Houellebecq: un’erezione lunga 750 pagine
Libri
Fabrizia Sabbatini
“Gli uomini sono diventati macchine”. Un saggio di Thomas Carlyle
Politica culturale
Tutto sta nel titolo dell’opera più nota, “Lama’at”, qualcosa come “divini lampi”. A dire della fugacità del tutto – soprattutto, del proprio passaggio su questa terra –, dell’ispirazione ferina, che procede per improvvisi assalti – del fedele che deve farsi, allo stesso tempo, preda di Dio, Suo prediletto predatore.
Fakhr al-Din Iraqi sarebbe nato nel 1214 a Komjan, Iran, da famiglia importante. Leggendaria la sua precocità: a sei anni passa a memoria il Corano, a diciassette è già insegnante in una scuola coranica, ad Hamadan. Geniale nell’interpretazione coranica, percepisce i sigilli esegetici come un ostacolo alla propria ricerca spirituale. Comincia così il fatale pellegrinaggio di uno dei maestri più atipici della tradizione islamica sufi. Prima, si unisce alla Qalandariyya, confraternita di mistici erranti che pratica l’antinomismo, la via negativa e l’arte dei dervisci. Dopo due anni di vagabondaggi in India, Iraqi approda a Multan, in Punjab, dove diventa discepolo di Bahauddin Zakariya, erede del lignaggio di Suhrawardi. Qui apprende l’importanza dell’erudizione, a macularsi tra gli altri in abiti ordinari, senza ostentare il carisma della propria ricerca – impara a celarsi e a riferire in versi le proprie esperienze. Apprende a misurare il credo alla storia. Sposa la figlia del maestro, prova a mettere famiglia: riceve il compito di guidare la comunità mistica.
Le vicende storiche, tuttavia, si intrecciano all’inquietudine di Iraqi. Un gruppo di adepti si ribella alla successione e il mistico poeta deve lasciare Multan per sempre. Dopo un pellegrinaggio alla Mecca, Iraqi è in Anatolia, a Konya, centro radiante della nuova sapienza. Vuole ascoltare gli insegnamenti di Sadr al-Din al-Qunawi, il grande allievo di Ibn Arabi. Grazie a lui, penetra nei segreti del linguaggio ‘poetico’: allarga gli argini grammaticali perché Dio, frequentando il verbo, abbia spazio, si procuri un nido tra il biascicare delle vocali. La scoria umana – la ragione intesa come limite – deve sciogliersi per far tralucere l’alfabeto di Dio. Da qui, l’importanza della poesia, la necessità dell’ebbrezza linguistica. In questo periodo, Iraqi compone i suoi “divini lampi”: raccolta di versi, spesso brevissimi, che hanno lo scopo di dissigillare la mente, di squadernarla per immergerla in Dio. L’arte del paradosso è portata agli eccessi: come può la coppa del mio cuore mortale contenere l’eterno oceano divino?
Dopo la morte di al-Qunawi, Iraqi vuole conoscere l’opera di Rumi: lo ascolta e pare che partecipi ai suoi funerali, nel dicembre del 1273. La sua fame di sapere è implacabile; Iraqi rifiuta ogni ruolo – quello di maestro, anzi tutto – consapevole che rallenterebbe la sua rincorsa verso l’Unico. Alcuni rivolgimenti politici lo obbligano a spostarsi a Sinope, città che presta soccorso ai sufi, altrimenti osteggiati dai legionari della Legge. Lo troviamo poi al Cairo, dove ottiene il sostegno del sultano locale; infine, insieme al figlio, Kabir al-Din, è a Damasco, dove muore, nel 1289.
Nei suoi versi, l’Amore ha la figura della fenice, uccello dall’evanescente solarità, che non lascia traccia e uccide senza essere visto. L’Uno, invece, si disperde, su questa terra, in migliaia di immagini, tutte egualmente veritiere e fallaci. Conoscersi vuol dire perdere se stessi: solo riconoscendosi niente si può sfiorare il tutto. Iraqi è l’icona del cercatore che mai si contenta, all’ostinata ricerca di maestri – che brucia i maestri come rivoli di carta, che precipita nella sapienza fino al fondo che non reca eco – ed è lì, vuoti, che accade l’Incontro. All’appuntamento si arriva dopo essersi scotennati, per questo sapere, in fondo, è pratica marziale.
I versi di Iraqi, tuttavia, sono destrieri di un mistero. Le uniche notizie che abbiamo dell’esistenza reale del poeta sono nell’anonima introduzione al suo divan. La vita di Iraqi è narrata con sfolgorio epico, ma quel testo è composto non prima del XV secolo. Il nome di Iraqi appare per la prima volta in un compendio di “eventi storici” (“Tarikh-i guzida”) redatto quarant’anni dopo la sua morte. Iraqi passa leggero tra i mistici maestri dell’Islam, a piedi nudi – di sé si è sforzato di esibire la cancellazione. Dicono – a decoro dei suoi alti meriti – che sia stato sepolto al fianco di Ibn Arabi; eppure, della sua tomba non c’è traccia. Tutto questo, se possibile, consegna ai suoi versi una densità segreta, un volo.
