Trasfigurazione. Coloro che soffrono senza consiglio, quelli che, confusi, sognano, gli estasiati ultraterreni, sono questi i tre gradi in cui Raffaello suddivide l’umanità. Così noi non rivolgiamo più il nostro sguardo al mondo e nemmeno Raffaello, adesso, lo potrebbe più: egli vedrebbe con i suoi occhi una nuova trasfigurazione. (Friedrich Nietzsche, Aurora)
Il tema della trasfigurazione di Cristo sul monte Tabor, fondamentale per la comprensione del legame tra spirito e materia che è al centro del progetto di redenzione cristiano, è stato per secoli stimolo di complesse riflessioni. Ne sono scaturite opere d’arte che hanno imposto nell’immaginario collettivo duraturi modelli di riferimento che, per secoli, non furono messi in discussione. Tuttavia, come sappiamo, la seconda metà del XIX secolo inaugurerà l’era delle grandi critiche: anni di profondi sconvolgimenti dove ogni certezza sembrò crollare. Nell’epoca del sospetto, per dirla con Paul Ricoeur, molte sicurezze smisero di essere tali: la ruggine del tempo aveva reso inservibili le vecchie chiavi e sembrò opportuno fabbricarne di nuove. È in questo clima che l’oracolare Friedrich Nietzsche offre la sua lettura della grande pala con la Trasfigurazione, il testamento artistico di Raffaello oggi conservato presso i Musei Vaticani. Il filosofo, che farà spesso nei suoi scritti riferimento al dipinto, presentava una lettura dell’opera basata sulla più radicale esclusione della possibilità di un intervento salvifico della Grazia divina. Un’interpretazione che, ho motivo di credere, era antitetica a quella originariamente prevista dal pittore in cui, come vedremo, a certe precise scelte iconografiche corrisponderebbero riflessioni di natura teologica.
Il dipinto si dispone su due registri sovrapposti occupati dal racconto di due specifici episodi evangelici. La parte alta riporta il momento della trasfigurazione, descritto con minime differenze nei Vangeli di Matteo, Marco e Luca. Cristo, dopo essersi recato sul monte Tabor insieme ai discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni, manifesta la sua natura divina trasfigurandosi sotto i loro occhi, diventando pura luce, la luce di Dio. Nella parte bassa, in apparente disaccordo con l’esatta cronologia dello svolgimento degli eventi evangelici, si trova rappresentato l’episodio della guarigione dell’indemoniato (avvenimento che nei Vangeli è descritto in un momento successivo, anche se di poco, a quello della trasfigurazione). L’opera, formalmente ineccepibile e di enorme impatto emotivo, è stata oggetto di studio da parte della critica che ha cercato di definirne con esattezza i termini della paternità. Raffaello, in effetti, morì prima di completarla, ed è difficile capire quanto ci sia di autografo e quanto invece sia stato delegato alla bottega. In molti sostengono che l’esecuzione della parte inferiore, con l’agitarsi di varie figure, sia ascrivibile a Giulio Romano, il grande allievo del maestro. La qualità resta comunque altissima in tutte le porzioni, e la dissonanza fra i due registri, quello superiore e quello inferiore, più che una stonatura può essere intesa come il risultato di una consapevole e prevista scelta formale.
I due livelli sono infatti perfettamente equilibrati, complementari. Quello superiore è rarefatto, solenne, simmetrico, illuminato dalla luce di Cristo. Il livello inferiore è invece ombroso e affollato, caratterizzato da un senso di precarietà reso dall’instabile equilibrio delle figure colte da turbamento. In alto, Cristo è accostato da Mosè ed Elia, apparsi al suo cospetto durante la trasfigurazione. In basso, abbagliati e frastornati, stanno gli apostoli Pietro, Giovanni e Giacomo. Ci sono poi due figure, affacciate sulla sinistra, la cui identità rimane incerta. Si tratta, probabilmente, dei santi Felicissimo e Agapito, la cui festa si celebra il 6 agosto (lo stesso giorno della trasfigurazione), ma potrebbero essere anche i Santi Giusto e Pastore, i protettori della città di Narbona per la cui cattedrale la pala fu eseguita. In questa splendida composizione, così insolita, l’uso sapiente del colore ha una funzione di primaria importanza, con toni caldi in basso e al centro e freddi nella parte alta, nelle figure di Dio e dei profeti. Differenze cromatiche che sembrano sottolineare la distanza infinita fra gli uomini e Dio, quella distanza che si colma attraverso la figura di Gesù, qui presentato nell’attimo drammatico del disvelamento della sua essenza, nel delicato momento di sovrapposizione tra la natura umana e quella divina.
