30 Maggio 2023

“Perché Dio sa l’amore dei dirupi”. Sulla poesia di Giammarco di Biase.

È da poco uscito per l’editore indipendente Ensemble (Roma) S’aggrinza un astro, esordio letterario di Giammarco di Biase (foggiano, classe 1993). Nel panorama sconfinato di poeti emergenti e no, si potrebbero etichettare la maggior parte delle opere proposte come forme di uno sperimentalismo che s’illude di percorrere una via d’eccellenza. Demolire o accogliere il lettore assuefatto sembra essere il mantra di una generazione che, pur di guadagnarsi l’ambita riconoscibilità, finisce per rassegnarsi al ruolo di comprimario del medesimo circoletto. Eppure, oltre ogni critica – lecita o meno che sia – alcuni di essi si ergono, attraverso la distanza dal coro, come singolarità indecifrabili nel contesto globale, inserendosi di prepotenza nel solco dell’eventualità di qualcosa di nuovo; di archetipico perfino.

Vale sempre la pena ricordare una possibile definizione di Patrizia Valduga in merito all’atto poetico: il punto di sella, una funzione matematica che indica il momento in cui due sistemi contrapposti si trovano in equilibrio. Tuttavia, oltre ogni tentativo di circoscrivere lo sconfinato gesto dell’arte, l’opera di questo giovane autore sembra davvero contaminata dall’ambizione nietzscheana di un ritorno alla tragedia, a quella convivenza cioè di spirito apollineo e dionisiaco che si dibatte tra giovinezza e maturità del pensiero. Una poetica che si ritrova in quel punto che non appartiene ancora all’onirico ma è ormai distante da ogni consistenza ‒ tra l’ebbrezza e la sobrietà ‒ nel tentativo di innestarsi nel nucleo denso dell’attimo, che attraverso il componimento ne provoca la percezione.

In effetti, a pensarci bene è proprio di questo che la poesia dovrebbe curarsi, soprattutto quando priva di esplicitazioni e avulsa dai sacri tecnicismi della metrica. Solo così, infatti, la libertà stilistica può emergere come una contrapposizione altrettanto coerente: un’antimateria che ne è l’immagine riflessa e prossima a quel silenzio di suoni che lo specchio non è in grado di restituire.

Tu per me istinto di mani
nell’etere che sottile
aggrinza un astro.
Mi presero su corolle
gli angeli d’aurora boreale
spingendo sugli arti incontrarono
me sul tuo nome come un calendario
un boato, fui un istante, un qualcosa
per qualcuno, sulla cocca
di frecce d’oro.

Con il ricordo di te
già nacqui in un testamento
che diceva i polsi stretti
in un grido
dovranno somigliarti.

Ma cos’è (o chi) quest’astro che s’aggrinza di cui il titolo ci parla, se non materiale umano che implode come una stella vinta dalla gravità? Un astro che collassa perché ha esaurito sé stesso e torna al nucleo, come la poesia quando è sincera, con un nuovo significato in grado di piegare una realtà rastremata dall’imbuto dell’apparenza. Così, come un corpo celeste che s’accartoccia sotto la volontà di rappresentare l’indicibile ‒ poiché solo ‘la parola’ può essere detta ‒ Giammarco di Biase si spinge oltre l’orizzonte del visibile, oltre la logica di una costruzione meditata e accessibile per mostrare la frantumazione di un verso sfuggente, che disorienta e ci lascia smarriti tra leggi che determinano l’altrove.

Sola la tristezza
che lascia alla morte
un senso di pace come
un grande evento essere
pace di sé mentre
soli si muore

e la tristezza così dissoluta
finisce per spore a profumare
tra gente mimetica si fa ricordare
ma da bambini mentre si muore
nel bicchiere di un padre
o nella biglia si balla un crepare

sola la tristezza
rimane a guardare.

Come scrive Elisa Ruotolo nella prefazione: «Leggere quest’opera prima significa entrare in una dimensione in cui l’Eden si mescola al tellurico, generando una mistica del quotidiano che sa di organico e celeste. Di Biase scompone immagini e le rigenera nuove, inedite: le rende indisponibili a un’ermeneutica conclusa». Per quanto paradigmatica possa essere, tutta la raccolta è pervasa da un sentore orfico che rimanda al passato ‒ un campaniano intento di rottura con la contemporaneità e per questo ancor più avanguardista ‒ attraverso l’oscurità di un linguaggio che sbaraglia le convenzioni per approdare, come sosteneva Apollinaire, a «un piacere estetico puro, una costruzione che colpisce i sensi […]». La rottura, pertanto, si fa volontà di una fede nuova, necessità di credere senza dover toccare a tutti i costi la carne del Cristo per convincersi dell’autenticità di ogni nostra ferita, e dunque un ritorno alla materia senza personalismi da consenso: è materia che trascende attraverso la parola nella tensione spirituale del verbo.

Allora, sebbene ravveda nei versi di questo poeta l’intento di una speculazione materialista, indagatrice però di un empirismo illogico che si contrappone a sé stesso, la scomposizione di concetti che tendono al divino come giustificativo dei nostri assilli terreni dona al lettore un senso di pace non risolutiva: una consolazione di resa, l’accettazione di questa finitudine che ci rende così umani da non poter fare a meno della morte come della vita, e che Giammarco di Biase sembra aver intuìto.

Darci alla morte
felici, ai burroni un sorriso
aperto tra ballate
di rondini, per vedere
Dio che ci somiglia.
Pensa sempre
l’uomo su una soglia
perché Dio sa l’amore
dei dirupi come suo figlio
il pianto ai compleanni.

Roberto Masi

Gruppo MAGOG