22 Gennaio 2024

“Con tutta la bellezza intollerabile dei morti”. Alun Lewis, un poeta in guerra

“Odi et Amo” è forse la più bella poesia di guerra mai scritta. Il bello – è vero – è ingiustificato e non ha agio di misura, non si installa in record. Eppure. Questa poesia ti si conficca nei timpani, scassa l’iride con chiodi di vetro.

Impegnato sul fronte orientale, in India, il poeta vive un istante estatico: non è lui quello che imbraccia il fucile, nella selva sconvolta da cadaveri e da uomini in stato di belva. L’arma – per paradosso – pare una tiara: proprio lì, nel fetore della morte, il poeta scopre l’amore; proprio perché la Storia, il gergo dei dominatori gli impone di odiare, il poeta ama. “L’amore grida e grida in me”, scrive il poeta. Il tono della poesia non è ‘d’assalto’, ma classico, pago della propria rivelazione, fermo. Il riferimento, nel titolo, a Catullo indulge sui contorni di una poetica, certo – la ‘latinità’ della poesia in lingua inglese –; ma indica lo stile di un’etica: proprio nel regno dell’orrore, io amo. La terra desolata cantata da Eliot qui è “bosco guasto”; i voli dell’intelletto modernista, ora, lasciano luogo a corpi intrisi di sangue. L’ultimo distico è abbacinante:

“E i fiori dell’estate mi sbocciano sul capo
Con tutta la bellezza intollerabile dei morti”.

Se dovessi pensare a un film, penserei a La sottile linea rossa di Terrence Malick – intimità tra le interiora, catabasi nell’anima mentre il corpo è tutto, è in esplosione.

La vita di Alun Lewis, dall’etimo di un fiammifero, è definita dal paradosso. Pacifista, è ritenuto – leggo da uno dei molti reperti biografici, questo è della Swansea University – “il più grande tra gli scrittori della Seconda guerra mondiale in lingua inglese”. Nato a Cwmaman, villaggio gallese prossimo a vasti giacimenti di carbone, il primo luglio del 1915, Alun Lewis cresce in una famiglia di insegnanti. Sviluppa quasi subito un deciso talento poetico, studia alla Aberystwyth University e a Manchester; dopo qualche tentativo come giornalista, si dedica, anche lui, all’insegnamento. Il viso è garante di un istinto alla commozione, pronto a una compassione energumena; c’è come una sfasatura, un eminente aldilà in quegli occhi; nel 1941 il poeta sposa Gweno Meverid Ellis, insegnante. L’anno dopo pubblica una raccolta di versi, Raiders’ Dawin and other poems e una serie di racconti, The Last Inspection, i soli libri pubblicati in vita.

L’opera del tempo lo tormenta: nonostante il denunciato pacifismo, la necessità di combattere i fascismi lo convince ad arruolarsi nei Royal Engineers; deciso a un impegno più importante entra tra i South Wales Borderers. Nell’ottobre del ’42 è destinato in India – vi approda in dicembre. “L’India suscita emozioni contrastanti nella mente del poeta: da un lato, è affascinato dall’induismo e dalla bellezza del paesaggio, dall’altro la povertà e le sofferenze del popolo indiano lo squassano”.

A Coonoor, nel Tamil Nadu, è ospitato per un periodo di riposo dalla famiglia Aykroyd, insieme ad altri soldati. Aalun Lewis scrive poesie mentre segue un corso organizzato dall’intelligence dell’esercito. Si innamora di Freda Aykroyd, dando all’amore il senso irreparabile dell’effimero. A Karachi riprenderà l’addestramento nei ranghi dell’Intelligence, in cui pare dimostrare doti di eccellenza. Inviato in Birmania nel 1944 per contrastare le forze dell’esercito imperiale nipponico, il poeta muore, “in un misterioso incidente” (così la nota della “War Poets Association”). Alun Lewis viene trovato riverso, con un colpo di pistola alla testa, presso le latrine degli ufficiali. Si era preparato di tutto punto, recava l’arma in mano. Sono le cinque e mezza del 4 marzo. Secondo una breve nota della Treccani – che andrebbe modificata – il poeta “morì in combattimento”; secondo l’esercito inglese – guidato, in quel contesto, dal colonnello Cresswell – si sarebbe trattato di un incidente. Impossibile dichiarare in guerra la morte di un alto soldato per suicidio. Così muore, contraffatto fino all’ultimo, il poeta, contorsione esegetica del respiro.

Postuma, nel 1946, esce la raccolta più nota di Alun Lewis, Ha! Ha! Among the Trumpets, introdotta da Robert Graves. È quasi un passaggio di testimone tra il grande poeta sopravvissuto alla Prima guerra e il discepolo, sconfitto nel cuore dalla Seconda. Un denso epistolario, iniziato nel 1941 – custodito alla Wales National Library tra gli “Alun Lewis papers” – testimonia l’amicizia tra Lewis e Robert Graves, patriarca della lirica inglese, instancabile cercatore di uomini e di miti.

