29 Marzo 2023

Il poeta-derviscio, il poeta-icona: Nikolaj Kljuev, dall’estasi alla fucilazione

Dire poeta-contadino pare superfluo, un insulto. Non ci si spazientisca in un grigio nitore da paesaggisti del verbo, funzionari nel crogiolo lirico. No. “Il più tipico poeta contadino” – così lo dicevano – non pigia nel mirto i propri fasci di versi, non li perfeziona menandoli con l’ortica: l’aratro – sempre – è figura del coltello di Abramo, il bosco ha le volute del Tempio, i paragrafi nitidezza d’icona.

Nato nel villaggio di Olonec, non lontano dal lago Ladoga, landa di monasteri e di folli di Dio, nell’ottobre del 1885, Nikolaj Kljuev è tra i grandi, misconosciuti, laterali, tragici poeti russi della ‘generazione d’argento’, latebra dorata. Esatto figlio dei “vecchi credenti” – il nonno era un cantastorie, ammaestratore di orsi; il padre un soldato che aveva mandato a memoria i canti dell’epos locale – Kljuev, poeta entusiasta, per lo più estatico, fu una specie di folgore nel parterre dei poeti dell’epoca. Come molti, tentò di coniugare l’ispirazione lirica con la rivoluzione storica: nel 1905, mentre pubblicava per alcune riviste di Pietroburgo, lo vediamo tra le fila dei socialisti; nel 1917 è al fianco dei rivoluzionari. Nel frattempo, frequenta i poeti: trova convergenze con Anna Achmatova e con il marito, Gumilëv; nel 1915 si unisce al gruppo “Krasa” (La beltà) di “poeti neocontadini”. In particolare, frequenta Sergej Esenin, con cui realizza diverse letture pubbliche: la loro poesia, che parte da assunti simili, però, finisce per separarsi.

In Kljuev l’elemento lirico fondamentale è d’impeto religioso: egli è una specie di pittore di icone, al posto dell’oro usa il verbo, in vece delle aureole adotta gli aggettivi; la sua prospettiva è ribaltata, inghiotte chi legge. Pare appartenga alla compagine dei chlysty, setta esoterica che fonde il neoplatonismo ai baccanali di Dioniso, il martirio per flagellazione alla chiamata carismatica. Credevano nella tangibile presenza dello Spirito Santo, nell’avvenuta seconda venuta di Cristo, i chlysty, cristiani anti-ortodossi, nella forza profetica, che smuove il credente facendolo uscire fuori di sé. Per certi versi le loro danze – spesso cruente – sono affini a quelle dei dervisci:

“Il senso e lo scopo delle rotazioni dei chlysty sono di aiutare l’uomo a uscire dal proprio corpo e a unirsi allo spirito divino che prende dimora in lui. Perciò, durante le loro danze, i chlystu cominciano talvolta a profetizzare, predicendo il futuro a uno dei presenti, a ad annunciare la volontà di Dio che è stata loro appena comunicata. L’assemblea ascolta queste profezie con devota attenzione, certa del fatto che a parlare non è un uomo, ma lo Spirito Santo attraverso la sua bocca. Talvolta egli profetizza in una lingua sconosciuta ed ermetica”.

Così scrive Andrej Sinjavskij in Ivan lo Scemo. Paganesimo, magia e religione del popolo russo, studio pubblicato da Guida nel 1993, a cura di Sergio Rapetti, scomparso dai nostri schemi editoriali, che sarebbe ora di recuperare. I chlysty, in qualche modo, raccattano le origini del cristianesimo ‘carismatico’, glossolalico, terragno, saturo d’ira, che Paolo aveva disseccato a Corinto. Il nume avviene per verba, non tramite burocrazia sacerdotale, al diacono sovviene il daimon: occorre invalidare, qui, i distinguo tra oracolo e poesia, tra esegesi e poema. Oscure contadine di informe intelletto, prive di studi, tra i chlysty emergevano come paroliere di Cristo; per capire Kljuev, forse, non è disutile leggere I benandanti, l’opera canonica di Carlo Ginzburg, in cui si riferiscono i riti dei contadini friulani del XVI secolo.

