“Era destinato alla distruzione”: ritratto dal vero di Emanuel Carnevali, poeta
Letterature
Fabrizia Sabbatini
Nel giugno del 2004, vent’anni fa, esce presso una tipografia di Borgomanero il mio primo libro di poesie, Annali. Per la storia della letteratura la notizia è irrilevante; qualche mese prima era nato mio figlio, Samuele. A quell’epoca abitavo a Milano: coltivai un’emozione solitaria, mai più provata prima, piena di cardi e di candele in pieno petto.
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Annali è un libro altisonante e presuntuoso, inciso sul cuoio, con suoni di tamburo e fiumi in lontananza. Per scriverlo – un’avventura spericolata – mi approvvigionai di poche fonti: Albino Pierro, René Char, i libri di Tacito, Il libro del Signore di Shang, spietato manuale di governo scritto da un alto funzionario cinese vissuto nel IV secolo prima di Cristo. C’era, poi, la Bibbia, i profeti soprattutto, le comete apocrife – studiavo, lavorando, storia del cristianesimo antico. Mi piace l’idea di un libro-monito, di un libro mutevole, del libro miliare, scritto su pietra, con stilettate d’acqua.
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Non so quale riscontro abbia avuto quel libro, non lo ricordo, non serbo articoli. Ovviamente, lo riscriverei diverso da cima a fondo, per questo non ne toccherei una lettera – forse sono lo stesso di allora, forse scrivo sempre le stesse cose, forse il labirinto va strozzato e preso per il collo, come una gallina. Ricordo però che Annali fu finalista del Premio San Pellegrino: settant’anni fa, nel 1954, vi sbarcò, anche Tomasi di Lampedusa con il cugino, Lucio Piccolo, presentato da Eugenio Montale. Anch’io mi sentivo alieno. Fui invitato da Cesare Cavalleri; Raffaele Crovi imperava con toni da rospo istrione; il premio andò a Milo De Angelis, per Tema dell’addio. Non partecipai ad altri premi, non ne vinsi alcuno. Mi dissero: sii felice. Non lo ero.
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Annali uscì col numero 9 nella “Collezione di poesia” Parsifal, “a cura di Marco Merlin”, per le Edizioni Atelier. La stampa era sobria, rude, a intensità monastica; il testo autografo, in copertina, conferiva al libro qualcosa di lombrosiano. Credo che quella collana sia il capolavoro critico di Marco Merlin: la sua cinica generosità, la clinica audacia, ha accolto autori non ascrivibili ad alcuna poetica; primeggiava l’opera, meglio se imperfetta, ruvida come un adolescente, scabra. Lungi dal creare un cenacolo – criteri di ‘comunità’, semmai, animavano la rivista “Atelier” – Merlin ha messo in campo tanti piccoli Achille, ciascuno con il proprio scudo, la propria guerra. C’è ancora qualcosa di marziale in quella “collezione di poesia”; c’è l’astro che pulsa, il crollo, il germe che sboccia in leone.
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La collana “Parsifal” è durata il getto di sei anni – dal 2000 al 2006 – sviluppandosi in sedici libri, dal Privilegio della vita di Riccardo Ielmini a Terza persona di Luigi Severi. Di rado s’incontra con tale violenza la pervicacia dell’autorevolezza, una feroce spavalderia; il pulpito e il patibolo insieme. Credo che Marco abbia radunato, lì, segugio del proprio gusto, alcuni dei poeti più potenti del nostro tempo: Federico Italiano, Simone Cattaneo, Gabriel Del Sarto, ad esempio; di Maria Grazia Calandrone ha pubblicato il libro più bello (Come per mezzo di una briglia ardente), di Flavio Santi quello più lunare (Il ragazzo X), di Tiziana Cera Rosco l’opera dal valore seminale (Il sangue trattenere), che ora si dilata in altre forme, dilapida altre direzioni.
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A Lugano, di recente, mi sono accorto di tre cose. La terza la dirò alla fine – la prima è il lago. Di solito, chi si accorge del lago lo fa per fini fotografici, per il vieto decoro dei buoni sentimenti; nel lago, invece, bisogna tuffarsi. A Lugano è caldo. I germani mi fissavano con sospetto, i cigni, per fortuna, erano altrove: si credono belli ma sono dei bianchi dromedari. Avessi le loro pinnate zampe, potrei dare a questo corpo l’abbrivio di un destino nautico. In cielo, le nuvole parevano branchie. La seconda è Massimo Gezzi. Insegna a Lugano, l’ho incrociato pochi giorni fa; nel 2004, nella collana diretta da Merlin, ha pubblicato Il mare a destra. Massimo Gezzi viene dalle Marche, a uno sputo da dove abito ora. Una quiete papalina alligna nelle Marche; qui, invece, è tutto un guardarsi le spalle, è terra di briganti e di faine. All’epoca di Annali, Gezzi mi ha fatto scoprire un poeta folgorante e un libro decisivo. Il poeta è Bartolo Cattafi, oggetto di una recente riscoperta – pur tra le catacombe in cui si avviluppano i poeti. Il libro, L’arco e la lira, del poeta messicano Octavio Paz, è uscito da tempo dai radar editoriali: lo pubblicava Il Melangolo, mi sembrò meraviglioso.
