corazza di una tartaruga: continuo sempre a irradiare affetto verso di te, e il mio affetto non è così pericoloso come i raggi marziani di Wells – ma è altrettanto caldo… Comunque, non farà del Tamigi un nastro di fuoco.

Penso a te con rassegnazione: hai puntato tutto su un cavallo sballato. Sono letteralmente zoppo. Gotta. Ansia. Agitazione. Esasperazione. E quelle cose per cui mi prendi in giro e continui a spronarmi: Scrivi, scrivi, scrivi, scrivi più velocemente. Ma non sono mai abbastanza rapido, tanto da mutare la mia condizione. Eppure. Scrivo.

Sento che sei preoccupato per me. Questa non è presunzione, ma il contrario. Eppure, non sono degno di occupare il tuo pensiero. Più scrivo, meno comprendo ciò che scrivo. Squame mi cadono dagli occhi. Che orrore. Affronto il foglio, e sfido la paura che cresce dentro di me. La mia forza è sconvolta dalla vista del mostro. I suoi occhi sono minacciosi; è immobile come la morte; mi divorerà. Il suo sguardo ha lacerato l’anima, si è gettato nel profondo, sempre più a fondo. Sono solo con il mostro in un abisso dalle mura di basalto nero, vertiginose. Mai le pareti sono state così perfette, perpendicolari, lisce, vaste. Sopra, la tua testa ansiosa contro un pezzo di cielo che scruta il buio, invano, invano. Non c’è abbastanza corda per salvarmi. Perché non sei venuto? Ti ho atteso e il fato mi ha inviato Hueffer. Fa che questo scritto sia la mia lapide.

Sempre tuo,

Joseph Conrad

*Il testo è tratto da: “The Collected Letters of Joseph Conrad. Volume 2: 1898-1902”, Cambridge University Press, 1986

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