14 Aprile 2020

“È un poema sulla felicità”. La più bella poesia mai scritta (letteralmente). Dylan Thomas, Rilke e la Cabbala

Nel 1950 Dylan Thomas conferma che quello sarà il suo progetto poetico più ambizioso. Ovviamente, unendo la regalità dell’ispirato alle boiate di un ubriacone, lo fa in pubblico, nell’uragano dell’innocenza, il 25 settembre, durante una trasmissione della BBC, una delle conversazioni radiofoniche che aveva iniziato a tenere dal 1945.

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Nel 1950 Dylan Thomas comincia il redditizio e folle ciclo di tour negli Stati Uniti. Ha poco tempo per scrivere, beve parecchio, è pieno di progetti irrisolti – tra l’altro, scrivere un libretto per Igor Stravinsky, che musicherà per lui un In Memoriam Dylan Thomas –, è inseguito come una rock star, una specie di Elvis della poesia. Più il mondo gli riconosce lo status di Dioniso redivivo, di Orfeo dell’era nucleare, più lui s’insinua negli inferi dell’alcol, della morfina. Tra una gita negli States e l’altra – letale, come si sa, la performance a New York del 1953 – DT compie un folgorante viaggio in Iran su cui occorrerà fare chiarezza.

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Dylan Thomas è tutto ciò che chi lo guarda desidera essere – una vita da poeta, l’illusione di poter guadagnare allineando versi. Finché, a forza di desiderarlo, ne hanno fatto pasto, occhi ardenti di giudizio lo hanno ucciso.

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Nel 1950 Dylan Thomas sta perfezionando In Country Sleep and other poems, che sarà edito da New Directions due anni dopo. Nel suo progetto la favola in versi In Country Sleep (“Nel sonno campestre”) e In the White Giant’s Thigh (“Nella coscia del Gigante Bianco”, magnifica, senti qui: “Per gole in cui molti fiumi s’incontrano, i chiurli piangono/ Sotto la luna incinta, nell’alto colle di gesso,/ E là stanotte cammino nella coscia del gigante bianco/ Dove donne infeconde come sassi giacciono ancora bramando// Le doglie e l’amore benché sepolte da molto tempo”) sono due capitoli di un unico poema. La porzione decisiva di questo poema si intitola In Country Heaven. Naturalmente, il progetto resta incompiuto, perché il poeta muore, sempre, nell’atto di realizzarsi, quando il meglio deve ancora compiersi.

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Dettagli interessanti. In Country Sleep fu composta e letta, per la prima volta, nel 1947, all’Isola d’Elba. Dylan Thomas era ospite di Luigi Berti, poeta e traduttore – da Eliot a Melville, da Thomas Hardy a Robert Penn Warren – che merita di essere riscoperto. Insieme a Renato Poggioli, nel 1946, Berti aveva fondato la rivista di letteratura internazionale “Inventario”, nel cui comitato di redazione c’era gente come Nabokov e Eliot, Allen Tate e Robert Lowell. Thomas si incuriosisce, sbarca in Italia, Berti gli fa da guida a Firenze. Vulgata vuole che DT, assalito dai poeti italici – Eugenio Montale traduce, in foggia dimenticabile, una sua poesia: “La forza che urgendo nel verde calamo guida il fiore…” – preferisca ritirarsi a bere con Berti, mente fina e gola buona. In sintesi: nel 1949 “Inventario” ospita In Country Sleep.

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Ecco il progetto della poesia più bella mai realizzata. “Questo lungo poema-a-venire sarà intitolato In Country Heaven. La divinità, l’autore, l’agricoltore della via lattea, la causa prima, l’architetto, il lampionaio, la quintessenza, il Verbo in principio, l’oppositore antropomorfo, la materia prima di tutti gli uomini, il capro espiatorio, il martire, l’artefice, colui che sempre patisce – Egli, sulla cima di una collina celeste, piange ogni volta che uno dei suoi mondi precipita, muore, svanisce urlando, si dissecca, esplode, si uccide. E, quando Egli piange, la Luce e le Sue lacrime scivolano giù insieme, tenendosi per mano. Così, al principio del poema, egli piange, e il paradiso piomba improvvisamente nell’oscurità. Cespugli e civette si spengono come candele. E gli abitanti del paradiso si rannicchiano tutti insieme sotto le siepi e, nell’oscurità salata di lacrime, fanno congetture su quale mondo, quale stella, quale delle loro ultime patrie rotanti se ne sia andata per sempre dai cieli. E questa volta, da siepe a siepe, si sparge la paradisiaca voce che si tratti della Terra. La Terra si è uccisa. È nera, pietrificata, avvizzita, avvelenata, scoppiata; la pazzia l’ha fatta imputridire e l’ha distrutta; e non ci sono più creature – felici, disperate, crudeli, buone, torpide, focose, tenere, ottuse – a inseguire bestialmente e brevemente i propri giorni come nemici, su quella putrida faccia. E, a turno, quei celesti uomini-siepe che una volta erano dei terrestri, si raccontano l’un l’altro nella lunga notte, mentre la Luce e le Sue lacrime cadono, ciò che ricordano, ciò che percepiscono nei deserti sommersi e nello spiraglio aperto della mente, ciò che sentono tremare sui nervi d’un nervo, ciò che sanno nei loro cuori paradisiaci di quel luogo. Ricordano posti, paure, amori, esultanza, infelicità, gioia animale, ignoranza e misteri, tutto ciò che noi sappiamo e non sappiamo” (da: Dylan Thomas, Molto presto di mattina, Einaudi, 1980).

