La vita di Jacques Prevel è votata alla vita di Antonin Artaud. I due si incontrano al caffè Flore, Parigi, il 27 maggio del 1946. Artaud ha “il basco calcato fino alle orecchie, la faccia stravolta”. Immediato, l’affetto patriarcale, il segno che sigilla una parentela tra assoluti: “Assomiglia a mio padre alla fine della vita, il labbro a lama di coltello, la parola tagliente”. Jacques si fa figlio di Artaud, primo discepolo dacché ultimo, il paria, lo sconosciuto – il Pietro/pietra. Consapevole che stare al fianco di Antonin richiede abiura di sé, abitare l’aporia. Due giorni dopo, Artaud gli parla “dei Lama del Tibet”: recluso a Rodez, gli pareva di essere a Lhasa, “i Lama si erano serviti di me. Ero preso nella loro catena”. E poi: “Lo sa, signor Prevel, ci sono milioni di persone che mi fanno delle stregonerie e cercano di nuocermi”.
Jacques Prevel ha poco più di trent’anni quando conosce Artaud: è nato il 22 luglio del 1915 a Bolbec, in Normandia. A Le Havre, dove esercita diversi lavori, sposa Rolande, una maestra; dal 1942 i due si trasferiscono a Parigi. L’unione – da cui nasce un figlio – non vieta il reciproco tradimento. Nella capitale, Prevel entra in contatto con Roger Gilbert-Lecomte e René Daumal, vive la povertà, lo strenuo isolamento, pubblica i primi versi – Poèmes mortels, Poèmes pour toute mémoire – a proprie spese, da improprio al tempo. Di Artaud, Prevel registra ogni singolo singulto: la dipendenza dalle droghe, le bestemmie, la rude innocenza, l’ignominia della gente che infama il genio (“Diversi vicini si lamentano delle grida di Artaud e minacciano di sporgere una lamentela. La gente è disgustosa”).
Un giorno, descrive la meccanica creativa di Artaud. Senza allerta né allenamento, così come viene, “Artaud ha iniziato a fare dei movimenti nervosi. Improvvisa dei canti, scrive le parole di quello appena improvvisato”. Attacca un dire glossolalico (“lo garbant/ a ta ma muna/ ya ma muna/ ata mura”), “Artaud canta a lungo su un tono sempre più acuto e selvaggio, facendo dei gesti nervosi, poi rimane immobile e si mette a scrivere”. Atto sciamanico, ritualità distorta. Parola che si fa atto – Ivry come Delfi.
Come una torcia gettata in gola, Artaud illumina e incenerisce la vita di Jacques Prevel. Avvitato nel voto, Prevel si avvia naturalmente a morire la morte del suo maestro. Che il maestro non riconosca allievi, non possa allevare nessuno alla mantica del suo verbo, mangiatoia che si fa ghigliottina, è proprio della sua maestria. Quando muore Artaud, Prevel perde la voce. Antonin lo cercava, per lo più, per farsi dare dall’amico laudano e oppio. Pareva bello, Prevel, della genia degli angeli dalle ali mozze, che hanno attentato al cielo e sono rei al fango, morituri in un fasciame di elitre. Tutto si capisce dai versi: sbalzati nell’urlo, sbalorditi nell’ora-o-mai-più, sempre febbrili.
Sfiancato dalla tubercolosi, Prevel muore alla fine di maggio del 1951, cinque anni dopo il suo incontro con Artaud, nel sanatorio di Sainte-Feyre. Alcuni versi adornano la sua lapide, nel cimitero di Bolbec:
“Sono stanco della nebbia che si sfascia stanco di questa miseria e immagino un amore in cui vivere senza pianto immagino un paese dove morire senza rimpianto”.
L’opera più nota, En compagnie d’Antonin Artaud, esce nel 1974 da Flammarion, per la cura di Bernard Noël; in Italia è pubblicata da Giometti & Antonello, nel 2015, nell’impeccabile cura di Antonio Malinverno (cioè per amore di Danni Antonello).
