“Ho vissuto il nome amato…”. Un’idea di poesia
Poesia
Francisco Soriano
Al numero 29 della “Biblioteca di Babele”, leggendaria “collana di letture fantastiche diretta da Jorge Luis Borges” (da notare: non di letteratura fantastica, il ‘genere’ non c’entra con l’incantamento letterario), appare il nome di Lord Dunsany. Nel ciclo di 33 libri, Il paese dello Yann – questo il titolo – sta tra i Racconti argentini (dove Borges incorpora, per dire, Julio Cortázar, dimenticandosi, rabbiosa umiltà, di se stesso) e i Racconti russi (soltanto tre, diversamente straordinari: Il coccodrillo di ‘Dost’, La morte di Ivan Il’ič di Lev, Lazzaro di Andreev). La copertina – magnetica, come sempre – è didascalica: un uomo, ancorato all’asta, maneggia la barchetta sul fiume, attorniato da alti boschi; l’incipit del racconto che dà il titolo al libro attacca così:
“Attraversato il bosco, scesi alla riva dello Yann, e là trovai, com’era stato profetizzato, la nave Uccello del Fiume, pronta a mollare gli ormeggi. Il capitano stava seduto, a gambe incrociate, sulla bianca coperta, la scimitarra al fianco, affondata nella sua guaina smaltata di pietre preziose; e i marinai scioglievano le agili vele per guidare la nave al centro dello Yann, e intanto cantavano vecchie canzoni di pace”.
Naturalmente, il fiume Yann non esiste – come non esiste su questo pianeta “Pungar Vees, la rossa città murata” e neppure Mandaroon, su cui “regnava una calma di morte”, se non in un Indocina del cuore. Il sogno, in questo racconto, ha un ruolo essenziale.
Nel ciclo di libri ideati da Franco Maria Ricci insieme a Borges “dopo qualche giorno passato a Buenos Aires, città labirintica e speculare”, Lord Dunsany è forse, fra tutti – si va da Jack London a Franz Kafka, da Herman Melville a Gilbert Keith Chesterton e Robert Louis Stevenson –, il nome meno noto. Eppure, per spregiudicatezza immaginativa e compostezza narrativa, Lord Dunsany è, fra tutti, lo scrittore più prossimo, letterariamente, a Borges. Basta un lettore lattante a capirlo. Questo è l’incipit di Dove sale e scende la marea:
“Sognai di aver commesso un atto orribile, tanto orribile che mi fu negata sepoltura in terra e in mare, e neppure v’era inferno per me.
Attesi alcune ore con questa certezza. Allora vennero i miei amici, e segretamente mi assassinarono, e con antico rito, fra grandi torce accese, mi portarono via”.
Così attacca La spada e l’idolo:
“Era un freddo e lento crepuscolo invernale nell’età della pietra; il sole era tramontato, fiammeggiante, dietro le piane di Thold; non una nuvola in cielo, solo il gelido azzurro e l’imminenza delle stelle; la superficie della terra addormentata cominciava a indurirsi col freddo della notte. In quel momento si mossero nelle loro tane, si scossero e uscirono furtivamente quei figli della terra per cui è legge uscire a vagare appena calano le tenebre. Camminavano per la pianura zampettando silenziosi; i loro occhi brillavano nell’oscurità, e le loro traiettorie si intrecciavano”.
Lord Dunsany – in realtà, Edward John Moreton Drax Plunkett, barone di Dunsany –, angloirlandese che dimorava in un castello normanno eretto un millennio fa, Caisleán Dhún Samhnaí, amico di Yeats, scacchista per diletto (ideava enigmi scacchistici, giocò per sfizio contro Capablanca), non si pone, in letteratura, problemi di tempo e di spazio (scrive di cavernicoli come di astronauti, in terre ormeggiate nel sogno o tratte da una cronaca di oggi), mantenendo, al cospetto del ‘fantastico’, un aplomb che sorprende. Paragonate Il paese dello Yann – uscì nel luglio del 1981 per FMR, nella traduzione di Gianni Guadalupi; ripreso da Mondadori dieci anni dopo, è ora scomparso dai comparti librari – agli ultimi libri di Borges (Il manoscritto di Brodie, Il libro di sabbia) e scoprirete un inatteso gemellaggio.
