“C’è chi viene al mondo postumo”. “Chi muore è in balia di chi resta”. In due pensieri – rispettivamente di Nietzsche e Sartre –, la sintesi perfetta della maggior parte delle carriere letterarie. La versione più prosastica sarebbe che “spesso si viene riconosciuti solo dopo la morte” e “una volta morti sono gli altri a stabilire cosa abbiamo detto, cosicché noi diveniamo la loro interpretazione e il loro ricordo”. Purtroppo, sembra proprio che l’uomo, e di conseguenza il critico, sia abile nel riconoscere la grandezza unicamente a putrefazione delle carni avvenuta. Sarà che la vita ha bisogno di farsi irrimediabile, prima che se ne possano tirare le somme. Prima di allora, appare esclusivamente come un flusso in divenire eternamente sfuggente.
In buona misura questo è stato anche il destino della maggior parte degli scrittori migliori, come nel caso del noto autore di Il Grande Gatsby, Francis Scott Fitzgerald, in particolare qui in Italia. Passato dall’essere pubblicato in una collana rosa – stile Harmony, per intenderci – sotto il fascismo, la sua ricezione ha conosciuto diverse fasi che vedono come protagonisti i suoi stessi traduttori e massimi estimatori. La Pivano, in primis, cambierà più volte prospettiva sulla sua opera.
Di questo e di molto altro racconta F. Scott Fitzgerald e l’Italia (Giuliano Ladolfi Editore, 2018), il saggio del giovane Antonio Merola. L’autore giunge a conclusione di questo lungo percorso, per ripercorrerne i sentieri e consolidare l’interessante prospettiva di quella che lui chiama una “lettura empatica” dello scrittore americano.
Visionato il testo in anteprima e fatte le nostre debite riflessioni, abbiamo voluto discuterne con l’autore senza lesinare riserve e dubbi, mettendo – come sempre si dovrebbe fare – le idee del saggista alla prova del vaglio critico.
Credo che, una delle questioni fondamentali che l’autore dovrebbe prima di tutto chiarire a sé stesso e successivamente ai lettori, quando dà alle stampe un testo, sia la ratio essendi del suo lavoro. Pertanto, la domanda che vorrei porti è: come mai un nuovo testo su Francis Scott Fitzgerald? Essendocene tanti in circolazione, deve esserci stato uno spunto particolare che ti ha spinto a voler ricavare una tua nicchia in mezzo a questa ampia produzione di letteratura secondaria sul noto americano. E, soprattutto, come mai un testo relativo al rapporto tra Fitzgerald e l’Italia?
Per qualche ragione, da circa un decennio, qui in Italia, si è tornati a pubblicare massicciamente F. Scott Fitzgerald. Non parlo soltanto della produzione romanzesca (quasi tutta riedita da Minimum Fax), ma anche, e soprattutto, di quei testi di cui nessuno si era mai occupato per lungo tempo. E il perché credo sia chiaro da subito: penso per esempio a Caro Scott, carissima Zelda. Lettere d’amore di F. Scott Fitzgerald e Zelda Fitzgerald (La Tartaruga, 2003) oppure a Lettere a Scottie, con lettere inedite di F. Scott Fitzgerald (Archinto, 2003) o ancora a Il crollo (a cura di Ottavio Fatica, Adelphi, 2009). Per ultimo, visto che ho aperto con Minimum Fax, potrei citarti Sarà un capolavoro. Lettere all’agente, all’editor e agli amici americani (a cura di Leonardo G. Luccone, 2017). Sono tutti testi che sarebbero stati impensabili solo una ventina d’anni fa, perché è evidente che, almeno nella teoria, sono destinati agli studiosi, o perlomeno agli appassionati. Per quale motivo uno, altrimenti, dovrebbe andarsi a leggere le lettere private di Fitzgerald? E, infatti, per me sono state come una benedizione. Potremmo, però, porci una seconda domanda: come mai un editore dovrebbe mettersi a pubblicare le lettere private di Fitzgerald, o qualsiasi altro testo di questo tipo, per venderle poi esclusivamente agli studiosi o agli appassionati? Ecco… quando dico massicciamente non scherzo: siamo davanti a uno scrittore divenuto improvvisamente così popular che persino Alfonso Signorini ha pensato di scrivere un saggio su di lui. In questa ondata di ripubblicazioni (o di prime pubblicazioni) ci sono ancora delle lacune, come alcune delle raccolte che Fitzgerald scrisse tra un romanzo e l’altro e che spero vengano date alle stampe a breve. Ma, dal momento che questo nuovo interesse è chiaramente in atto, credo che fosse oramai giunto il tempo di fare il punto della situazione sulla storia della ricezione del pubblico e della critica italiana riguardante l’opera tutta di F. Scott Fitzgerald, quanto meno sino alla fine del Novecento. Perché, paradossalmente, tra i grandi assenti mancava proprio uno studio simile. Forse, la vera provocazione qui è che ci abbia dovuto pensare uno di ventiquattro anni, che ancora frequenta l’Università, sulla base di una propria ossessione del tutto soggettiva.