Poeta ‘di guerra’, qui presentato per la prima volta in Italia nella traduzione di Annalisa Crea – che con le nostre edizioni si è già cimentata con le poesie ‘di guerra’ di Drieu La Rochelle – Alun Lewis ha poco da spartire con i cosiddetti “War Poets” della Prima guerra mondiale, onorati in Westminster. Là c’era un mondo di massacri da narrare ‘in presa diretta’, per la prima volta; la carneficina conferiva ai versi l’arditezza del granatiere. Qui la guerra di massa, la calca-cloaca mondiale non è una novità: il poeta ha una compostezza chirurgica, il pianto bendato nel pudore; uomo di dolori, lava il corpo morto dei propri commilitoni perché il cadavere abbia odore di rosa; non urla la morte, ne custodisce il segreto; s’incarica dell’altrui morte. La guerra non ha reso Alun Lewis un poeta: gli ha affinato lo sguardo, conferendo alle mani la benedizione del cecchino, l’ampiezza di una stella.

La Seconda guerra pare impossibile da ‘rappresentare’: la folta massa di documenti, l’impero fotografico rendono l’arte bidimensionale al cospetto del sangue, del macello, iniqua, falsa. Il romanzo ne sfiora i contorni, al dettaglio; il cinema ha messo il conflitto sul tavolo di casa, in un florilegio di più o meno miracolati eroi e storie da copertina. I quadri appaiono, lì, in terra di bombe, incongrui, quasi blasfemi. La poesia, ancora, a pieni sorsi dice il crisma umano da Ilio a Burma.

Nel corso dei decenni, sono state pubblicate le lettere del poeta, alla moglie (Letters to My Wife, 1989) e a Frieda (A Cypress Walk, 2006) oltre a diversi studi biografici (Aulan Lewis. A Life di John Pikoulis è uscito nel 1991; Alun, Gweno & Freda, sempre di Pikoulis, nel 2015). I testi pubblicati in questa pagina sono tratti dai Collected Poems (a cura di Cary Archard, Seren Books, 1994).

Dell’India, Alun Lewis amava la giungla – il luogo del poeta.

***

Prologo: L’arrotino

Niente da arrotare? Rispondi, allora, e andrò.
Chi ha tornito la creta del sole?
Chi ha mondato la candida neve?
Chi è il demiurgo che si cela? Tu taci, tu non sai.

Poiché non rispondi, io radunerò
Le masserizie di tua proprietà
E le molerò per amor loro
E altre ragioni che non capirai.

Arroto le parole come lame sugli eventi
In cui, ambulante di ronda, m’imbatto.
Ma il moto vorticoso della cote intralcia
Il nitido tratteggio del vero che si svela.

Ho usato la mia forza per cercare la visione,
E contro lei lottare come il vecchio Giacobbe;
E a lungo ho patito per tracciare con rigore
L’esistenza nella sua innata nudità.

Ma perché avere a grado un arrotino di parole?
I suoi ombrelli consunti e i suoi coltelli ottusi,
Il tornio di fortuna – chi mai avrà caro
Un lacero girovago tra tante grette vite?

Chi ha tornito la creta del sole? Il sole è tramontato.
Chi ha mondato la candida neve? Il pendio è immacolato.
Va’ e arrota anche se nulla è rimasto da molare 
Mal te ne colga se le tue faville non scaldano la notte.

*

L’alba degli incursori

Sommessamente cadono
I secoli civili,
Carta su carta,
Pietro su Paolo.

E gli amanti che si destano
Dal fondo della notte –
Padroni dell’eterno,
Schiavi del Tempo –
Solo riconoscono
Il candido fluttuare
Di piccoli volti che cadono
In buche di calce viva.

Una collana azzurra
Su una sedia bruciata
Dice che la Bellezza
Fu sorpresa lì.

*

La sentinella

Ho iniziato a morire
Poiché infine ora so
Che non c’è scampo
Dalla Notte. Non un sogno
Né immagini ansanti del sonno
Sfiorano i miei occhi di pipistrello. Io pendo
Arido come cuoio dal tetto nascosto
Della Notte, e insonne
Sorveglio la provincia del Sonno.
Ho lasciato
Gli amabili corpi del giovane, della giovane
Stretti in un abbraccio indisturbato;
E ho lasciato
I vicoli ameni del sonno
Che gli amanti percorrono scalzi fino a questa
Gelida sponda del pensiero che sorveglio.
Ho iniziato a morire
E il silenzio crudele dei fucili
È il mio interim nero, la mia età, la gioventù,
Nel fiore della furia, il papavero chiuso,
La Notte.

*

“Odi et Amo”

I

Toccarono forse le dita
La musica più dolce sulle membra
E sulle sembianze dell’amore
Le cui note si sciolsero in quiete, nella
Quiete del cuore nel petto immacolato?

Gli occhi ansiosi del dolore
Sopportarono le stigmate
Del Cristo che è in noi, la piaga
Violacea della storia che in noi sanguina ancora?

I lombi trovarono nella passione
La sostanza del divino e nella foga
La fiamma che radunò l’eterno
Dentro le vie lattee della notte?