“È straordinario che il nostro tempo, tanto prodigo di sonora pubblicità, insista nell’ignorare Lord Dunsany”, scrive Borges nella complice Introduzione alla raccolta di racconti. Anche oggi, va detto, Lord Dunsany è un nome ignoto ai più: per anni relegato ai margini dell’editoria (Francesco Saba Sardi tradusse per Sonzogno, nel 1974, La maledizione del veggente; le Edizioni della Terra di mezzo hanno stampato più volte La figlia del re degli elfi), dopo un effimero passaggio tra i grandi (Demoni, uomini e dei è edito da Mondadori nel 1989, grazie a Giuseppe Lippi) è tornato da qualche anno in Mondadori (Il libro delle meraviglie e altre fantasmagorie, 2020). Non pare che ciò abbia sortito particolari effetti.
Lord Dunsany è, sostanzialmente, un creatore di miti: secondo i critici The Gods of Pegāna (1905), il primo – e miliare – dei suoi circa novanta libri, ha alimentato la fantasia di H.P. Lovecraft (per il “Ciclo di Cthulhu”) e confortato quella di J.R.R. Tolkien nello sfaccettare – con inarrivabile sfacciataggine linguistica – il Silmarillion. Il tono del libro, un regesto di celestiali cronache, è austero, un linguaggio che dà di clangore: alle spalle, certo, ci sono i biblici libri dei Re, ma soprattutto le cosmogonie babilonesi (il londinese George Smith aveva tradotto tratti dell’Epopea di Gilgamesh nel 1872):
“Isole esistono nel Mare Centrale, le cui acque non sono scortate da riva e su cui non arrivano navi – questa è la fede di quel popolo.
Dalle nebbie che precedono l’Inizio, Fato e Caso azzardarono la sorte per decidere a chi dovesse essere assegnato il Gioco; il vincitore dissodò le nebbie, giunse da Māna-Yood-Sushāī e disse: ‘Ora fai per me degli dèi, perché ho vinto e il Gioco è mio’”.
Per questo giocoliere del mito, che si muoveva in direzione opposta a Yeats (il quale recupera l’antica favolistica irlandese, senza idearne una ex novo, cruenta), Borges andava in brodo. Con un distinguo:
“La cosmogonia di Dunsany è stata paragonata a quella di William Blake, anteriore di un secolo. C’è una differenza essenziale: quella di Blake corrisponde a un rinnovamento totale dell’etica, che derivava da Swedenborg e che Nietzsche prolungherà; quella di Lord Dunsany, a un libero e allegro gioco della fantasia”.
Forse a Borges piaceva proprio questo:che non vi fosse ragione etica nell’estro fantastico, che un mondo ideato dal nulla potesse reggersi da sé – esimio strapotere della mente. Con il titolo Gli dei del pegāna, per altro, quel libro ha avuto un rapido passaggio nel sottosuolo – fertilissimo – della nostra editoria (per Golem, 2017, traduzione di Roberto De Angelis).
La ragione dello scarso successo di Lord Dunsany si deve a un clima culturale poco avvezzo alla letteratura fantastica e all’intrigo tra i miti (se non in stallatico pop: tra graphic novel e grande cinema); abbiamo ancora l’arcano pregiudizio che la letteratura debba essere ‘utile’ alle conquiste ‘sociali’ del nostro tempo. Così, nel 1950, la commissione del Nobel per la letteratura accantonò la candidatura di Lord Dunsany proposta dall’Irish PEN; il premio andò al più razionale, ragionevole e presentabile (diciamo così) Bertrand Russell. Eppure, a ragione del suo lignaggio, Lord Dunsany non si limitò a shakerare l’intelletto nella sua torre d’avorio – attitudine tutta borghese –: dalla Seconda guerra boera alla Seconda guerra mondiale fu diversamente impegnato sul campo. Resta fatale la conclusione di Borges:
“Nel nostro secolo di noti scrittori impegnati o di cospiratori che ansiosamente ricercano il proprio cenacolo e vogliono essere gli idoli di una setta, è insolita l’apparizione di un Lord Dunsany, che ebbe molto del giullare e si affidò con tanta felicità ai sogni. Non evase le circostanze. Fu un uomo d’azione e un soldato; ma anzitutto fu l’artefice di un beato universo, di un regno personale che fu per lui la sostanza intima della sua vita”.
Si può forse chiedere di meglio a un’esistenza letteraria e terrena? Occasionalmente, Lord Dunsany scrisse delle poesie, di cui qui abbiamo tradotto un breve repertorio. Le più note sono quelle di guerra, assemblate, tra l’altro, da George Herbert Clarke, in un’antologia – A treasury of war poetry, British and American poems of the world war, 1914-1919 – che la dice lunga sulla mitologia patriottica britannica. Le poesie di Lord Dunsany stanno al fianco di quelle di Chesterton, di Hilaire Belloc, di Edith Wharton e di Rudyard Kipling, di Thomas Hardy, Rupert Brooke e Sara Teasdale. Noi abbiamo preferito quelle che riprendono i temi della sua più vertiginosa narrativa: il cauto esotismo, le presenze misteriose in atto d’assedio, il mondo retto dal caso e dal fuoco.
