31 Gennaio 2022

“Vuole forse uccidersi?”. Balzo dentro il peccato

C’è qualcosa di affascinante, di pieno di grazia nell’accuratezza, militare, con cui i monaci medioevali hanno stilato il regesto dei peccati, la cronaca delle colpe e delle espiazioni. Che scienza perfetta quella che ritiene il corpo, geografia ignota, imbrigliato nella latitudine di un codice, mappato in longitudinali mancanze, una miniera di hic sunt leones, di Atlantidi, di porti perduti, sepolti. In fondo, costoro – Corrado di Hirsau, Alano di Lilla, Pietro di Poitiers, Tommaso di Chobham – non fanno che setacciare il corpo (animale e verbale, fisico e spirituale) alla ricerca del cuore, delirio di chirurgia morale, quasi che l’uomo, imbambolato dalle forze aliene, terra di battuta e di dibattito, non sia altro che una macchina, mero sistema binario (azione/reazione; amore/repulsione; errore/abiura; colpa/perdono), marchingegno da rettificare – utopia celeste, tradurre l’ascesi in opera di alchimia, eliminare l’errore con un gesto terapeutico (topografico) eguale ma contrario. La lista, vertiginosa, delle azioni riparatorie, la diagnosi, mefistofelica, delle colpe e dei loro abissali attributi, danno all’uomo la natura di un labirinto, al cuore il tuono di Minotauro.

D’altronde, il peccato è inesorabile: la stazione eretta, di per sé, è un brancolare nella colpa, alienati dall’eden e dal bosco, creature urbane che ricalcano il miraggio di una città divina, ideale. “Ogni intento del cuore umano è incline al male” (Gn 8, 21), dice Dio a Noè; nella Lettera ai Romani Paolo colloca “la legge del peccato… nelle mie membra” (Rom 7, 23): il corpo umano in sé essuda il male, è ragione di errore, è un errare. Non diversa l’etica coranica che insegna, “Non voglio assolvere me stesso! In verità l’anima è propensa al male” (Sura XII, Yusuf). Mancanza, assiduo assurdo, che veritiero si riverbera nel viso, null’altro che il calco, il cavo, di ciò che non c’è, adesione che non soddisfa, covo di mosche, latrina. Buco. Eppure, la dottrina del peccato non è ricatto né meretricio – se non nella didattica catechistica degli infelici – bensì riscatto, condizione al salto, via: “Esamina te stesso ogni giorno, fratello, osservando il tuo cuore”, dice Isaia Anacoreta. Che la diagnosi sia spietata, senza diagonale di ragione, dacché “Dal cuore provengono propositi malvagi, omicidi, adulteri, impurità, furti, false testimonianze, calunnie”, insegna il Nazareno (Mt 15, 19). Smascherare il cuore, esiliare il pensiero, senza esimersi dalle doglie, esigenza dell’“afflizione spirituale”, che ha dote di gioia in serbo. È il genio delle lacrime che commuoveva Emil Cioran, che lucida il corpo come una lama, e libera il corpo, predisposto a essere tutto, perfino il suo opposto, suono, verbo, vento:

“Spesso mi metto a pensare a quegli eremiti della Tebaide che si scavavano una tomba pe versarvi giorno e notte le loro lacrime. Se qualcuno chiedeva il motivo di tanta afflizione, rispondevano che piangevano la loro anima. Nell’indeterminatezza del deserto, la tomba è un’oasi, un luogo e un sostegno. Si scava il proprio buco per avere un punto fermo nello spazio. E si muore per non smarrirsi”.   

Dostoevskij era elettrizzato dal peccato, dal suo regno totale. La formula con cui il monaco Tichon zittisce Stavrogin, l’esteta del peccato, “Peccando, ogni uomo pecca contro tutti gli altri e ogni uomo è in qualche modo colpevole dei peccati altrui”, torna con parole analoghe nel Sogno di un uomo ridicolo (“Dicevo loro che ero io, io solo il colpevole di tutto… li supplicavo di inchiodarmi sulla croce e insegnavo loro come costruire la croce”) e nei Fratelli Karamazov (“Ciascuno di noi è colpevole davanti a tutti per tutto, io più di tutti”). La percezione del peccato non mutila, mobilita, nobilita, inaugura una corsa, una demente gioia, perfino.