Kljuev era un tipo strano. In quel repertorio di ‘personaggi’, specie di cilindro da prestigiatore, che è Poesia russa del 900, così lo descrive Angelo Maria Ripellino:

“Lo si vedeva per le vie di Pietroburgo, simile a un personaggio d’opera con un cilindro di feltro rustico e un’assisa pseudocontadina. E il suo appartamento pietroburghese era adorno come un’izbà di Olonec, con il soppalco intagliato, le imposte dipinte e uno scrigno di icone dell’epoca anteriore al patriarca Nikon”.

Pare sia stato invitato a Baku, il poeta, “per dirigere un centro di settari, che manteneva misteriosi legami con i sufi persiani e con oscure fazioni mistiche dell’India”. Di certo, la poesia di Kljuev, anche quella che sembra non discostarsi dalla campitura di campi e saggine, custodisce una saggezza remota: bisogna scrostare con l’unghia del mignolo la superficie lignea. (Sempre fare così quando si legge poesia: raspare con le unghie, perché l’oscuro dia di brillio, e alla foce di un aggettivo, di una banale congiunzione, un bananeto di placide virgole, si assista a giuntura ultramondana – oppure immonda, tuttavia, poesia).

Ancora Ripellino:

“Kljuev attinge a profusione dal dizionario antiquato dei libri di chiesa e inquadra i paesaggi come le miniature dei salteri. Non c’è lirica in cui egli non inserisca un fregio verbale, tolto da testi sacri o da leggende dell’antica letteratura russa. Espressioni monastiche, termini arcaici che stornano chi non conosca le vecchie lettere russe, nomi di personaggi favolosi coprono fittamente come una rete di rabeschi i componimenti di Kljuev”.

Già s’intuisce che vita breve doveva avere il poeta contadino & mistico nei grovigli metallurgici della Rivoluzione. Quasi subito – dal 1920 – Kljuev viene radiato dal partito bolscevico, a causa delle sue pratiche religiose. Si unì per un po’ a Osip Mandel’štam, si scrisse con Boris Pasternak; amava Blok, la sua situazione economica sfiorì, a precipizio. Il suicidio di Esenin lo convinse che la sua utopia era mero inganno: la Rivoluzione non avrebbe esaltato il mondo contadino, l’estrema tradizione russa, ma, nel putiferio della nuova industria, lo avrebbe distrutto per sempre – salvo rimpiangerlo, nelle cartoline e nei libri di scuola, nell’ornamentale ideologia.

Dal 1927 i giornali metropolitani cominciarono un letale lavoro denigratorio ai suoi danni: i poeti contadini apparivano, nella moderna Russia, dei meri reazionari. Da lì all’arresto il passo era breve. Kljuev, privo, materialmente, di tutto, chiese ospitalità ad amici; ogni tanto Gor’kij, patriarca del realismo socialista, gli passava un turibolo di denari; denunciò apertamente le storture e le censure della cultura sovietica.

Arrestato dal 1934, Nikolaj Kljuev è fucilato per attività antisovietica nel 1937

Nel 1934 viene arrestato una prima volta per “aver diffuso opere antisovietiche” e condannato a cinque anni di lavori forzati. L’indigenza ha reso Kljuev un uomo esangue, fisicamente infimo, pura lode, pura bestemmia di nervi.