Quali sono i protagonisti più importanti nella ricezione dell’autore di The Great Gatsby, qui in Italia? Mi piacerebbe se volessi anche spiegare brevemente i loro punti di vista, per renderli ben chiari ai lettori.
Tutto comincia con Elio Vittorini ed Eugenio Montale. È vero che, già nel 1936, Fitzgerald era stato pubblicato per la prima volta in Italia (proprio con Il Grande Gatsby, allora Gatsby il Magnifico), ma il romanzo era stato un insuccesso abissale. Vittorini decide di pubblicare la famosa antologia Americana (1941, e poi 1942), nella quale, assieme a una équipe di studiosi, non solo seleziona quegli autori che poi verranno inseriti nel volume, ma accompagna i testi con delle note critiche che incappano da subito nella censura del regime fascista. Questo perché la teoria di Vittorini era inaccettabile. Per lui, l’America era il continente universale: chi scriveva da lì, scriveva a nome di tutto il mondo. E, per questa ragione, considerava tutta la letteratura americana come poesia – a prescindere dalla forma. Americana viene poi pubblicata, ma senza le note del curatore. Tuttavia, l’opera originale riesce a circolare lo stesso. Tutto ha inizio da qui per due motivi. Il primo è che per Vittorini il poeta per eccellenza è Ernest Hemingway. Il secondo è che lui stesso inserisce Fitzgerald in una parentesi di autori minori che definisce come “eccentrici”. Montale infligge poi il colpo di grazia. A lui infatti spetta di tradurre il racconto The Rich Boy, per cui sceglie il titolo di Il giovin signore. Siamo davanti a una parodia attraverso la traduzione: non era il protagonista del racconto, ma Fitzgerald stesso a essere quel “giovin signore”. Questa prima ondata critica lo marchierà una volta per tutte come uno scrittore frivolo e mondano. Tanto che quella successiva, prima di cominciare a parlare esclusivamente della scrittura di Fitzgerald, si ritrova innanzitutto a dover controbattere Vittorini e a intraprendere una strada quanto mai assurda e tortuosa. Valga per tutti il titolo di un articolo di Luigi Berti, Un giovane americano non inferiore a Hemingway. Ma proprio questa strada porterà infine la critica italiana a considerare Fitzgerald non come un romanziere, bensì come un poeta. Vale a dire che, come Rimbaud scriveva poesie in prosa, così Fitzgerald declinava la poesia nel romanzo.
La storia del rapporto tra l’opera di Fitzgerald e il nostro Paese è piuttosto stravagante. Pubblicato per la prima volta sotto il fascismo, lo scrittore di Tenera è la notte viene riscoperto nel dopoguerra. Potresti raccontarci nel dettaglio tutti questi passaggi, fino ad arrivare a quello che vede come protagonista Cesare Pavese e Fernanda Pivano.
Stravagante è dire poco. Quando Fitzgerald arrivò a Roma, nel 1924, era forse lo scrittore più pagato al mondo – solo un anno dopo avrebbe dato alle stampe Il Grande Gatsby. Ma questo è anche il periodo in cui la sua vita comincia a incrinarsi: Zelda, infatti, aveva già manifestato le prime pesanti avvisaglie della sua malattia psichica. Quello che credo è che tutta l’opera di Fitzgerald, se letta cronologicamente, non sia altro che un grande romanzo, attraverso cui lo scrittore avvia un lento e paziente dialogo con la moglie, nel tentativo di comprenderla e ritrovarla altrove, nella scrittura. La “luce verde” di Gatsby non sarebbe altro che la normalità di Zelda che si allontana, forse irrecuperabilmente. Capisco che una tale posizione sia forse troppo esclusiva, ma è proprio ciò che cerco di dimostrare nel saggio. E anzi, senza questo apporto, non sarebbe altro che una scrittura didascalica, che cerca di fare un po’ di ordine. A ogni modo, a Roma Fitzgerald, per una ragione a noi sconosciuta, prende a pugni un tassista in preda a una sbronza. Ora ti chiederai “che cosa ci sia di male”, o meglio “che cosa questo abbia a che fare con la critica italiana”. Beh, la reazione è talmente pesante che, ancora nel 1949, un recensore anonimo apre il suo articolo su Tenera è la notte così: «Bisogna aggiungere ch’egli è forse il primo o l’unico americano astioso verso l’Italia e affettuoso con gli inglesi, anche questo è un segno anacronistico: qui, in un passaggio del suo protagonista per Roma, riesce a vituperare gli italiani e a dire cose di ridicola falsità». L’affetto nazionale ha però giocato in questa storia anche un altro ruolo, per noi fortunatissimo: all’epoca di Americana, Fitzgerald era praticamente sconosciuto nel nostro paese non solo perché mancavano le traduzioni, ma soprattutto perché era stato del tutto dimenticato in America. Infatti, è per puro caso se Cesare Pavese e Fernanda Pivano trovano al macero una sua edizione tascabile, fornita per svago dal governo ai soldati americani e da loro stessi abbandonata sul ciglio della strada. Era il Portable Fitzgerald, e conteneva Il Grande Gatsby, Tenera è la notte e i Nines Tales. Immagina solo se la coppia non avesse conosciuto l’inglese, oppure se la curiosità non fosse stata una delle loro qualità principali.