Secondo Origene, alla fine dei tempi ogni male, perfino Satana, sarà ricapitolato, ricomposto, redento da Dio, “perché Dio sia tutto in tutto”, come dice l’Apostolo (1 Cor 15, 28): l’apocatastasi è la catastrofe nel bene, la caduta nella luce. Nei Vangeli, in effetti, non si parla di peccato in modo da trarne un abbecedario morale (bassa voluttà da didatti disadatti): il Nazareno sovverte i cardini del mondo e occorre stare, senza esegesi, negli argini del suo dire (“A chi parlerà contro il Figlio dell’uomo, sarà perdonato; ma a chi parlerà contro lo Spirito Santo, non sarà perdonato, né in questo mondo né in quello futuro”, Mt 12, 32). Piuttosto, è Giovanni a insistere sul peccato, “Io vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato. Dove vado io, voi non potete venire”, dice Gesù ai Giudei, con violenza blu (Gv 8, 21 ss.). “Se non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati”, continua. E loro: “Vuole forse uccidersi?”. E qui, sulla domanda ispirata e cupa, dobbiamo cavarci gli occhi, perché la grandezza ci sovrasta, e va posto per inginocchiatoio il silenzio. Ecce Homo; Agnus Dei qui tollis peccata mundi.

Insieme ad Alessandro Dehò, come meri mendicanti, tentiamo un Nuovo Alfabeto del Sacro. P come Peccato.

***

Ed ecco, alcuni uomini, portando su un letto un uomo che era paralizzato, cercavano di farlo entrare e di metterlo davanti a lui. 

Ti saluto da lontano, mi avvicino a passo misurato, lento, chiedo alla mia rozzezza memorie di antiche ritualità. Mi sembri piccolo, un bambino perso, lo so cosa ti ha spinto qui ma lascerò a te di raccontarti, perché è questo che serve alla fine, sempre, la possibilità di allargare sulla tavola la tovaglia della nostra miseria, del miracolo di essere ancora al mondo. E ameremo anche gli strappi un giorno, dalle macchie rovesciate faremo mappe, intuiremo traiettorie, rotte tracciate tra i cocci infranti. Ma forse non sarà qui, non sarà ora. Quello sarà sguardo divino.

Ti è rimasta addosso la paura, ti stringi in abiti che sembrano un bozzolo, una corazza vulnerabile. Spero tu stia già respirando la luce di questo sole, spero che un giorno tu possa vedere i fantasmi luminosi che ti hanno portato fin qui. Sono loro ad averti tolto la lama dalle arterie, sono loro ad aver allentato il nodo al cappio. Io non so cosa sia il peccato, forse è solo l’infrazione dello scontato, la vita che chiede di essere guardata da un’altra prospettiva, la liberazione profonda di chi smette di chiamarsi innocente, forse è solo impressionarsi per il male che abbiamo saputo fare a chi avremmo potuto amare. Non lo so cosa sia il peccato però li vedo, luminosi, i gesti delle persone che senza la tua miseria non sarebbero mai venuti alla luce. Forse senza peccato nemmeno Dio esisterebbe. Mi perdo in questi pensieri mentre ti sfili la mascherina, abbozzi un sorriso, non sai se devi stringermi la mano. Siamo impacciati. Non credo ci possa essere migliore inizio.

*

Non trovando da quale parte farlo entrare a causa della folla, salirono sul tetto e, attraverso le tegole, lo calarono con il lettuccio davanti a Gesù nel mezzo della stanza. 

