Nata Edith Newbold Jones, a fine gennaio del 1862, a New York, da una famiglia ricchissima che discendeva dai Rensselaers, possidenti olandesi che per primi piantarono proprietà e pretese in quella fetta d’America, amava farsi fotografare con i cani. Il contrasto è efficace: il viso di Edith appare perplesso, il taglio degli occhi, leggermente inclinato, dà una fasulla percezione di debolezza, mentre i cagnolini hanno un muso incattivito, umano. Indossava cappelli stravaganti, fu educata da precettori privati, la madre le impedì risolutamente di leggere romanzi prima del matrimonio, non s’adattavano alla dignità di una donna di mondo: lei, allora, poco più che ventenne, si sposò con un banchiere che di cognome faceva Wharton. Edith Wharton scriveva fin da bambina, i suoi autori favoriti erano Thomas Carlyle, Victor Hugo, Byron e John Ruskin; a 15 anni aveva già compilato un romanzo di 30mila parole e svariate poesie. I suoi testi, accolti dall’“Atlantic Monthly” furono pubblicati anonimi, o assegnati a tale E.A. Washburn, imparentato a Ralph Waldo Emerson: per i Jones sarebbe stato uno smacco se la società newyorchese avesse saputo che la figlia era scrittrice – meglio darsi alla prostituzione. Il pittore di famiglia, Edward Harrison May, dipinge Edith bambina e ragazza: il viso è sempre quello, indomabile sotto la superficie, come una scia di draghi nelle profondità di un quieto lago di montagna.
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L’irrefrenabile inquietudine di Edith Wharton s’intuisce dal numero di viaggi: attraversò l’Atlantico una sessantina di volte; adorava l’Italia, dal 1911 si trasferì in Francia, dove incontrò molti amici, tra cui Joseph Conrad, Jean Cocteau, Henry James; quest’ultimo diede fiamme al suo ingegno, la adorava. A quell’epoca, aveva già esordito come romanziere di genio, pubblicando La casa della gioia, La scogliera, Ethan Frome, soprattutto. Soprattutto, si era separata dal marito, nel 1908, quando la depressione del ricco banchiere svoltò in malattia mentale grave. Nel 1913, in un tripudio di scandali, preferì il divorzio – ma tutti sapevano che la Wharton era nata per stupire.
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Da allora – era stata sposata per 28 anni, aveva passato i 50 – per Edith comincia una nuova vita. Avventurosa. Durante la Prima guerra fonda progetti per aiutare disoccupati, bambini e indigenti, supporta gli americani in Francia, passeggia tra le trincee e surfa tra i proiettili: “Ci ha svegliati il rumore delle pistole, sempre più incessanti… pareva che la notte avesse partorito un nuovo esercito dalla terra, nemico”. I suoi reportage, raccolti in Fighting France: From Dunkerque to Belfort, furono bestseller; la Francia onorò l’audacia della dama americana con la Legion d’Onore.
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Edith Wharton morì il primo giugno del 1937 nella casa dell’amico architetto Ogden Codman, conficcata nell’Île-de-France, ed è sepolta a Versailles, nel Cimitière des Gonards, tra Louis Cartier e Robert de Montesquieu. Candidata per tre volte al Nobel – dal 1927 al 1930 – avrebbe potuto essere la prima donna americana a ottenerlo (il primato andò, nel 1938, alla meno talentuosa Pearl S. Buck). Nel 1921 era stata la prima donna a ottenere il Pulitzer, con il romanzo più celebre, pubblicato l’anno prima, un secolo fa, L’età dell’innocenza. Il romanzo, tradotto innumerevoli volte in Italia – la prima, per Feltrinelli, nel 1960, l’ultima, l’anno scorso, a cura di Mariarosa Bricchi, per Bompiani; in mezzo, nel 2008, per Bur, segnalo la traduzione di Alessandro Ceni – è stato trapiantato in film nel 1993, in modo eccellente, da Martin Scorsese. Il divorzio della Contessa Ellen Olenska – nella traduzione di Scorsese una memorabile Michelle Pfeiffer – adombra quello della Wharton, di entrambe, piuttosto, è lo spirito libero, l’intelligenza audace e sofisticata, la ferocia nei sentimenti. Come si sa, il romanzo ha il suo fuoco nell’avvocato Newland Archer – al cinema, l’ineguagliabile Daniel Day-Lewis – bello, brillante ma imbrigliato nei riti invernali e castranti della sgargiante società americana, sul cui altare sacrifica l’amore per il focolare domestico. Eppure, pare dirci la Wharton, l’amore vero è autenticato dalla rinuncia, forgiato nella distanza – per lo più, nonostante il titolo, insegna che non si ama mai – mai – innocentemente. (d.b.)
*In copertina: Michel Pfeiffer e Daniel Day-Lewis nel film di Martin Scorsese tratto dal romanzo della Wharton, era il 1993