***
Fakhr al-Din Iraqi
(Komjan, Iran, 1214 ca. – Damasco, 1289)
Hai cercato la vita incurante dell’Amico
neppure un momento hai speso davanti alla porta
dell’amore: mio Dio! Siediti e piangi!
Il tempo della vita autentica è perduto.
*
Il primo passo dell’amore:
perdere la testa. Di seguito
sacrifica il misero ego:
allora saprai rinunciare
alla vita e sopportare ogni
dolore. Così dunque procedi:
leva la ruggine dell’ego
dallo specchio di te stesso.
*
Amore-fenice non puoi intrappolare
cielo e terra non possono nominarlo
nessuno sa dove abiti
il deserto non svela tracce
il mondo versa le ultime gocce
ma l’acqua non esce dalla coppa:
dall’alba al tramonto accarezzo le sue trecce
in un luogo dove non esiste notte né giorno.
Vento mattutino, se passi per il suo nido
porgigli questo misero messaggio:
Tutti al mondo tutto vogliono
io desiderio solo le tue labbra
da quando il mio cuore è incatenato
a te, ho sapienza in lacci e in trappole –
congiungiti in amore a Iraqi
anche se è indegno di un simile dono.
*
Amato, ti ho cercato ovunque
qui e qui – a chiunque di te
ho chiesto notizia. Infine
ti ho visto in me stesso
e ho scoperto che siamo identici.
Ora mi vergogno al pensiero
di essermi messo sulle tue tracce…
Se perdi te stesso lungo la via
ti sia chiaro: Lui è te, tu sei Lui.
*
Il mondo: nient’altro
che un sentiero
tra luce e ombra.
Decifra il messaggio
di questo cartiglio
segnato nel sogno:
distingui il tempo
dall’eterno.
*
Che ti conoscano
o ti ignorino, tutte
le creature, ora e sempre
s’inclinano verso di Te:
amare altro
è futile
vento rispetto
al Tuo profumo
nessun’altro
è degno di amore.
*
Il suo silenzio mi parla
sussurrano le sopracciglia
l’occhio è un alfabeto – ecco
cosa mi dice: “Io sono Amore
non abito il cielo né la terra
sono la Meravigliosa Fenice:
di me non troverai traccia
con l’arco delle ciglia e i dardi
dell’iride, vado a caccia per i mondi
ma nessuno sa dove nascondo le armi.
Come l’astro, illumino ogni atomo
non puoi vedermi perché sono manifesto.
Parlo ogni lingua, ho migliaia di orecchie
ti meravigli questo: la mia lingua
e le mie orecchie sono invisibili.
Al mondo sono il solo a esistere:
nessuno può somigliarmi”.
*
Oste, riempi la coppa
di quel vino:
mio cuore, mio credo
mia tenera vita.
Bere è la mia liturgia?
Fede significa:
sorseggiare l’Amato
da questo calice.
*
La sua bellezza
s’irradia in migliaia
di volti: in ogni atomo
è diversa – Egli
si mostra in ogni istante.
Uno è la sorgente
di tutti i numeri:
il tempo si frantuma
e sgorga il dubbio
l’incanto con cui
ci incatena.
*
Più fisso il Tuo volto
più gli occhi si inclinano
in ginocchio verso di Te
come chi è assetato
e sboccia le labbra all’onda
sulla riva di un oceano:
il destino della sete è
moltiplicarsi. Non cercare
perché non troverai: solo chi
trova l’Amico lo cerca, ne anela.
*
Canto
il piacere ineguagliato
della zingara
mendico
gettando il berretto
a terra – ho i sandali
consunti – così
prendo a calci la vita
e sacrifico il mio cuore –
commercio
nel caravanserraglio
di questo e dell’altro mondo
alla ricerca dell’Uno
*
Voglio l’Unione
ma lui si separa da me
il mio desiderio
lo abbandono al suo
Tutto ciò che l’Amato fa
è adorabile:
cosa può allora
il demente amante?
Cerco la separazione
perché voglio l’Unione
libero da entrambi
vivo nel tuo amore.
*
I miei occhi così fermi
sulla tua figura
è la tua figura
tutto ciò che guardo
*
Conosci te stesso: nube
alla deriva dal sole
rinuncia ai sensi
e troverai il più intimo astro
*
Sei nulla
e ti unirai all’Uno
quando niente diventi
tutto ottieni
*In copertina: E. J. Sullivan, Time and Death, 1889