Camminiamo lentamente, è dai muscoli che passa il perdono non certo dall’anima, carnali sono i peccati e carnali sono anche i perdoni. Racconti di come il mondo ti sia sfuggito di mano, di come non riconoscevi più niente di quello che eri, chissà se ti accorgi, guardando al passato parli di te come di un bambino, eppure allora tutti ti ammiravano. Ti fermi, un respiro profondo, credi di essere andato troppo oltre, hai paura di banalizzare, tendi a sottolineare che non vuoi autogiustificarti, che ti dispiace. Si capisce. Ti fermi. E in quel momento emerge l’unico volto del peccato, del peccato vero per quello che io conosco: l’immobilità. La paralisi. Come il morso di un serpente capace di bloccare i centri vitali, un veleno insidioso. Il siero dei sensi di colpa.

Il silenzio si infila tra le tue parole e ti sembra che il dolore procurato, la violenza

, la tua fuga, la sua disperazione, ti sembra che tutto questo sia troppo grande da sopportare. Ed hai ragione, è tutto troppo grande e il dolore è drammatico perché come le parole non si possono più richiamare dopo che hanno spiccato il volo. Hai ragione, il male rimane, avrà procurato altro male, si sarà ingrossato come una valanga. Hai ragione, la vita travolge. Stravolge. Siamo complici. Il male procurato, a onde concentriche, si dilata, non ci sarà assoluzione in grado di fermare il fluire del dolore. Io questo lo so, condivido l’impotenza, il mistero. Come per la vita mi sembra spesso che tutto sia troppo, troppo il mistero del vivere e quello del morire, troppo l’amare e troppo il tradire. Ci saremmo accontentati di molto meno. Un giorno un qualche Dio dovrà renderci conto delle sue pretese.

Mi dici che hai sperato di morire, di pagare almeno con la tua vita. Corpo espiatorio, sacrificale abbandono alla superba divinità. Noi non saremo mai come lui. Mi dici che non sopporti la retorica dei preti, che troppo facile parlare di oro per rattoppare i cocci rotti di un vaso prezioso, mi dici che è facile parlare di perdono divino ma che il problema sei tu e di Dio ti importa poco, sei tu che non ti riesci a perdonarti e che forse nemmeno lo vuoi. Il male non si cancella, il peccato è originale e metastatico, tumorale e invasivo. Non si torna indietro. E io non so darti torto. Capisco che non sei venuto per l’ennesima consolazione.

*

Vedendo la loro fede, disse: “Uomo, ti sono perdonati i tuoi peccati”. Gli scribi e i farisei cominciarono a discutere, dicendo: “Chi è costui che dice bestemmie? Chi può perdonare i peccati, se non Dio soltanto?”.

Hai ragione, non è Dio che può perdonare i peccati, a lui cosa importa? Il peccato è affare tra uomini. Mi viene in mente la vicenda biblica di Giuseppe, quel romanzo sulla fraternità che sembra impossibile, quella storia su un perdono che pare non riesca ad arrivare mai. E su una assenza apparente di Dio, assenza che risulta ingombrante. Non interviene mai.

Giuseppe deve morire mille volte prima di arrivare a una ricomposizione famigliare, ma la morte più dura non è quella che della cisterna in cui lo gettano i fratelli e nemmeno la cella di quando era in Egitto, la morte più dura è alla fine quando riesce a morire al suo orgoglio, quando non assume i panni del misericordioso. Non lo fa. Giuseppe non perdona esplicitamente i fratelli perché si sarebbe messo nella condizione di dominarli dall’alto della sua santità. E se fosse un peccato altrettanto grave quello di erigersi a emuli divini? E se nemmeno Dio volesse interpretare il ruolo del padre eternamente misericordioso, del buono fuori misura? Scusami sono solo pensieri al vento.

Giuseppe costruisce contesti estremi e rischiosi per i fratelli, costruisce la possibilità del loro cambiamento, li provoca, li stana e sa bene che rischia, rischia di perdere la sua famiglia per sempre. Mi fermo, mi scuso, non volevo predicare. Solo mi sembrava prezioso dire che il peccato, il peccato vero è credere di aver tutto sotto controllo, un mondo paralizzato e nelle nostre mani. E forse anche credere che Dio sia qualcuno che non aspetta altro che perdonarci. A cosa servirebbe? A renderlo ancora più perfetto?