Poeta consegnato a registrare la vita di un altro, come uno di quei padri confessori che inscrivono le visioni delle isteriche consacrate, delle mistiche in estasi in libri ispirati da passare ai secoli, Jacque Prevel non è stato semplicemente lo scrivano di Artaud. Scrutare una vita, riferirne il trono e il distillato di veleno e d’oro è già il premio del poeta. Nel 1950 Jacques Prevel pubblica la sua ultima raccolta di poesie, De Colère et de Haine per le éditions du Lion, con una lettera introduttiva di Artaud, che tra l’altro scrive:
“La sua poesia è sotto la terra. La terra di parecchie catastrofi ammucchiate, e che dopo aver tanto sofferto e sentito l’infinito timore dilaniare la sua faccia, il suo cuore è sul punto di saltare di fronte all’ultimo, sempre l’ultimo, sempre così ironicamente e derisoriamente ultimo supplizio per lei preparato; ancora sofferenza, e soltanto da essa essere nato, questo è quanto l’intera coscienza proferisce. Ora, coloro che lo proferiscono più forte nemmeno hanno sofferto tale embrione di supplizio, né quest’arte che non cessa di perseguitare l’esistenza di Jacques Prevel”.
Col tempo, Prevel, discepolo al lato destro di Artaud, è divenuto figura cultuale, parte del reliquiario artuadiano. Jacques Prevel ou la dérive vers l’absolu è il titolo di un saggio di Bernard Polin edito da L’officine nel 2002. Chissà. Forse, infine, il biografo ha oltraggiato – omaggiandolo – il proprio eroe, la penna non era che un’arteria, il paragrafo la pietra d’angolo del cuore. Infine, scrivendo di Artaud, Jacques Prevel ha ritratto se stesso. Che il tutto sia irregolare, con la bassa inquietudine delle faine, è perfino ovvio.
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Mi rifiuto di credere che la veglia sarà incenerita dalla limpidezza del glaciale mattino mi rifiuto di credere che lo specchio non carderà la mia ombra mi rifiuto di credere che tutto sarà pari alla crudeltà, decollato dal tempo mi rifiuto di credere che le mie parole non saranno mai udite mi rifiuto di credere che questa vita non mi consegnerà a una gloria più sofisticata e implacabile della ragione mania più vasta di ogni gloria.
* Meccanica dell’assoluto luce che flagella la faccia quando sarò libero dalla tua nera desolazione sole frantumato dalle interdizioni totem della più totale devianza ti aspetterò, come sempre, con il mio diafano e insanguinato viso.
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Tutto intero nel niente spaventato miserabile folle non sono un uomo stravolto dallo stupore non sono l’uomo che torna e che va sono un uomo spaventato il cui stupore è una fiamma
Saturi di responsi, non potete dirmi il perché di questo scandalo: si rifrange come l’incendio domina il mio io informe.
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La terra è spoglia, sepolta dalla neve e il muro è spezzato, incolore sommerso dai fiocchi che cadono: tutto sembra una realtà illusoria che nasconde, se ascolti bene, una qualche crocefissione il vento non soffia mai e il tempo dilata lo spazio della menzogna impotente, la rabbia sopravvive in questa monotonia scavata con sale amaro e lacrime e urla: è tutta questione di sonno nient’altro che sonno: folle stretta della sordida ansia eternità elargita dai pigmei.
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Nascerà la magica primavera che spezza l’orrore. Orrore è ghiaccio su ferro immacolata neve e sangue cristallizzato sul ferro asimmetrica angoscia sui nostri volti pari a un delirio osceno vendetta dopo l’incommensurabile attesa veleno della pace impossibile e la primavera avrà il viso dell’annegato di ritorno dopo un troppo lungo soggiorno nei dedali del sonno senza accesso.
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Piena carne di vita sregolata e snervante credevi che bastasse un sogno a ingannarti
Non credere alle stelle filanti della voce centuria di alcool nei pressi dell’inaccettabile gli uomini si perdono ogni notte in una città dal sangue che batte conquistatori senza cronaca penetrano negli annali delle maschere derisione di sperma scialacquato in fumo
Ma cosa importa se l’uomo ne è privo? Mi si è rivelata la loro solitudine lussuriosa di gloria e ho custodito questa battaglia di bambini negli occhi di una donna che me ne racconta mentre varco i corridoi di una vita malata e corro con il mio cuore a pezzi.
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Ti ho ascoltato e ti ho seguito Antonin Artaud nel clamore e nel sarcasmo del Tutto ho sondato le ombre, stabilito il tuo delirio, incarnato la tua vita autentica senza sospettare la morte senza capire che il mio destino era vivere solo e maledetto senza capire che le tue parole in me avrebbero preso forma di piccoli esseri potenti che ricattano con l’orrore della demenza morte che incombe sulla mia vita da molto tempo.