27 Aprile 2019

“La Storia è stata un trauma più duro di quello della vita; eppure ho persistito a rivisitare a piedi i miei fantasmi”: elogio di Rodolfo Quadrelli e di quella Milano che non c’è più

Una variazione sul tema della Milano quadrelliana

Canta una Milano di meraviglie,
Una città che vidi anch’io fanciullo,
Vaghi suburbi d’ortaglie e famiglie,
Dove il fiume era soltanto un ruscello

Ormai mutato in un sozzo colore
Ancor più torvo del natìo naviglio
Dove un giorno per incontro d’amore
Ebbi io il mio primissimo giaciglio.

Dice il suo amato vagar per le strade
– L’io scapigliato: veggente emozione –
Finché le case non si fanno rade,

Tra tradizione e disintegrazione,
– Sente la croce: mondo che decade –
Esito atroce di oscena nazione (sragione).

“Senza religione muore tutto, / e l’uomo cade in lutto”, scrive Quadrelli in un lirica della raccolta Commedia, del 1977, e a tutto ciò oppone nei saggi La tradizione tradita e Filosofia delle parole e delle cose la vera cultura, che è per lui “lo scopo del vivere”, e ha radici contadine, nella lingua parlata e in quella scritta, nel nesso armonico, e vale a dire cattolico, tra l’esterno e l’interno, l’armonia tra costumi e riti, tra parole e gesti, una diversa relazione con gli oggetti, in cui si cela “la verità dietro l’apparenza mondana”, e il valore la contemplazione di contro a una drammatica riduzione economicistica di tutto quanto ad azione, e poi ancora la cultura di strada e di piazza con la sua dimensione conviviale ben descritta da Ivan Illich, assieme a Quadrelli uno dei maestri di Sciffo, e per tutti e tre più fondamentale di quella scolastica, ma più in generale, alla base, di fondo, la grande necessità, vera oggi come allora, di una “revisione totale della cultura italiana”, come il poeta milanese scrisse in una lettera indirizzata a Del Noce.

In un sonetto del 1979, il poeta confessa il suo disgusto, la sua lotta, la sua ira, la sua ribellione, “su un tono di scapigliatura di senso inverso, cioè ribelle sì, ma al disordine costituito dalla società edonistica”, per dirla con Sciffo, e di cui avrebbe certo fatto volentieri a meno…

“Non ero fatto per la lotta, eppure
mi hanno costretto a diventare duro:
ora giaccio in me stesso e in me maturo
qualche oggetto delle mie ire future.

Non ero fatto per odiare, eppure
tanto hanno fatto che non son sicuro
neppure di un amico e questo oscuro
destino è per me fatto boia e scure.

Ma se Dio concedesse che la destra
potessi dare senza pentimento
e render voce a voce e alla maestra

strada di un cuore osare senza stento,
vincendo il dio che dentro mi sbalestra,
sarebbe il paradiso in un momento”

Ebbene, ne La fine del tempo, un volumetto lieve, sottile, quasi trasparente come una filigrana di luce eclatante in cui risplendono, in delicate rifrazioni i dettagli di minuscole dimensioni, le visioni ultime, enormi, estreme, dello scrittore, a un tempo terse come un pomeriggio di maggio e sfumate come nebbie novembrine – il Meglio di Milano –, le sensazioni, le attese i ricordi, gli affetti – amicizie e famiglia –, (1) la sua città esteriore, che si fa metropoli, (2) la sua vita personale, la contemplazione, (3) la sua religione, Dio e l’“anarcronismo”.

*

Il Quadrelli de La fine del tempo è l’uomo e poeta che:

1) Si radicò nella sua Milano, e non in Italia, non sua.

“Sullo sfondo di un cielo azzurro e strano
Sei ancora tu, Milano.
Da quanto ti amo, da quanto ti amo?
Tu dài agli occhi tutto ciò che bramo.

Con te mi appago solo di guardare.
E non mi stanco mai di camminare.
Se non fosse il buon senso che resiste
direi che tu sei tutto ciò che esiste”

L’Italia, per Quadrelli, è uno sfondo astratto e nocivo alla vita, mentre Milano ha la dimensione di una piccola patria dunque universale, come nel caso delle grandi voci venete di Comisso, di Piovene, di Zanzotto, non per gretto localismo, ma semplicemente perché è nel luogo contemplato nel suo senso più vero, nel suo dettaglio, nelle sue ortaglie, nelle sue famiglie, nelle cose e nelle parole di una realtà quotidiana che può osservare le dinamiche del mondo intero (con una partecipazione civica attiva, visto che con l’amico e collega Principe fondò il Movimento per il riscatto della città, con relativo manifesto programmatico) col privilegio di vivere una Milano che ancora reca qualche traccia di un tempo e di un ordine antico nel quale si può respirare, pur sempre più ai margini, un po’ d’aria di vita contadina e di corte, a misura d’uomo, prima che l’armonia fosse del tutto devastata sul finire degli anni Settanta e poi vanamente inseguita come oggetto ormai fossile di vane riscoperte tra gite fuori porta e formule New Age.