Resta un pezzo d’arte il cammeo biografico istoriato sull’ombra del Lord da Borges:
“A dodici anni ereditò il titolo di baronetto. Fu soldato, fu cacciatore di leoni; questa censurabile abitudine gli ispirò le poche pagine autobiografiche della sua opera. Fu abile scacchista e ha lasciato molti problemi di scacchi. Fu un buon giocatore di cricket. Scrisse poesie intense ed epigrammatiche. Non accondiscese mai alla polemica; tutta la sua opera è basati sui sogni… Nel 1921 dichiarò: ‘Non scrivo mai sopra ciò che ho visto; scrivo sopra ciò che ho sognato’… Questo gentiluomo alto e magro, buon conversatore e cordiale, fu amico di Kipling, di Moore e di Yeats. Grazie a un’indiscrezione di Pedro Henríquez Ureña, che lo incontrò negli Stati Uniti, dove si era rassegnato a tenere conferenze, sappiamo della sua commovente necessità di essere ammirato”.
Non trovava sconveniente passare i giorni, appena sedate le piogge, a cercare gli elfi nel muschio – quasi che i piccoli esseri crescessero come funghi, quasi che l’acquazzone non fosse in fondo diverso da un incendio.
***
Notte
Cade la notte sulle plaghe
del Sahara: gli Arabi che non
ho mai conosciuto tempestano
di fuochi l’oscurità.
Dai grani di cenere
qualcuno scorge
l’atomo che ha
risvegliato il fuoco.
Nello Spazio selvaggio, nel buio
nebulose spirali
fanno roteare, fiamma
dopo fiamma, ciò che siamo.
Chi può dire perché
sono sorti e che fine
faranno? Parlo agli Spiriti
che mi intimano il silenzio.
*
Canto del malvagio bosco
Ira non irrompe tra le stelle:
non rovinano furibonde ni cieli.
Le fisso dal malvagio bosco
e mi chiedo perché
perché non urlano, non
si annientano stella dopo stella
razziando il sangue della foresta
come tutte queste creature?
Non scintillano feroci come il cielo
non lampeggiano come l’oscura selva
ma brillano soffici ed è sacra
la loro solitudine.
Nelle loro felici tane
si è rifugiato il silenzio:
chi amavamo un tempo
ora sappiamo dov’è.
Quando tornerà, fosse
pure per un attimo? Chi
amavamo non c’è più
e il mondo è rimasto solo.
Gli ancestrali giganti avanzano
qualche volta, da lontano,
nella bruna ambigua luce
creata da una stella terrena.
Il gigante con la clava
il nano eletto alla rabbia
e quella creatura ancestrale
sono i figli della Morte.
Insieme, vagano nella notte
spezzano i colli e seminano
mostruosità: ma gli uccelli
anche in questo bosco, dormono.
*
Le maree
Infine, arrivò la marea:
e vidi i morti occhi delle case
e la gelosia e tutto ciò che abbiamo
dimenticato, che la tempesta ha scorticato.
Passarono secoli tra una marea e l’altra
greti di solitudine tra le dimentiche cose.
Ma io non mi sono mai mosso
incurante delle tenaglie del fango:
né sommerso né libero
desidero la carezza della Terra
voglio rientrare nel grembo del Mare.
*
Gli incanti
Arriva, arriva dagli alti giardini
il canto a cui non abbiamo dato attenzione
un’unica nota, limpida, lassù, sui colli
creata da elfica canna.
Dalle nascoste valli, dai popoli remoti
arrivò così pura
che si fermarono sui sentieri
e non poterono non ascoltare.
Anche il merlo, presso i ciliegi
maturi di fine giugno
non fece un cenno: immobile
imparò quello sconosciuto canto.
Devi averlo sentito anche tu mentre camminavi
è certo, devi avere udito quel canto
che proviene dal popolo incantato
un canto mai cantato prima
sorto da profonde valli
dopo notti insonni
che ripete nenie immortali
antiche favole danzate sulle alture.
Ma il muschio è nero sui sentieri
le erbe sono rudi e crudeli:
non riuscirono a trovare nessuno
e il sonno fece di loro razzia.
Un giorno qualcuno ci chiamerà
con un canto umile e duro, continuano
a dirsi: ma il canto è risuonato come rapace
sopra i deserti – non tornerà più.
Lord Dunsany
*In copertina: John Bauer, Princess Tuvstarr gazing down into the dark waters of the forest tarn, 1916