La tua tesi – che in buona misura collima con quella della Pivano – è che, proprio per il rapporto che intercorre in terra americana tra letteratura e vita, l’opera di Fitzgerald debba essere letta, alla ricerca di una sua più profonda comprensione, in parallelo con la sua biografia. Come tu ben sai questa è una posizione alquanto ardita che non sempre riesce a mettere tutti d’accordo. Io per primo, senza voler scomodare nessun grande nome, sono convinto che, in generale, un romanzo debba essere considerato solo e unicamente di per sé stesso. Come giustifichi dunque la necessità di quella che tu chiami una lettura empatica?
Come dicevo, il mio studio nasce da una personale ossessione. Ognuno di noi, credo, ha trovato un autore o un’autrice da cui si sente interamente rappresentato – a prescindere dal contributo che questi possano o meno aver portato alla letteratura. L’approccio che propongo nel saggio non è un unicum che vuole sostituire quello che invece suggerisci tu. Nasce da una contingenza empatica: ritengo che sarebbe straordinario se, chi ne ha le capacità, si mettesse a scrivere su quegli autori che abbiamo definito “rappresentativi per sé stessi”. Vorrei farti numerosi esempi di sovrapposizione tra la scrittura di Fitzgerald e la sua biografia, ma mi ritroverei a svelare parte del contenuto del saggio. Posso dirti però che, secondo me, non siamo di fronte a un semplice valore aggiunto: quando dico che Fitzgerald parla sempre di sé stesso e di Zelda, o che prova a comunicare con lei e a comprenderla attraverso la scrittura, parlare di tematica amorosa, nel senso di erotica, sarebbe troppo riduttivo. C’è qualcosa, nel comportamento di Fitzgerald di fronte alla vita, che può davvero esserci di insegnamento. Vedi… quando ero più giovane, rimasi folgorato dalla scrittura di Rimbaud e di Ginsberg. Con il tempo, capii però che ero più simile a Verlaine o a Kerouac. Cosa voglio dire? Che io non considero la letteratura come “una cosa”, ma come la vita stessa. Certo, il libro è un oggetto materiale: ma basta guardarci anche adesso, io e te, qui a parlare, per capire quanto la letteratura coincida con il nostro agens quotidiano. Però, cercando di entrarci meglio, il discorso è soprattutto poetico. Non a caso gli italiani guardavano a Fitzgerald come a un poeta. La tradizione poetica e letteraria americana recupera quel je est un autre rimbaudiano – anche se, nel caso particolare di Fitzgerald, che non era un grande lettore, viene recuperata quella particolare mimesi e spersonalizzazione dell’artista di cui parla Keats – e l’apice si ha con la Beat Generation, che cerca di ricongiungerla poi alla base, cioè alla poesia di Whitman, così da chiudere il cerchio. Credo che oggi il tema sia quanto mai attuale: l’altro deve tornare a essere l’oggetto esclusivo della nostra ricerca artistica, in tutti i campi. Vorrei che all’io lirico e ai poetry slam, si sostituisse un più ampio noi… Dobbiamo davvero smetterla con queste stronzate, Matteo. Ognuno può leggere Fitzgerald come vuole… ma davanti a una tale dedizione verso l’altro – che nel suo caso aveva un nome e un cognome: Zelda Sayre – sono sempre rimasto così sbigottito, da esclamare dentro di me: Cristo… Cristo!
Matteo Fais