Il copione è quello consueto, capitato ad altri poeti del suo talento, captati dalla polizia segreta sovietica: il governo impedisce la pubblicazione, infama l’opera, arresta, condanna, condona. Arresta ancora. Rilascia. Arresta ancora. Fino alla morte. Per soffocamento. Per iniquità. Per sfinimento. Nel caso specifico, Kljuev è arrestato nel 1936 con l’accusa “di aver partecipato a un’inesistente organizzazione controrivoluzionaria”. Viene rilasciato perché inerme, è “paralizzato in tutta la parte sinistra del corpo”. Viene arrestato ancora una volta nel giugno del 1937. Ovviamente, il poeta si dichiara sempre innocente – riguardo alle accuse mossagli, lo è.

Quando Ripellino scrive la sua antologia, oscura è ancora la sorte di Kljuev, “nulla si sa di preciso intorno alla sua morte… sembra sia morto per un attacco cardiaco in una stazione della ferrovia siberiana”. Cuore rapito dallo Spirito, colomba con becco d’aquila, mentre recita rapinoso un salmo siberiano. Magari. Non è così. Oggi sappiamo che Kljuev muore presso Tomsk, tra il 23 e il 25 ottobre del 1937, “durante una fucilazione di massa”. Il suo corpo, infine, finisce all’ammasso, in una fossa comune. Corpo-corpus delibato dai vermi del niente.

L’opera di Nikolaj Kljuev è pressoché assente in Italia: nel 1998, per San Marco dei Giustiniani, Paolo Galvagni pubblica Il bianco delle margherite. Eppure, Kljuev, in qualche modo, si è ‘consegnato’ all’Italia. Nel 1931, certo di non poter pubblicare nel suo paese, il poeta dona a Ettore Lo Gatto una copia di Pogorel’ščina, poema che ritiene il suo capolavoro. Si erano conosciuti due anni prima:

“Egli mi affidò il manoscritto del suo poema Pogorel’ščina (titolo intraducibile; vi è un riferimento a ciò che brucia in senso non materiale, ma spiritual-religioso), che egli considerava il suo capolavoro, ma che non gli avrebbero permesso di pubblicare in Russia. In seguito venni a sapere che del poema si era conservato solo questo esemplare ed io non potevo immaginare che sarebbe venuto tanto presto il giorno in cui avrei mantenuto la promessa a lui fatta di stamparlo all’estero solo dopo la sua morte. Sebbene sapessi che era malato e che era anche sempre sotto la minaccia di essere arrestato o esiliato, tuttavia nutrivo la speranza che il destino sarebbe stato con lui più clemente”.

Ettore Lo Gatto, I miei incontri con la Russia, Mursia, 1976

Il lavoro è stato compiuto – specie di risarcimento, di restauro dell’icona fratturata – da Roberto Sarracco dieci anni fa, entro una tesi di dottorato in slavistica, discussa presso l’Università Cattolica del Sacro di Milano, sotto la tutela di Serena Vitale. La dedica di Kljuev a Lo Gatto, vergata nelle pagine interne della raccolta Pesnoslov, ricalcata e tradotta da Sarracco, rendono l’indole di questo poeta derviscio:

“O miei canti di Olonec, o gru e colombi del lago – volate oltre l’azzurro mare sotto il cielo di zaffiro della bella Italia! Inchinatevi per me nell’eterna città di Roma, all’antica cenere del Colosseo, alla tomba del miracoloso tra i santi russi Nicola il Misericordioso, alla tomba del dolcissimo fratello dei pellegrini mendicanti Alessio Uomo di Dio, ai pini dell’Umbria e alla benda frontale di San Pietro! Raccontate loro, o miei canti, che i campi russi hanno generato nel pantano l’erba medica, che come pianto risuona il fruscio delle betulle di Novgorod, che come sangue scorre la Madre-Volga, che per l’angoscia e il dolore del suo cuore corazzato s’è soffocato ingozzando la nera mota il bufalo Jrtyš – confraternita di Ermakov, la rossa piatta coppa del regno di Siberia, che con ululato di lupo ululano le isbe patrie, sono ammutoliti i camposanti a faccette e le tombe dei nostri avi sono gettate in mucchi pestiferi e fetidi”.