Lui mi guarda, non sembra convinto. Ho sbagliato, ho parlato troppo. Il profumo del caffè aiuta a stemperare la tensione.

*

 Ma Gesù, conosciuti i loro ragionamenti, rispose: “Perché pensate così nel vostro cuore? Che cosa è più facile: dire ‘Ti sono perdonati i tuoi peccati’, oppure dire ‘Àlzati e cammina’? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di perdonare i peccati, dico a te – disse al paralitico –: àlzati, prendi il tuo lettuccio e torna a casa tua”. 

Il sole spinge una precoce primavera sui vetri della finestra. Ci alziamo, usciamo, camminiamo. Chissà se è più facile perdonare o camminare. Forse non esiste questa grande differenza. Il paralitico del Vangelo che cammina senza dimenticare la barella l’ho sempre immaginato come Charlie Chaplin nel finale dei suoi film, muto e in bianco e nero a sparire in un cerchio che si stringe. Saltella, sorride.

Il peccato rimane come la barella del paralitico, te la porti dietro per fortuna. E il cammino non è spedito come prima. Sai bene che basterà un niente per paralizzare ancora i tuoi movimenti ma sai altrettanto bene che ora puoi vedere le fatiche degli altri. “Siamo tutti poveri cristo no?”.

Mi racconti che non riesci più a essere inflessibile come un tempo. Lo capisci anche tu che questo è un passaggio di rinascita. Se sia possibile rinascere senza procurare dolore io non lo so proprio, non lo so. Sembra una specie di maledizione.

Il nostro dialogo si muove per frammenti, nessuno comprende cosa sti succedendo nel profondo dell’altro, ci si muove a strappi.

Non si rischia così di giustificare tutto? Mi aspettavo la sua domanda. Non so se è un rischio o una promessa.

*

Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e andò a casa sua, glorificando Dio. Tutti furono colti da stupore e davano gloria a Dio; pieni di timore dicevano: “Oggi abbiamo visto cose prodigiose”.

Un uomo che cammina è prodigioso. Adesso io mi fermo qui, di più non posso. Abbiamo camminato insieme e insieme abbiamo dissotterrato il cadavere di quello che siamo stati. Di più io non posso e non voglio fare. Continua a camminare tu, anche io farò la mia strada, il peccato lascia cicatrici e niente tornerà come prima. Il peccato non è qualcosa da cancellare, rimuovere e la misericordia non rende niente più leggero. Diffida dei cammini di riparazione, diffida dei percorsi che illudono di riportarti a quello che eri, il peccato è l’assassinio di ciò che siamo stati, la morte è inevitabile, lo sparo echeggerà per sempre, nulla si cancella, nulla. Possiamo solo camminare, accettare che ogni tanto torneremo a stenderci nel cuore delle nostre paralisi, che avremo paura, che i sensi di colpa ci visiteranno negli incubi, che chiedere scusa non rimetterà niente a posto. Abbiamo disordinato il paradiso, lontana è l’illusione di essere dalla parte delle vittime. Però il prodigio è camminare, e insieme è condanna. Forse anche espiazione. Avresti preferito morire. Sarebbe stato più facile. Invece no, siamo tutti condannati alla guarigione, al cammino, a vagare nel mondo con il nostro lettuccio sottobraccio. Crocifissi alle nostre paresi ma impossibilitati a scioglierci nella morte.

Sì, mentre ti vedo ripartire sento che sarebbe stato più facile per te morire, e lo sarebbe stato anche per me, ripenso alle tante persone che ho incontrato e che a causa del peccato vivono da morti, svuotati, costantemente impegnati a pagare con la loro sofferenza un debito che sanno inestinguibile. L’inferno ce lo scaviamo noi. A misura della nostra paura.

Alessandro Dehò

Gruppo MAGOG