“E io, che specie di fuoco sono?”. D.H. Lawrence, il poeta
Poesia
Giorgio Anelli
Si è reso ormai impossibile scrivere epigrammi ed haiku, se non munendoli di un ombelico da cui disinnescarli. Ciò non sembra ancora ovvio ai poeti ape, alle anime belle e delicate che ingelsominano le staccionate di Instagram. Rupi Kaur e Amanda Lovelace perfette paraninfe. Suggono il meglio: il sostanziato che non ha più sostanza e lo dispongono con stitica parsimonia. Il trionfo del carattere anale.
Con meglio cattiva raffinatezza lo stesso accade fra i poeti più ‘impegnativi’. Elaborano astutamente per un target medio alto: il target circoscritto è il se stesso. E in questo consiste la loro onestà. Costruzioni di fiammiferi per lo più, che come il telaio di una finestra in una sala mostra non possono inquadrare che il nihil della disattenzione. La coincidenza fra materiale costruttivo e contenuto, manna e disdetta, ha reso l’arte un laboratorio o un esercizio di induzione aleatoria. Certi spazi e certe riserve fra un gruppo sempre più esiguo di lessemi-mosaico intercambiabili non producono che perfetti e funzionali generatori di senso. Più che il polmone ormai automatico posto fra la poesia e la prosa, oggi la misura interessa il fronte occipitale fra l’esercizio puro e l’opera. Ho presente un certo generatore di poesia scaricabile gratuitamente sull’app store, il quale in modo ancora incerto ha in sé la perfetta intuizione e quindi il germe di una poesia distopica. Ancora incerta e stesa ‘a quattro di bastoni’ sul suo chiasmo intirizzito. Ma presto con i debiti algoritmi sopperirà completamente alla produzione di un certo tipo di poesia.
Siamo totalmente integrati nel piano bidimensionale di Deleuze ove l’unico plusvalore non proviene che da una inutile quanto sterminata tassonomia. Dov’è che abbiamo deviato? In nessun luogo preciso. L’equivoco è sempre stato in auge.
Mentre De André aggregava filastrocche neutre, la Rosselli spartiva in giuste dosi farmaceutiche la sua serie ospedaliera.
La poesia continua ad essere nei testi “ciò che tutti pensano ma nessuno direbbe”: formula dell’idiozia supina, dove è inutile andare a disturbare le primitive ustioni dell’inconscio collettivo. Le motivazioni per le quali qualcuno si astiene tuttavia dal pronunciare il famoso quid, sempre più biade in verità, sono ancora oscenamente borghesi: la santa vergogna o l’incapacità funzionale. Chi sa ingoiare vivi questi due bigattini ha già bell’e pronto il suo diagramma espressivo in qualche blog diaristico. Uovo deposto a cadenza giornaliera.
Anche noi cui ha toccato ed unto la visione facciamo rotolare per il tavolino, colla punta del naso, la piccola sfera di materia oscura. Giocherelliamo a colpetti di mascella con l’esca incendiaria, senza mai abboccare. Siamo incapaci di guardare frontalmente persino i ciprini dorati di Emilio Cecchi. Quelli che divengono a un tratto orribili maschere di dragoni.
Arte è deterritorializzazione come ogni malattia, e come ogni malattia può e deve divenire comunione di sangue, di angoscia e di anatema da tracannare sino all’ultima stilla. Il poeta offre in dono la testata d’angolo su cui è inciso: sfracellatevi.
A chi conviene ciò? Chi può trafugarle qualcosa che non abbia già dato a stridore di sangue? Si tratta di un’economia a perdere. Di un’autentica ascesi che esclude, checché ne dica Adorno, ogni sorta di astuzia. Dovrebbe essere segnato come bollo all’entrata della poesia per demoralizzare “i pisciatori di inchiostro”. Ciò è troppo serio per essere confuso con l’appendice di una carriera e di un’opportunità curriculare. Nessun neoliberismo: è solo sperpero immane. Chi ha avuto un nome imparerà a confonderlo.
‘Fratello poeta’ non deve far ridere. Francesco parlava agli uccelli come ai chirotteri che nidificavano dietro la sua nuca. Francesco e Kurt sono più prossimi di quel che sembra. La differenza sta nel fatto che Francesco sapeva di essere nell’orto degli ulivi. Così dopo l’angoscia metamorfica lanciava nei precipizi della Verna una spoglia con le sue sembianze. E ciò fu quanto concesse di apotropaico alla sua esistenza. Kurt al contrario fece delle sue spoglie un insostenibile endoscheletro. La sua anima si incarnì come un’unghia malata, e il suicidio fu il luogo impossibile della suppurazione.
Il poeta tratta a fendenti un paraclito a cui non presta fede fino a quando non sanguina davvero; allora crede solo “nel momento maturo in cui dispera veramente” (Micheaux). Si suicida in potenza ogni giorno come una comunione per poter ramificare in spirito.
Antonello Cristiano