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Nessuna malinconia macula l’ostensorio del giorno: tutto è ora e chi ha avuto la gloria di una giovinezza pressoché priva di adulti nei dintorni se la porta sempre sotto la lingua. Marco Merlin mi ha insegnato, vent’anni fa, che il sistema culturale italiano era imploso ormai da tempo, che tentare una qualsiasi ‘carriera’ con la poesia non è soltanto inutile ma imbarazzante, è il tradimento della poesia; e bisogna aderire per lo più a una propria regola e vivere a viso aperto, cioè da intoccabili. Per questo – per lo meno: alla luce della lotta che precedeva l’opera – pubblicare nella collana Parsifal era più gratificante che fare i burattini sudditi nello Specchio Mondadori. A ciascuno la sua storia; la nostra diceva questo: voltare le spalle all’editoria dominante; fare le cose da sé; preferire la seggiola al palazzo, il duello all’encomio, l’agonismo all’agonia. Questo significava indossare la poesia come lo scapolare, fare lirica tonsura. Crescere non vuol dire tradurre l’ascia in cagnolino da passeggio.
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Parsifal significa – così nel sottotesto della collana – “Puro e folle”. A tale proclama possono aderire soltanto gli impuri e gli scaltri. Parsifal, a me, ha sempre fatto venire in mente i parsi e il fallimento. I parsi sono gli zoroastriani che dalla Persia si trasferirono in India: all’esilio si confonde una religiosità di arcani, dove tutto è dominato dalla perenne lotta tra gli spiriti del bene e quelli del male. Questa latitanza, questa vita laterale, tra gli estremi – o bianco o nero – contraddistingue i Parsifal.
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Credere a ciò che ti è consegnato: c’è qualcosa di più alto? Il sospetto è il sostegno dei vili; la maldicenza la malattia dei furbi.
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Che senso ha perpetuare ogni giorno una pratica lirica che interessa a nessuno? Perché scrivere versi che non attecchiscono nella storia, che leggeranno, forse, pochi amici soltanto? Perché votarsi a questo compito fuori dal tempo, smisurato, senza ‘mercato’, che sconfina nel mendicare? Ridurre la poesia a bel gesto è vezzo da ricchi – la poesia, indenne alle cronache dell’oggi, fuori dalle statistiche, intemperante, semplicemente, è la nostra Harar, l’estremo rifugio di Rimbaud, transfuga dalla lirica. Auscultare le piogge, mendicare armi, vivere anonimi nell’anomalia. Perché?, ancora. Perché si è felici in questa barbarie di vocali.
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Io sono perso in questo mondo. Vocalizzare l’oblio. Oliare il verso fino all’urlo, fino al dardo.
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Comunque: l’aggressione, una grazia senza gratitudine, la cosa che non deve essere fatta. La bestia in città: abbattetela!
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Che siano stati pubblicati libri importanti, in questi anni – Una stagione memorabile di Riccardo Ielmini, La grande nevicata di Federico Italiano, L’amore e tutto il resto di Andrea Temporelli, I destini minori di Isacco Turina, Sonetti bianchi di Gabriel Del Sarto, ad esempio –, d’altronde, non ha creato alcuna scossa al ‘canone’, non ha innescato alcun ‘dibattito’, non ha subito il fittavolo imperio di importanti premi. Le lotte interiori e quelle intestine non disturbano i piccoli potentati, che investono le loro energie nella conservazione dei privilegi, nella produzione di mercenari e portaborse. La poesia chiede pudore, va inserita sotto le federe, impropria proprietà.
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La terza cosa che ho visto a Lugano è un falco. Stava attaccando i piccoli di un’anatra; il combattimento si è svolto a poca distanza da riva. La madre ha reagito, raccogliendo a sé i quattro figli; a mezz’aria, il falco li teneva sotto ricatto d’artiglio. Che si sfami, ho pensato, che si nutra perché la sua livrea splenda più del sole, che si conficchi nel nostro cuore quella rapace magnificenza. La lotta sarà durata una manciata di minuti: infine, fiacco, il falco si è alzato, perdendosi tra le montagne; l’anatra ha radunato i suoi, si è pulita, continuando a navigare al trotto. Il debole ha trionfato. Mi piacerebbe essere un falco, trattare la resa di venti continentali, stare sul rio della luce; ma la verità è che siamo anatroccoli, e ne abbiamo il privilegio. Il paradigma dell’anatroccolo è dunque questo vivere di scarti, scartando la polpa: che i libri si sbriciolino, usati a fondo come fionde. Che l’umile grano ai bordi della strada, un biondo lago, invece, sia il Graal è perfino untuoso e ridondante ribadirlo.