E le mani e gli occhi e i lombi
Non giurarono all’inizio del calvario
Di sopportare ciecamente, strenuamente
Con tutta la fede indefessa dell’uomo

L’angoscia lacerante della nascita
Che non si può evitare e della morte
Che deve morire, e della pace
Che fu sulle prime vagheggiata?

II

Il mio corpo non sembra il mio
Ora. Queste mani non sono le mie
Che toccano la molla del grilletto, né i miei occhi
Intenti su un bersaglio umano, né la mia guancia
Poggiata sul calcio del fucile; i miei lombi
Sono piatti e stretti come quelli di un bambino.

III

Eppure in questa selva intrisa di sangue e follia
Dove uomini lupo giacciono adusti e bruniti
E i cadaveri riposano contro i tronchi degli alberi
E le radici dell’amore si torcono scure

Come serpi fin dentro la terra bruciante;
In questo bosco guasto ove nessuno sente
I canti amorosi d’Ofelia
E le risa di Lear,

La mia anima grida il suo amore
Per tutto ciò che freme e nuota e vola.
Dai monti, dal cielo,
Dagli abissi dell’oceano
L’amore grida e grida in me.

E i fiori dell’estate mi sbocciano sul capo
Con tutta la bellezza intollerabile dei morti.

*

A un compagno d’armi

Stolto dal pelo fulvo, mio allegro compagno,
Che un amore di donna celavi
Ed una follia d’uomo,
Che oltre spingevi la ronda
In cerca d’un altrove più vicino,
La polvere delle trincee
Coprirà infine il tuo volto
Come le vesti di Cristo.

Stolto dal pelo fulvo, mio allegro compagno,
Che simboli mistici celavi
Di pane spezzato da mangiare
E rami di palma da offrire,
Con quale nemico farai la tua pace
Questa estate che è persino più crudele
Dell’antico Dio dei Giudei?

Quando nelle tue nari sciameranno le api
E il miele stillerà dai tuoi occhi
Cavi oggi ancora vivi e accesi
D’amore frustrato,

Che voto faremo noi che ti amammo
Per ciò che eri e non avevi a cuore?

*

Post-Scriptum: per Gweno

Se io dovessi andare,
Amore mio, non dire:
«Lui mi ha dimenticata».
Poiché, lo sai, dimori
Garrula costola nel mio fianco sognante;
Sempre persisti.
E giù nella valle tribolata e folle
Là dove allignano fame e sangue
E la Morte la bestia è brada e indomata,
L’anima nostra resiste al terrore
E stringe il suo silenzioso onore
Al lume di stelle cui tu desti il nome.

*

Una separazione

Lei:

Nei suoi occhi morii
Le sue mani mi fecero a nuovo
Le sue labbra foggiarono le mie.

La luna morta chiama all’armi il mare
Ma le onde si levano e si frangono;
Il loro moto è un atto
Di fede e fallimento.

Lui:

Il cuore giace sul fianco
E duole spasmodicamente;
Il cuore è un fardello per le mani
Che dolgono del pari.

Le mani sanno scordare

Ma che fare del cuore in ambasce
Che cerca negli anfratti della Notte
Ciò che le mani han scempiato?

*

Fanteria

Di giorno nulla chiedono questi uomini, e obbediscono;
Masticano gallette dietro una pietraia;
Violenze e privazioni infestano ogni interstizio,
L’inverno è una ragazza dentro le loro ossa.

Infine padroneggiano il gambetto dello spirito,
Con levità ragionano di vita e di morte,
Raggricciano ogni angoscia in un dolore sordo
Troppo assillante per strappare un tremito.

Dividono il rancio di ferro della Vita,
A passo leggero marciano, sopportano i primi freddi,
Il vuoto del mezzodì, il nulla della notte
Sul cui mercato nero vengono smerciati;
Silenti si dispongono ai posti di battaglia.
La sacra unzione del rum rinfranca i titubanti.

*

Il milite ignoto

Tutto è durato fino ad oggi.
Come un re di velluto lui lo fissa.
Una maschera floscia alla Velázquez,
Silenzio ai lati della bocca vizza,
Vitrei e sguarniti gli occhi, gualcita la fronte.
Tutto è distante adesso.

Tutti i giorni sono un cumulo d’ira sopra l’oggi.
Dormono i sensi, tranne una scintilla che folle
Salta lo squarcio tra i suoi occhi
E invoca – non un secolo opulento,
Né il riscatto terreno dell’anima –
Ma un sorso d’acqua della mia borraccia.
Che cosa vale l’anima per lui?
È durato più di tutto quanto.

Tace la liturgia fallace della gioia.
Domani e domani non hanno dimora
In mezzo agli oceani di pioggia, di pace
Che sono i lineamenti del suo viso spento.
A lui non ha più accesso l’io misero
Umiliante, né gli amici le cui
Sensuali persuasioni destarono per prime
La fragile effusione che questo giorno estingue.
Bandisce il mezzano, il signore e il buffone.

E impotente sul trono il re ingrigito
Più non s’aggrappa a ciò che sta morendo.
Ha abbandonato tutto quanto.
Velázquez, chiudili tu quegli occhi dolenti da cane.

*La scelta e la traduzione delle poesie di Alun Lewis sono di Annalisa Crea

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