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DT è un geniale narratore, mescola, con inaffidabile magniloquenza, Genesi e fiaba, Apocalisse e filastrocca – c’è del metodo nella sua candida follia (“La visione cristiana di Thomas è tutt’altro che ortodossa, e spesse volte sembra che si avvalga delle immagini bibliche semplicemente come di un serbatoio di espedienti comunicativi primari”, scrive Renzo S. Crivelli, ma è proprio questa la strategia mistica, riesumare il millenario e dargli nuova vita altrove).

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Il dio che crea e distrugge innumerevoli mondi è proprio della tradizione induista – Shiva danza sul cosmo, al suono del tamburo, sbriciolando i pianeti e inventandone altri, senza sosta – ma anche dell’esoterismo ebraico. “Nel Midrash Bereshit Rabbà Rabbì Abbahu racconta che Dio, prima di creare il mondo in cui viviamo, creò altri mondi che poi distrusse” (Elio e Ariel Toaff, Il libro dello splendore, Edizioni Studio Tesi, 1988); una tradizione simile è raccolta dallo Zohar, il sacrario dei cabbalisti. D’altronde, nel Midrash delle Lamentazioni, Eichah Rabbah, è narrato il pianto di Dio – “Se tu non mi lasci piangere andrò in un posto dove non ti è permesso andare e piangerò in segreto”, dice Dio a Metatron, “il capo degli angeli”. Le lacrime luminose di Dio, custodite in cisterne, rimandano alla teoria della “frantumazione dei vasi” della Cabbala luriana. Naturalmente, questi riferimenti non appartengono a Dylan Thomas, che vive nell’incanto poetico, nell’arcano del veggente – il poeta è un vagabondo tra i mondi.

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Resta il fatto – acquisito da tempo – che l’intuizione di In Country Heaven scintilla nella mente di DT molti anni prima della sua (parziale) esecuzione, leggendo Rilke. “Stando a Vernon Watkins, lui e Dylan Thomas passarono gran parte del giugno 1941 leggendo le Elegie duinesi di Rilke, ‘nei dintorni del castello di Laugharne. Il poema eccitò molto Dylan’. Ricorda Watkins che ‘Dylan chiamava Rilke ‘quel ragazzo stravagante’. Rilke, certamente, avrebbe utilizzato il medesimo aggettivo per definire Dylan Thomas. Ciò che è singolare è che nei loro lavori più tardi, più ambiziosi, le Elegie e In Country Heaven, Rilke e Thomas frequentino lo stesso paesaggio lirico, la stessa tensione teologica, gli stessi interrogativi” (Eric J. Sundquist, In Country Heaven: Dylan Thomas and Rilke, “Comparative Literature”, vol. 31, no. 1, Winter 1979).

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“Il poema è fatto di questi racconti. E diventa, alla fine, un’affermazione della splendida e terribile importanza della Terra. Diventa una lode di ciò che è e di ciò che potrebbe essere su questa massa sospesa nei cieli. È un poema sulla felicità”, conclude Dylan, in radiodiffusione. A volte, le intenzioni hanno una intensità poetica più alta dell’opera, sono esse stesse opera, il vaso di luce che custodisce la luce. (d.b.)

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In Country Heaven

Sempre, quando lui, nel borgo del paradiso,
(Che il mio cuore sente),
Segna la croce sull’Est del petto, s’inginocchia,
Timoroso verso i suoi pianeti,
E piange sulla collana umiliata,

Nella gioia e nel bosco di bestie e uccelli
Nella valle canonizzata
Dove le stelle simili a manna squillano pascolando
E gli angeli corrono come fagiani
Attraverso le navate di foglie,

Luce e lacrime scorrono insieme
(Mano nella mano)
Dalla pupilla dei campi, sale e sole, astro e dolore
Lungo la mascella e in un nitrito
Scende nel buio che bruca ovunque.

Nei villaggi del cielo dondolano lampade,
Nei boschi sepolti
Civette e cespugli si spengono come candele,
E i campi serafici dei pastori
Si dissolvono con i loro rosei

E bianchi greggi, scintillanti di Dio, agnelli sfolgorano nello scampanare
(Il suo enigma gentile);
Il falco è una stella cadente che acceca le nuvole
Sopra le contee dalla faccia scura
Ascolta i campanili e i ciottoli

Delle dodici città degli apostoli che tambureggiano nella sua notte;
E la volpe smisurata è come fuoco
Fiammeggia tra i galli alla caccia
Nelle fattorie del paradiso
Ma sono tutti nelle profondità del sonno.

Perché il quinto elemento è la pietà,
(Pietà per la morte)…

Dylan Thomas

*In copertina: Dylan Thomas in una fotografia di Rollie McKenna, settembre 1953

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