*

2) Sperimentò la lucida contemplazione della flânerie.

“E intanto andare, andare con le gambe
seguire l’estro, prendere vie strambe,
finché appare una meta e verso quella
dirigersi nel buio o semibuio della
strada che non va da alcuna parte,
e poi tornare sia a caso o ad arte
donde era la partenza e verso casa
incamminarsi. Domenica persuasa
di esistere per niente o per il tutto che
cerchi e ricerchi invano ma che c’è”

Tipo scapigliato sui generis, ben descritto da Sciffo, Quadrelli è un flâneur, e come pochi ce ne sono stati nella letteratura italofona in cui la figura che Benjamin scorse in Poe e Baudelaire latita (tra le eccezioni: Campana e Dossi, Delfini e Saba) –  con la sua peculiarità di passante dallo sguardo mai allucinato e sempre radicato come gli alberi dei viali da lui tanto amati – ma che alla maniera del poeta de Lo spleen di Parigi occhieggia “uno scorcio sghembo” in cui coglie i pioppi e i fantasmi – spiriti di un passato presente che accoratamente canta come le “[…] reliquie vive / della mia mente che pregando scrive”. Pur radicato in Terra, come in Cielo, Quadrelli del flâneur ha la coscienza della fugacità, espressa in A mio padre (“così la vita passa e noi lasciamo / poca orma come in setto che posa sopra un ramo. // Chi verrà dopo soltanto potrà dire / se il nostro sogno è un mito che non dovrà morire”). “E intanto andare, andare con le gambe / seguire l’estro, prendere vie strambe”, e guardare, e ascoltare, e cogliere.

*

3) Scelse l’anarcronismo, la tradizione e non il tempo.

“Siamo tuoi figli, solo a te crediamo
prima di tante promesse mentite:
al mondo che ci accoglie non chiediamo
niente. Lo sappiamo, da lui verranno le ferite.

Ma non esse soltanto, perché sei
in lui come sei in noi, e il tuo richiamo
sarà in noi come in lui e tu non crei
niente che qui non cada come un amo”

In queste prime due strofe di Coro dei bambini a Dio, del 1982, c’è tutta la certezza di Quadrelli nel Padre, mentre altri versi, come quelli della poesia Il Dio vivente, pubblicata nella raccolta Ironia, edita da Rusconi nel 1980, esprimono una vertigine di sé nel limite tra solitudine individuale (canta: “[…] cane solo, / mi mordo anima e mani”) e presenza trascendente comunque personale di fronte alla quale si plasma la maschera del poeta cattolico – maschera che non è falsificazione ma essenza assoluta – nella relazione col divino e col tempo non cronologico:  l’atemporale in cui dimora l’anarcronismo quadrelliano – vertigine della stasi in attesa di fronte a ciò che attende: “Ciò che non so e mai potrò sapere / mi aspetta lì fermo, nelle sue sfere”, scrive in un distico di una poesia priva di titolo del 1983, lo stesso anno in cui in un altro verso afferma, accantonando ogni lieve agnosticismo che è insito dei dubbi del cristiano, una necessità che è a un tempo la più semplice delle certezze: “siamo figli di Dio, della Memoria”.

*

Quadrelli ha un suo ottimismo… Quello di chi dice dei e dei no: “Io riconosco il buono in tutto o quasi / perché già tutto o quasi ho rifiutato”, scrive infatti ne L’ignoto, scritta del 1983, nella quale aggiunge che “è impossibile che ci sia anche un sol uomo / che non abbia in sé un bene oltre che un male”, con la coscienza espressa nel distico finale de Il Paradiso, del 1982: “Il Paradiso non è altrove, pare: / e la sua chiave ha un nome solo, amare.” Due versi che sigillano il ricordo di un paradiso già visto, l’“eterna” Stradella, cittadina paterna in provincia di Pavia, dove visse alcuni anni della prima infanzia, e che colloca ormai fuori dal tempo. “E senza fretta mi impongo di aspettare / sapendo ciò che ancora voglio: amare”, scrive, e ancora, nella sua traduzione di Alberi di Natale di Eliot, il 24 dicembre del 1983, vigilia del suo ultimo Natale, nei versi finali vuole sprofondare nella totale atemporalità di cui l’autore di Saint Louis fu il maestro, “perché l’inizio ci farà ricordare la fine / e il primo avvento ricorderà il secondo”…

Già ne Il linguaggio della poesia lo scrittore lombardo diceva della necessità di “attendere la fine del tempo per iniziare un altro tempo”, e, coerentemente, nella sua ultima poesia datata 19 marzo 1984, “e a noi resta l’attender certo, resta il poi”, suggella La fine del tempo e la propria esistenza terrena.

Queste sono le sentenze del Quadrelli de La fine del tempo, l’ultimo Quadrelli, che muore il primo giorno d’aprile. Dopo i rumori del tempo, con Osip Mandel’stam, la sua fine, con Rodolfo Quadrelli, nell’eterno, nell’anarcronismo. Il suo Silenzio. La sua Milano. Un titolo fondamentale del Novecento.

Quadrelli pregando scriveva e scrivendo pregava.