Come prima accennavo, la grande novità introdotta da Raffaello risiede nella scelta di porre l’episodio della guarigione dell’ossesso in stretto rapporto con quello della trasfigurazione. Ci sono differenti speculazioni intorno al motivo di questo accostamento. Alcuni sostengono che il dipinto debba essere messo in relazione alla dottrina dell’Apocalypsis nova di Amedeo Menez da Sylva, un trattato molto diffuso in quegli anni. Altri invece, più prosaicamente, ipotizzano che la scelta dei due episodi si spieghi con ragioni meramente commerciali: per la decorazione della cattedrale di Narbona, oltre a Raffaello, era stato incaricato anche Sebastiano del Piombo, che avrebbe dovuto realizzare una tavola con la resurrezione di Lazzaro. Tra Raffello e Sebastiano si accese una forte competizione, ed è in questo contesto che l’Urbinate avrebbe deciso di inserire un secondo episodio nel dipinto, al fine di ottenere spunti per rendere la propria opera più visivamente efficace di quella del rivale.
Sebbene questa ipotesi sembri possibile, credo che sia più ragionevole vedere nella scelta di porre in diretta relazione questi due episodi – la guarigione dell’ossesso e la trasfigurazione – il risultato di una riflessione a carattere religioso condotta da Raffaello. Se infatti leggiamo le due scene come collegate, siamo portati a vedere in Cristo e nella sua azione taumaturgica una forza in grado di trascendere lo spazio e il tempo: la promessa di una salvezza che riguarderà, in un momento successivo a quello della trasfigurazione, il ragazzo indemoniato. Una simile concezione da parte del pittore può essere meglio compresa attraverso quello che appare come il suo esatto negativo, tramite cioè l’interpretazione che Nietzsche offre del dipinto. Sarà, infatti, anche all’interno di questa rappresentazione in pittura di una dottrina escatologica che il filosofo individuerà i principali obiettivi da colpire per edificare il mondo nuovo di cui si sentiva profeta. Ecco le parole che Nietzsche, in La nascita della Tragedia, dedica all’opera:
“La metà inferiore, con il ragazzo ossesso, gli uomini in preda alla disperazione che lo sostengono, gli smarriti e angosciati discepoli, ci mostra il rispecchiarsi dell’eterno dolore originario, dell’unico fondamento del mondo: l’illusione è qui un riflesso dell’eterno contrasto, del padre delle cose. Da quest’illusione si leva poi, come un vapore d’ambrosia, un nuovo mondo illusorio, simile a una visione in cui quelli dominati dalla prima illusione non vedono niente. Un luminoso fluttuare in purissima delizia e in un’intuizione priva di dolore, raggiante da occhi lontani. Qui abbiamo davanti ai nostri occhi, per un altissimo simbolismo artistico, quel mondo di bellezza apollinea e il suo sfondo, la terribile saggezza del Sileno e comprendiamo per intuizione la loro reciproca necessità. Con gesti sublimi [Apollo] ci mostra come tutto il mondo dell’affanno, [la metà inferiore del dipinto con l’ossesso], sia necessario, perché da esso l’individuo possa venir spinto alla creazione della visione liberatrice e poi, sprofondando nella contemplazione di essa, possa sedersi tranquillo nella sua barca oscillante, in mezzo al mare”.
Come si legge, il filosofo interpreta il dipinto ribaltando, invertendo, trasvalutando appunto, il tempo e il senso della rappresentazione di Raffaello. Quella rappresentazione per cui Cristo, secondo un moto discendente, agisce con la forza della sua grazia nel tempo e nello spazio, e porta alla guarigione dell’indemoniato. Guarigione che, nell’accortezza scenografica e suggestiva del pittore, non è ancora avvenuta, ma che certamente avverrà. I tre evangelisti posizionano l’episodio del ragazzo indemoniato poco dopo quello della trasfigurazione, ma Raffaello unisce le due scene indicandoci in Cristo, Signore del tempo e dello spazio, il luogo dove colpe e ferite sono risanate, dove passato e futuro si fondono nel kairos. Cristo, anticipando la guarigione che sarà, rompe la concezione ciclica del tempo: è nel suo segno che la prigione uroborica dell’eterno ritorno va in rovina e la materia è ricondotta nell’alveo del fiume del tempo, fiume che scorre verso l’ineludibile destino della redenzione. In questo senso il dipinto, con la singolare scelta iconografica, appare come una promessa: come il simbolo di qualcosa che sta per accadere, che sta già accadendo e che è già accaduta. La grazia di Dio agisce dall’alto e libera l’uomo, il ragazzo ossesso, salvandolo. Una visione, questa, opposta a quella nicciana dove, come abbiamo letto, il moto del dipinto è invece ascendente, e per cui è proprio la parte bassa della composizione, con la terribile scena dell’indemoniato che non è ancora guarito e che mai guarirà, a generare, attraverso l’energia della sofferenza, l’«estasi ultramondana», per usare le parole del filosofo: uno stato d’animo incapace di salvare l’uomo, che altro non può fare che «sedersi tranquillo nella sua barca oscillante», intrappolato nell’eterno fluire di un tempo sempre uguale a se stesso.
Si tratta, come è chiaro, di due interpretazioni inconciliabili, separate dall’insanabile conflitto tra l’antica concezione di un tempo ciclico e ripetitivo, prodotto della tradizione classica, e quella di un tempo dinamico configuratasi in ambito giudaico-cristiano, Di un tempo, cioè, lineare e universale, il cui termine coincide con la grazia di Dio, e il cui scopo è quello di permettere all’uomo di tornare sul trono del suo regno perduto.