Forse ogni poeta, purché tale e non in talea di inganni, ha mani settarie e lingua pari a una tiara – per questo, qualsiasi potere, ipotenusa d’idolo, dio fantoccio, fittizio, tende a ucciderlo, con esilio, minaccia, ostensione d’oblio.

*

Il crepuscolo silvestre è un monaco
dietro un libro d’ore arabescato,
splendono di antimonio le vignette
nell’oro purpureo dei fogli.

E i frati-ceppi con devozione
prestano ascolto ai suoni del breviario.
L’estrema luce, smorzando i suoi fuochi,
si appanna come l’aureola di un’icona.

Vecchio romito di camposanti boschivi,
ringiovanisco nel vespro di maggio,
sospirando sopra una picea caduta
per il destino di chi mi è caro.

A te, divenuta reliquia silvestre
dopo una vita possente di lotta,
sia luminoso l’oblio
nel tempio di conifere dalle molte cappelle!

Un’onda di caligine di smalto
lava il cinabro dei tronchi
ma severo e perenne è il libro d’ore
sopra la conca dov’è il reliquiario.

Traduzione di Angelo Maria Ripellino

*

Da Pogorel’ščina

IV

Pavel, il pittore d’icone, da tempo qui trasferito
dai Grandi Mstery, è padre di Dubravna,
la lingua del pescatore grida così la sua gioia…
Pavel ha tatto e vista di foca:
come per la foca le aringhe nella caligine salata,
così per il veggente è il rito dell’icona.
porpora e ocra, azzurro e lilla,
fioriscono zampette di gazza sotto l’abete,
sui declivi scoscesi i sorbi filano
cocciniglia, rosso di bacca e fuoco di roveto.
L’asse ricavata dal cuore di un pino rossiccio,
è per l’iconografo come favo di miele,
emana incenso profumato di viole, e lo spirito del bosco
ronza come ape nelle vene dei pini.

V

Apparirà l’Icona, arriverà in volo la gru:
appena come allodola risuonerà la terra,
nelle dita e nelle pupille dell’umile Pavel
accorreranno in volo schiere d’arcobaleni con pavoni,
per far nascere uccellini, cigni celesti,
nei boschi di ciglia, nelle insenature delle unghie,
i loro sciabordii, le trombe con le penne azzurre
a Sigovec vengono detti “sfondo dell’icona”.
I pittori di Dio prendono la “Visione del Volto”
ora dalle tenebre dei boschi, dove brucia la miccia,
ora nel profondo dei laghi, dove la luna tessitrice
siede triste alla finestra, al telaio d’ambra.
Come anatra è dipinto il destriero di Egorij,
il felonio di Mikola come acero a croce,
la Dormizione: piumette di tortora nel cavo dell’albero,
quando si trebbia e c’è quiete nel villaggio.
La crocifissione come rafano: il succo di rafano
brucia le labbra come i chiodi della croce.
Ma ancor più bello e tenero è per l’isografo vedere
nei recinti dove sono rinchiuse le oche,
ceste furbastre e nodi alle cinghie
per mille bianchi colli di ninfea,
l’icona del Giudizio e la tormenta d’ali sono ombra
di questo mondo, dalle mammelle fino alla tomba.
Il Kola ghiacciato, le terre del Volga e il Don stanno saldi
non grazie al ferro, ma alla cera davanti alle icone.
È arte molto complessa quella del vasaio,
è la gloria di Vjatka e del villaggio di OpoGnja;
fiorisce l’Ucraina di vasi scarlatti
e Vjatka di kungany, e del cavalluccio per bimbi.
Conosce invece Sigovec il fiume Andoma,
lì nelle brocche fa cucù senza tregua il cuculo,
la gru-lavamano fa sempre curlì.
e da cent’anni bollono i paioli…

Traduzione di Roberto Sarracco

Gruppo MAGOG