Non si può richiedere di più da un poeta cristiano.

25 aprile. Liberazione. Da cosa?

Proposta. Liberazione dai libri di Moravia, Eco, Saviano e Parente – per La fine del tempo.

Marco Settimini

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La mia Milano di Rodolfo Quadrelli

Certe mattine a Milano è bello andare senza meta, sapendo che la strada di casa si ritrova sempre. Scendo dai quartieri transitati a strade meno note, e nel cielo più azzurro che abbia mai visto o nel grigio, mi si conferma d’un subito la Milano delle ortaglie; miracolo che possa rimanere! O forse un legame occulto ai movimenti umani trattiene per me e per ognuno la religione della periferia? Dura dal secondo Ottocento ed è sempre per sparire, ma si vede che Scapigliati e Divisionisti sono più forti delle leggi di ferro dell’economia. Dicevo che scendo perché mi sembra di scendere e a tratti di affondare nell’altro consolatore di un cortile senza fine, tra una strada e l’altra (e spesso ci si può passare), sogguardando ora l’artigiano che tramesta ora la donna che asciuga ora il fanciullo che ancora ruzza e ride, tra una insegna di carbonaio e un’altra di ferramenta. La realtà imita la letteratura. Dietro le ringhiere si muove una vita che sento ancora diversa dalla mia e cedo al sogno di amori e dolori nei quali ci si può integrare. Non ho mai cercato una Ninetta del Verzee; piuttosto un’Arabella.

Ma è più buono e anche più bello scendere più giù, alle ortaglie che sono per lo più floricolture e, alle rogge, non sempre luride, che si snodano tra spazi aperti punteggiati di indeciso verde, tra un Naviglio e l’altro. È bello guardare in alto, verso finestre di case sospese, ancora in città, su così strane e familiari prospettive. Nascere, vivere e morire lì, tra finestra e cortile, tra prato e balcone, tra casa e chiesa, significa per me mantenere un’altra storia accanto a quella conosciuta e patita da tutti: significa nascondere nel cuore un fervore che forse regge nei tempi difficili, che forse la vince più che non si creda sul crescere dell’odiosamato Milanon.

Da quanto tempo ci vengo? Da venticinque anni almeno, e ricordo la mia adolescenza come sopportabile, pur nel trauma della vita, per queste conferme e questi ritorni: per queste integrazioni attaccate al filo del mio desiderio ma anche di una tradizione ben reale e ben gentile. Ci venni anche con gli amici, verso i diciassette anni, illustrando loro le mie scoperte: qua un canale, là un deposito, qui un orto, là una cascina, e scoprii che anche loro, discretamente illetterati, perseguivano ingenuamente e intelligentemente una tradizione di verità, di resistenza e di durata: un ambiente nel quale soltanto ci pareva che sarebbe stato riconoscibile il nostro destino, quella parte di Vita che toccava a noi ora attraversare e che si sarebbe ripetuta in altri, attingendo al mito. Non bastandoci i piedi, andavamo anche in bicicletta e la passeggiata rituale diventava scampagnata. Sul margine dell’adolescenza era bello allontanarsi sempre più e seguire la straducola che costeggia il ruscello, dietro la minaccia della città che sale e affaccia i suoi stupiti balconi dove brucano le pecore.

Tra città e campagna: era uno dei miti degli anni Cinquanta che noi vivevamo! E le ultime speranze di una civiltà umana perduravano in noi, che nel cuore non ancora spezzato conciliavamo l’inconciliabile. Ahi, era prossimo il momento in cui l’ottuso noleggiatore di biciclette ci rifiutò il mezzo che egli non teneva più, e un’altra integrazione, l’integrazione nella storia, aspettava Alberto, Walter e me. Ci volevano motorizzare (ma con me non ce l’hanno fatta). La Storia è stata un trauma più duro di quello della vita; eppure ho persistito a rivisitare a piedi i miei fantasmi, e a perseguire il sogno dell’amore o anche del dolore possibile tra me che guardo su dalla stradella tutta polvere e sassi e una immaginata che sistema la biancheria sul balcone. Isole ormai mi apparivano le ortaglie, i baracconi, le sparse case; il tessuto era interrotto; l’integrazione tra città e campagna, e tra me e quella città-campagna, impossibile. Pure San Cristoforo e la Barona, Corso San Gottardo e via Argelati esistevano ancora come prima o quasi, e, sembrando non poter tramontare mai, mi hanno visto ancora a lungo vagabondo inseguire la felicità come idea pura, intramontata anch’essa e forse intramontabile. Mia moglie abitava in Corso San Gottardo 1: ho fatto conoscere anche a lei quei familiari misteri di Milano, molto prima della Festa dei Navigli. Se il De Marchi ci assiste, forse anche i miei figli li conosceranno intravedendo anche loro l’ironia della storia che non va solo avanti ma anche indietro, che gira e rigira a serpentina e torna a casa, misteriosamente, come me che da piazzale Miani decido di rientrare col 12.

Rodolfo Quadrelli

*La prima puntata del ciclo dedicato a Rodolfo Quadrelli la leggete qui; la seconda è qui.

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